Un cuore pulsante per l'Africa
«Noi ad ogni modo restiamo al nostro posto, capiti quel che capiti; il Signore sa che ci siamo. La gente ci vuole bene».
Balbido del Bleggio (Trento - Italia)
Paulis (Isiro - R.D.Congo)
P. Remo Armani nasce il 7 ottobre 1917 a Balbido del Bleggio, dove la sua famiglia era stata sfollata dal paese di Agrone a causa della guerra. Terzo di cinque fratelli, cresce allegro e vivace quanto generoso e leale. Manifestatosi presto il desiderio di diventare sacerdote, inizia il ginnasio al Seminario diocesano di Trento. Proseguiti e ultimati gli studi liceali e teologali, viene ordinato il 29 giugno 1941, quando già il mondo era caduto nel baratro della seconda guerra mondiale.
Svolgerà in diocesi il suo ministero fino al 1948, prima come cappellano a Grigno e a Riva, successivamente parroco a Carisolo e a Campi di Riva. «A Carisolo - raccontava il parroco di Agrone, nativo di quel paese - era molto benvoluto, specialmente dagli uomini. Volevano che restasse. Aveva un carattere gioviale, sapeva prendere gli uomini per il giusto verso». Riusciva dunque ad accattivarsi la simpatia e la confidenza della gente semplice, tanto che i parrocchiani lo sentivano come uno di loro.
Il cuore si allarga al mondo
Ma è nel periodo trascorso a Campi, piccolo paese di trecento anime, che si manifesta in lui la vocazione missionaria: le sofferenze della guerra (lì aveva pure rischiato la vita, durante la ritirata dei tedeschi, per salvare la sua gente) avevano allargato il suo cuore a comprendere chi soffre, chi non aveva aiuto, chi ancora non conosceva Gesù. «Qui c’è poco da lavorare - aveva confidato alla madre, riconoscendo che nemmeno la vita di parrocchia più gli bastava -Che gusto si prova ad essere prete e a restare senza far niente? Vorrei fare il missionario». La spinta decisiva, che suggellerà una sua inclinazione per la vita missionaria presente fin dagli anni del seminario, arriva durante un corso di esercizi spirituali, nel 1948.
Il 30 agosto di quell’anno si presenta alla Casa Madre della Congregazione dei Padri Comboniani di Verona: entrerà nel noviziato a Gozzano in provincia di Novara. Qualche mese dopo aver emesso la professione religiosa, il 4 giugno del 1950, è già in partenza per il Sudan meridionale.
Evangelizzazione e promozione sociale
Il 24 ottobre p. Armani è a Mupoi, dove inizia lo studio della lingua degli Azande; alla fine di novembre inizia la sua opera di apostolato nella missione di Yubu, incaricato della sorveglianza dei catecumeni. Era il tempo del post-colonialismo, e il nuovo governo indigeno avrebbe reso ben presto la vita difficile a tutti, missionari compresi.
P. Remo viene poi trasferito a Naandi nel febbraio del ’52, e a Tombora un anno dopo, ma solo per pochi mesi data la nomina a Superiore della “stazione” di Rimenze, una missione che cominciava a svilupparsi. Sono anni di lavoro intenso e di sacrifici, ma la fatica viene compensata dalla benevolenza con cui è accolto dai suoi Azande.
Gli anni trascorsi a Rimenze - la Missione conta 40 cappelle sparse nella foresta, le più lontane a quasi duecento chilometri di distanza - sono i più belli della sua vita missionaria:
p. Remo aiuta i confratelli nei lavori,ma predilige in modo particolare dedicarsi alla formazione dei catechisti, dei catecumeni, e alla cura pastorale degli anziani e dei malati. Impianta pure una fabbrica di mattoni: con quei mattoni avrebbe costruito due edifici scolastici, otto grandi aule, capaci di accogliere più di duecento scolari. La sua presenza era molto attesa anche nei villaggi dei dintorni. Era sempre sereno e infondeva allegria ai confratelli, ma sapeva anche essere energico qualora la situazione lo avesse richiesto.
La carità non conosce barriere
Nell’agosto del 1955 nel Sudan meridionale scoppia la rivolta contro le popolazioni arabe del Nord: al dominio inglese era infatti seguita, dopo la concessione dell’indipendenza, la formazione di un governo arabo, con l’esclusione quindi dalla vita politica delle popolazioni del Sud, in prevalenza animiste e con una minoranza cristiana. La situazione per i missionari, dagli arabi accusati di cospirazione e di essere strumenti dell’imperialismo, sarebbe presto diventata difficilmente sostenibile. Ma intanto p. Remo ha modo di riscuotere apprezzamento anche da chi avversava il cristianesimo. Saputo che un arabo era riuscito a fuggire nella foresta per sottrarsi alle rappresaglie degli insorti, lo va a cercare, da solo e disarmato: lo trova, e lo porta alla missione dove lo nasconde in un piccola cappella, salvandolo così da morte certa. Qui lo tiene per due settimane, e ogni notte gli porta cibo e medicine per aiutarlo a ristabilirsi.
Una volta ritornati al potere gli arabi, nel febbraio dell’anno seguente, p. Remo riceve, per quel gesto di carità cristiana e per essersi prodigato nel calmare gli animi, un ringraziamento ufficiale dal Primo Ministro del Sudan: «Carissimo P. Armani - così recita l’attestato di stima -ho il piacere di scriverle per ringraziarla dei notevoli servizi prestati da lei durante i recenti disordini. Gli sforzi da lei fatti per salvare la vita di cittadini innocenti nella sua zona saranno per lungo tempo ricordati da tutti noi. Non dubito che lei continuerà ad offrire ogni possibile aiuto a tutti coloro che ne hanno bisogno e in ogni tempo. Il Signore la benedica. Cordialmente, Ismail El Azhari, 2 febbraio 1956». Nemmeno p. Remo avrebbe potuto tuttavia fermare la vendetta dei neri: la repressione araba era già cominciata e ogni giorno giungevano notizie di scontri e di eccidi.
Arrestato ed espulso
Zelo e accortezza nell’apostolato sono le doti che indurranno la Consulta Generale a nominarlo, nell’estate del ’56, Superiore di tutti i missionari della Prefettura Apostolica di Mupoi, a soli sei anni di professione religiosa. In conseguenza della nomina si trasferisce a Tombora; seppure accettato con riluttanza, esercita l’incarico con passione riscuotendo la soddisfazione generale.
Tre anni dopo, nel 1959, p. Remo rientra in Italia per partecipare al Capitolo generale della Congregazione, a Venegono Superiore (Varese) e per trascorrere un periodo di vacanza. Sono vacanze “attive”: non avrebbe infatti mai finito di accumulare casse con attrezzi di lavoro per le missioni, per aiutare migliaia di giovani ad imparare la vita dell’artigiano, del muratore, del contadino, del meccanico. Ne approfitta inoltre per andare in Inghilterra a studiare l’inglese.
Nel marzo dell’anno seguente p. Remo è di nuovo in Sudan, a Yambio, dove la delicatezza del momento richiedeva una persona attiva e prudente. Ma egli non esita a compiere il suo dovere anche in contrasto con le limitazioni all’attività missionaria imposte dal governo di Khartoum: i missionari si vedono tolte le scuole, poi il diritto di dire la Messa e di predicare, infine quello di battezzare (anche i bambini nati da genitori cattolici che espressamente lo richiedevano). Sarà proprio per avere amministrato il battesimo a dei minorenni che nel dicembre 1962 verrà arrestato insieme ad un confratello, tenuto in prigione per una notte e poi multato. Incriminato di contravvenzione alla legge sulle Missioni, sarà il primo missionario ad essere espulso dal Sudan poche settimane più tardi; a nulla vale il diploma di benemerenza. Trascorrerà il Natale nella sua casa di Agrone. Il governo gli aveva portato via tutto ma non la soddisfazione di aver fatto il proprio dovere e la gioia di vedere al momento della partenza una folla stringersi intorno al lui e supplicarlo di ritornare.
In attesa di una nuova partenza
Nel riposo forzato del 1963 p. Remo trova modo di dedicarsi al ministero per parecchi mesi a Fai, come vicario parrocchiale. Sono forse i mesi più tranquilli della sua vita; ma il desiderio di tornare in Africa è forte. I missionari comboniani si stavano preparando ad istituire alcune missioni nel Congo Belga, l’attuale Repubblica Democratica del Congo, dove non erano ancora presenti: nell’estate è così a Parigi per studiare la lingua francese. Dalla Francia scrive al Superiore Generale dei Comboniani: «Chiedo una proroga di qualche mese per imparare bene il francese. Non vale la ragione che lo imparerò in Congo. Mi conosco. Se arrivo là senza poterlo parlare fin da principio, poi non riuscirò a superare quel complesso di paura per cui non sarò più capace di buttarmi fuori. Ho sofferto abbastanza in Sudan per la mancanza della conoscenza dell’inglese… Ho 46 anni e poi sono duro nell’apprendere le lingue».
Il 13 febbraio dell’anno seguente è di nuovo in partenza; salutati i vecchi genitori, certo ormai che non li avrebbe più rivisti, parte da Venezia insieme ad altri otto confratelli: è alla guida del gruppo, con l’incarico di rappresentare il Superiore Generale di fronte al vescovo di Nyangara, il belga mons. De Wilde. Se le cose fossero andate per il verso giusto, altri dieci missionari sarebbero partiti poco dopo. Portava con sé otto casse di materiale, fra cui un’attrezzatura completa per una piccola officina dove i giovani avrebbero imparato a fare il meccanico. Ai Comboniani sono affidate le due stazioni di Ndedu e Rungu, due centri ben avviati al confine con il Sudan meridionale tra gli stessi Azande che p. Remo aveva lasciato nella sua precedente missione e che ormai conosceva bene. Il centro più vicino è la cittadina di Paulis.
Serenità nella tribolazione
Il suo ruolo di superiore gli avrebbe imposto di tenere i contatti con le autorità, bianche e nere, parlare in inglese o in francese. Preferisce invece stabilirsi a Ndedu e costruire con il proprio lavoro casa e chiesa, e parlare in zande con i suoi neri. Un inizio carico di speranze, ma che durano pochi mesi: rigurgiti di ribellione iniziano presto a far scricchiolare le fondamenta del giovane Stato africano. Si voleva l’indipendenza ed era comune l’impressione che il governo belga avrebbe ceduto davanti alla violenza africana. Per questo nascevano eserciti ribelli: ben presto gruppi di Simba, che vuol dire “leoni”, cominciano a circolare nella zona, terrorizzando la gente.
Dal mese di agosto le notizie dalla missione giungono sempre più rare; alcune lettere, affidate a qualche viaggiatore di fiducia e imbucate in Uganda, accennano a una certa tensione. In ottobre p. Remo scrive al Superiore Generale: «Aspettavamo qualche padre dall’Italia in questo mese, invece il Signore ci ha mandato i compagni. E sono veri compagni in tutto e per tutto.
Non posso mandare notizie dettagliate. Da Rungu non ho alcuna notizia, buon segno. Nessun bianco è stato toccato. Anche le missioni sono state lasciate in pace.
Noi qui, relativamente calmi. Siamo allietati da frequenti visite che di quando in quando fan venire la pelle di gallina. Ma dobbiamo ringraziare il Signore che ci ha protetti, e confidiamo anche per il futuro.
Per il momento non c’è da pensare a nuovo personale. le vie di comunicazione sono chiuse. Spero che questa mia possa arrivare, via Uganda.
Se vede il nostro Vescovo, gli presenti i nostri omaggi e gli dica che siamo contenti anche nella tribolazione. Ci ricordi nelle sue preghiere, ut non deficiat fides nostra. A dir il vero si passano delle giornate nere, ma poi ci si riprende».
Fedele alla missione
Nonostante la presenza dei ribelli armati, le scuole di Ndedu erano rimaste aperte. In una pagina di diario (7 ottobre 1964), p. Remo annota: «Abbiamo riaperto la scuola, se durerà. I maestri non sono pagati perché il nuovo governo (quello dei ribelli) non ha soldi. Ma la paura fa miracoli: tacciono e fanno scuola gratis nella speranza che le truppe del governo centrale vengano presto a liberarli dai “liberatori”.
Oggi sono stato a Dungu, 45 chilometri da qui, capoluogo della zona.
Gli europei hanno paura e hanno mandato via le donne e i bambini. Gli uomini stanno tentando di avere il permesso di andarsene anche loro, ma sarà difficile.
Noi ad ogni modo restiamo al nostro posto, capiti quel che capiti; il Signore sa che ci siamo. La gente ci vuole bene».
Alla fine d’ottobre p. Remo si reca a Paulis, per ritirare la paga dei maestri. Non può tuttavia fare ritorno a Ndedu, in quanto le autorità militari gli sequestrano la macchina, carica di medicine e viveri per la sua gente. Si ferma dunque presso la missione, consapevole del pericolo ormai imminente. Qui viene infatti arrestato ancor prima di sera dai ribelli e imprigionato insieme ad altri missionari e civili europei là presenti. I Simba avrebbero voluto servirsi di loro come ostaggi in caso di pericolo. Una mattina un sottoufficiale Azande libera tutti gli italiani e i greci: i ribelli avevano saputo che fra i militari bianchi in marcia verso Paulis c’erano soltanto belgi e americani, e per questo si stavano accanendo contro gli ostaggi di quelle nazionalità, dimenticando per un momento gli altri. P. Remo avrebbe avuto così la possibilità di salvarsi: «Io non vengo a nascondermi - aveva però dichiarato al medico Giuseppe Giovannini che gli offriva una via di scampo. Accetto il suo invito solo per lavarmi un poco, ma poi torno qui. Il colonnello dei Simba mi ha promesso di restituirmi la jeep. Su quella macchina ho dei viveri, delle medicine, dei vestiti per la mia gente. Io devo tornare qui, dottore». Tre volte alcuni gruppi di Azande tenteranno di liberarlo dalla successiva prigionia, ma senza successo.
“Arrivederci in paradiso”
Verso la metà di novembre era intanto arrivata alla famiglia la sua ultima lettera, datata 2 ottobre. Impostata ad Arua, in Uganda, si poteva capire che nel Congo le cose si stavano mettendo male. Scrive p. Remo: «Ndedu, 2 ottobre 1964. Carissimi, non so se avete ricevuto la lettera che vi ho scritto circa 4 settimane fa. E non so se riceverete questa. Anche questa la mando via Uganda, se potrà arrivare. È da molto che sono senza vostre notizie e credo che dovrò restare così ancora per parecchio. Tutte le vie di comunicazione sono chiuse e non si prevede quando saranno riaperte. Pazienza. Vi spero in buona salute. Mantenetevi in pace, specialmente voi, cara mamma. Noi tutti stiamo bene di salute e ce la passiamo abbastanza calmi. La gente ci vuol bene e ci lascia in pace. A suo tempo potrò scrivervi di più. Intanto accontentatevi di questa e pregate per noi. Saluti a tutti, fratelli, sorelle, nipoti.
Vi ricordo tanto. Vostro aff.mo P. Remo. P.S. Non scrivetemi, ché tanto sarebbe inutile».
Nel frattempo la situazione di violenza si aggravava: mentre l’esercito regolare avanzava verso la capitale della regione orientale, i ribelli trucidarono un gran numero di persone sospettate di fedeltà al governo. Così, alla notizia della discesa su Stanleyville dei paracadutisti belgi, il 23 novembre, i dirigenti della rivolta diedero l’ordine di uccidere tutti gli ostaggi. I missionari erano pronti al sacrificio: si erano confessati a vicenda, avevano pregato insieme. Alla madre superiora delle suore, p. Remo aveva consegnato le poche cose che i Simba gli avevano lasciato: orologio, portafogli e breviario. Quando i missionari furono fatti uscire dalla prigione per l’esecuzione si dissero l’un l’altro “Arrivederci in paradiso”. Ricevuto l’ordine di inginocchiarsi, p. Armani fece per alzarsi e dire che era italiano (la rappresaglia era contro i belgi e gli americani), ma dopo che ebbe pronunciato poche parole il colonnello dei Simba gli sparò all’improv-viso un colpo di pistola. Il missionario, colpito alla testa, morì sul colpo. Il suo corpo venne poi gettato nelle acque del fiume Bomokandi. La sua vita si era conclusa a 47 anni col dono totale di sé, il grado supremo della carità.
Michele Niccolini
(scheda pubblicata dal Centro Missionario di Trento)