Il 5 ottobre 2003, canonizzandolo, Giovanni Paolo II non solo ha richiamato l'attenzione dei cristiani sulla figura e l'opera del Comboni, che già nel 1869 fu detto "il Francesco Saverio dell'Africa", ma anche sulle difficoltà e sulle persecizioni che tuttora affliggono quella realtà. Articolo pubblicato su La Civiltà Cattolica 2003 IV 139-152 quaderno 3680.
Il 5 ottobre 2003, canonizzandolo, Giovanni Paolo II non solo ha richiamato l'attenzione dei cristiani sulla figura e l'opera del Comboni, che già nel 1869 fu detto "il Francesco Saverio dell'Africa", ma anche sulle difficoltà e sulle persecizioni che tuttora affliggono quella realtà. Dopo brevi cenni alle varie fasi della straordinaria evoluzione carismatica del "Patrono della Nigrizia - la cui iniziativa, nata all'ombra di un altro grande veronese, don Mazza, diventò formalmente comboniana nel 1867, con l'approvazione dei suoi primi Istituti missionari -, l'articolo indugia sulle drammatiche vicende centroafricane di fine Ottocento e poi sul miracolo, così "comboniano" (Khartoum, novembre 1997), determinante per la canonizzazione, ma anche per il messaggio che rivolge alla Chiesa e il mondo.
Per cogliere l'originale strategia missionaria di san Daniele Comboni (1831-81), giustamente ritenuto l'«apostolo della Nigrizia», e la perdurante attualità delle sue intuizioni circa l'evangelizzazione inculturata, le mutue relazioni tra preti-laici-religiosi, lo scambio tra Chiese sorelle - pensiamo ai sacerdoti Fidei donum, anticipati dal suo postulato al Vaticano I (cfr. nota 5) -, basterà ricordare non solo quanto emerso nel Sinodo speciale per l'America, svoltosi in Vaticano nell'aprile 1994, 130 anni dopo il comboniano Piano per la rigenerazione dell'Africa (1864), ma anche quanto recepito nell'Esortazione postsinodale di Giovanni Paolo II, Ecclesia in Africa (14 settembre 1994). Né fu retorico quanto, in occasione di quel Sinodo, affermò il neocardinale G. Zubeir Wako, successore del Comboni nella sede arcivescovile di Khartoum: «Senza di lui oggi non ci sarebbero vescovi, sacerdoti, diaconi, fratelli, suore e catechisti sudanesi. Noi siamo il suo sogno divenuto realtà e siamo impegnati a renderlo più reale lavorando sodo al servizio dei più abbandonati tra i nostri fratelli e sorelle». Comboni ebbe una competenza africanistica eccellente, sia perché accanito lettore di quanto scrivevano gli esploratori del tempo e per i contatti di prima mano che ebbe con molti di loro; sia per i rapporti con le autorità politiche egiziane ed europee; sia per i fitti contatti ecclesiastici (con vescovi, Propaganda Fide e il Papa). Questa competenza, unita a forte senso critico e non minore senso pratico, è all'origine del suo Piano e del conseguente fascino esercitato su Pio IX, che, nel 1872, lo nominò provicario apostolico dell'Africa Centrale.
Da parte sua il cardo G. Massaia, apostolo dell'Etiopia, che aveva conosciuto il Comboni durante un soggiorno parigino (gennaio-aprile 1865) nel convento dei padri cappuccini (e insieme si ritrovarono per l'ultima volta a Frascati nell'ottobre 1880), lo considerava «uno dei più illustri campioni del moderno apostolato». Del resto, già nel 1869 mons. Leo Meurin - un gesuita di origini prussiane, vicario apostolico di Bombay -, che lo incontrò al Cairo e restò affascinato dalla sua tempra missionaria, lo definì «il Francesco Saverio dell'Africa». Di fatto, non soltanto percorre l'Europa, gridando la tragedia della Nigrizia, ma se ne fa paladino ai vertici della Chiesa: sollecitando Pio IX, la Curia romana e i vescovi di quasi tutti i Paesi europei, cui faceva visita e scriveva, a onorare la sollicitudo omnium Ecclesiarum degli apostoli. Al Concilio Vaticano I (1870) presentò un Postulatum in favore dell'evangelizzazione dell'Africa, sottoscritto da 70 padri conciliari, ma rimasto senza esito per l'improvvisa interruzione del Concilio. Fra l’altro vi si legge: «Orsù, SS.mi Padri, per le viscere di Gesù Cristo prendete su di voi questa opera e nella vostra saggezza esaminate come e con quali mezzi si possono salvare questi popoli [gli africani]. Se mi è permesso esprimere quello che penso, vi supplico di far risuonare più fortemente la vostra voce apostolica […], per suscitare nella Chiesa di Dio lo Spirito dell’Apostolato in favore della Nigrizia. […] e quando tornerete a casa, fate in modo, vi prego, che alcuni tra i sacerdoti più giovani delle vostre diocesi si uniscano a noi per conquistare la Nigrizia a Cristo».
Schizzi biografici di un personaggio complesso e intrigante
Ben più che nella letteratura agiografica tradizionale, in quella più recente Comboni viene tratteggiato con una serie di binomi apparentemente contraddittori, ma nei quali, a ben guardare, è radicato il suo fascino, risultando insieme semplice e complesso, ruvido e tenerissimo, utopico e realista, tenace fino alla cocciutaggine e insieme totalmente abbandonato alle mani di Dio. Un personaggio che nella sua, intensa vita ha fatto tutto come se l'esito dipendesse soltanto da lui, ma che, allo stesso tempo, sapeva che tutto era guidato da tutt'altro regista! In breve, Comboni rompe le misure del buon senso, anche dentro la Chiesa - via via egli sconcerta don Mazza, il cardo Barnabò e Pio IX -, ma perciò stesso conquista e sconvolge come pochi altri. Una personalità dirompente, con una volontà di acciaio e una mistica che lascia meravigliati. La sua attività frenetica, infatti, nasce da una profonda sorgente interiore: il «Cuore trafitto del Buon Pastore», interpretando a modo suo la gesuitica devozione che aveva imparato, fin da ragazzo, all'Istituto don Mazza. Oltre a questa devozione e al correlativo Apostolato della Preghiera - significativa è l'amicizia col gesuita H. Ramière, fondatore di tale movimento (1844), e il loro ritrovarsi al Vaticano I -, Comboni e la sua famiglia religiosa devono ai gesuiti non solo l'influsso nel riconoscimento della Congregazione, ma anche vari elementi del suo iter formativo come, per esempio, la variante del gesuitico terz'anno di probazione nel periodico «anno comboniano» di aggiornamento missionario. Circa poi l'interpretazione tutta comboniana del Sacro Cuore, colpisce l'accento teologico (più che devozionale) che egli - ben prima di K. Rahner - mette in questa espressione cultuale. Tra le varie citazioni in proposito, ecco quanto leggiamo nella Relazione alla Società missionaria di Colonia (1866): «Mi sembra che proprio ora che molti cristiani congiurano contro Dio e il suo Cristo, il Sacro Cuore del Divino Pastore debba protendersi con raddoppiato amore verso le grandi, remote terre, verso tanti milioni di pecorelle smarrite, che vivono ancora nelle tenebre della morte» (F. PIERLI, Il Cuore trafitto del Buon Pastore, Bologna, EMI, 1985, 17). Cfr. anche A. BARITUSSIO, Cuore e Missione. La spiritualità del Cuore di Cristo nella vita e negli scritti di Daniele Comboni, ivi, 2000.
Emblematici sono i ritratti che, schizzati da penne non certo omogenee nel taglio, nell'approccio e nella matrice culturale, si integrano però felicemente. In Pronzato leggiamo: «Santo sì, ma che teneva un'amante, e non era una cosa segreta. Lui, anzi, faceva di tutto perché si sapesse in giro. La passione è divampata quando aveva 17 anni e non si è più spenta, anzi cresceva col trascorrere degli anni. Viaggi disagevoli sul cammello per attraversare il deserto, [...] sete, febbri malariche, pericoli di ogni genere [...]. Nessun ostacolo riusciva a trattenerlo dal raggiungere la sua amante. E, pur di restare con lei, faceva il vescovo, il parroco, il sagrestano, il questuante, l'infermiere e perfino il becchino. Scriveva migliaia e migliaia di lettere, con uno stile incandescente, per attirare l'attenzione su di essa. Una vita di soli 50 anni, letteralmente bruciata da questa passione incontenibile. Alla fine mons. Comboni non può esimersi dal rivelare il nome incriminato e compromettente: «Africa, mia amata».
Romanato invece sottolinea: «Fisicamente e intellettualmente Comboni visse su un crinale oltre il quale era difficile anche solo pensare di potersi spingere. L'Africa nella quale si avventurava era un continente ancora sconosciuto, che ingoiava uno dietro l'altro missionari ed esploratori. Comboni scelse di andare a fare il prete in questa terra, pur consapevole che lui e i suoi compagni difficilmente ne sarebbero tornati vivi. [...] Se fosse stato un avventuriero, un uomo in cerca di emozioni forti oppure in fuga da se stesso, la sua scelta sarebbe comprensibile. Ma non era nulla di tutto questo, era solo un prete e un prete integerrimo, ligio a tutte le prescrizioni del suo stato. C'è insomma in lui qualcosa che sfugge ai normali criteri di valutazione».
Ma chi era veramente Comboni? Nato nel 1831 a Limone del Garda, sotto dominazione austriaca, nel 1843 Daniele raggiunge Verona per gli studi, entrando nell'Istituto fondato da don Nicola Mazza, un sacerdote che accoglieva gli studenti ricchi d'intelligenza e virtù, ma poveri di mezzi finanziari. Qui imparò non solo varie lingue, ma soprattutto a guardare oltre le frontiere del «piccolo mondo antico» - di fogazzariana memoria - e a respirare quella missionarietà che, implacabile, progressivamente lo conformerà al «Cuore trafitto del Buon Pastore». Tutto comincia nel 1846, quando il sacerdote genovese don Nicola Olivieri, fondatore dell'Opera del Riscatto, chiede a don Mazza di accogliere nel suo collegio femminile ragazze africane riscattate dalla schiavitù. Le istituzioni mazziane erano già sensibili a tale problema, ma soltanto allora il Mazza esplicitò quanto aveva dentro: realizzare una missione in Africa Centrale. A tale scopo, nel 1847 manda don Angelo Vinco oltre il 6° parallelo Nord, e le relazioni del missionario, che vengono lette pubblicamente nell'Istituto, contagiano gli allievi. «Fu nel gennaio del 1849», annoterà più tardi il Comboni nel suo diario, «che, studente di filosofia, all’età di 17 anni giurai ai piedi del mio venerato superiore don Mazza di consacrare tutta la mia vita all’apostolato dell’Africa centrale» (D. COMBONI, Gli scritti, Bologna EMI, 1991, n. 4083: d’ora in poi Gli scritti). È l’anno in cui don Vinco, tornato a Verona per raccogliere nuovi aiuti e missionari, «avendo raccontato con tutto lo slancio della sua anima molti particolari interessantissimi ai cinquecento alluni degli Istituti San Carlo e Cantarane, avendo dato molte notizie sulla deplorevole situazione degli infelici figli della razza camita, accese in loro il fuoco della carità divina che non può fermarsi nella corsa verso la descrizione totale e verso il sacrificio per la salvezza degli infedeli» (Gli scritti, n. 2044: parole che riflettono bene la maniera in cui egli visse la presenza e interiorizzò le parole del missionario).
In questo clima di fervore missionario e d'intensa preparazione anche culturale, Daniele viene ordinato sacerdote il 31 dicembre 1854, a Trenta, dal beato mons. Tschiderer. Nel frattempo è morto don Vinco (gennaio 1853, nell'Alto Sudan, a 33 anni) e don Mazza ha inviato altri due suoi preti a cercare una località dove realizzare finalmente l'agognata missione della Nigrizia, secondo il progetto che aveva ormai messo a fuoco: portare a Verona i «moretti» riscattati dalla schiavitù, formarli e inviarli nuovamente in Africa, come persone libere e istruite, allo scopo d'impiantarvi centri di animazione cristiana e di promozione umana. Il 4 settembre 1857, con la benedizione del Mazza, Comboni e altri quattro sacerdoti, più un collaboratore laico, partono da Verona e, il 10, salpano da Trieste per Alessandria d'Egitto, giungendo alla missione di Santa Croce - al 6° di latitudine Nord, tribù Denka - soltanto il 14 febbraio 1858. Con entusiasmo impararono subito lingua e costumi del luogo, approntarono il primo vocabolario e un catechismo, guadagnandosi l'amicizia di tutti. Ma ben presto, disagi e malaria colpiscono inesorabili: ne muoiono tre, e Comboni stesso deperisce in modo preoccupante. Deve quindi tornare a Verona (fine 1859), dove, una volta ripresosi, viene incaricato di assistere un gruppo di «moretti», un tempo schiavi e futuri collaboratori in Africa.
Ma già alla fine del 1860 don Mazza, informato che una nave carica di ragazze e giovani africani era stata fermata dagli inglesi mentre faceva rotta verso le coste dell'Arabia e che parte di quegli schiavi era ora curata dai missionari in Aden, manda Daniele a riscattare tutti quelli che può. Riuscirà a portare otto ragazzi galla e, dal Cairo, una ragazza denka, che conosce anche l'arabo: essa potrà insegnare alle maestre di Verona che si preparano nell'ottica mazziana a servire la Nigrizia. Scrive infatti a don Mazza: «Tutti io li credo atti al suo disegno. Io mi sono sforzato di sceglierli secondo la sua intenzione. Iddio farà il resto». Nel viaggio per Aden fa sosta al Cairo e, nel trattare col Provicario apostolico, ha il primo suggerimento di quella «rivoluzione» strategica missionaria, attuata nel 1864 col suo Piano di rigenerazione dell’Africa. Nel Provicario infatti coglie varie perplessità circa 1'educazione dei giovani africani in Europa - perché si abituano troppo delicatamente e studiano troppo le scienze e poco l'agricoltura e le arti -, cosicché sarebbe meglio inserirli nelle stazioni missionarie «e farli colà lavorare nel giorno, comunicando loro alla notte l'istruzione religiosa». Comboni ascolta e comincia a domandarsi se il progetto mazziano non andasse rivisto. Perché, come i missionari europei difficilmente sopravvivevano in Africa, così i moretti si ammalavano per il clima troppo rigido di Verona e alcuni morivano; altri poi rischiavano di finire sradicati dalla loro cultura. Scrive il 9 settembre 1864: «Voglio discorrere a lungo con la Propaganda sul modo di recar maggiori vantaggi all'Africa facendo meno sacrifici. [...] I miei moretti sono quasi tutti morti, le morette stanno tutte bene e sono impazienti di ritornare [...] perché compiuta è la loro educazione. Ma dove mandarle, se sono inceppati gli affari della povera missione africana?» (Gli scritti, n. 798 s). Infatti 1'8 maggio 1862 sono rientrati a Verona gli ultimi due superstiti della spedizione del 1857 e tutto sembra finito.
Le varie fasi di una evoluzione carismatica
Siamo così alla famosa illuminazione e svolta comboniana del 15 settembre 1864: mentre pregava sulla tomba di San Pietro nella basilica vaticana, ebbe un'autentica folgorazione, che mise sulla carta, inchiodandosi al tavolino per 60 ore quasi consecutive. Era il famoso Piano per la rigenerazione dell'Africa, sintetizzabile nella formula: «Salvare l'Africa con 1'Africa». Non nel senso mazziano, bensì creando luoghi di formazione dei neri sulla costa africana.. Di fatto, il Prefetto di Propaganda Fide e lo stesso Pio IX - che, in un mese, riceve ben quattro volte 1'ardente missionario - non solo leggono il Piano e lo approvano, ma il Barnabò gli suggerisce di presentarlo alle efficienti Società missionarie di Francia, Austria e Germania, per ottenere gli aiuti necessari. Adesso più che mai gli torna utile lo studio delle lingue europee fatto all'Istituto Mazza, e, d'altra parte, la sua eloquenza, ricca di calore, insieme all'esperienza delle cose viste e sofferte, toccano ovunque gli animi e raccolgono cospicui finanziamenti per quello che ormai è il suo Piano.
Decisamente grandioso, come risulta dalla sua articolazione: fondare tutt'intorno, sulle coste dell'Africa - dove «l'africano vive e non muta, e 1'europeo opera e non soccombe» -, scuole di arti e mestieri, fattorie e laboratori di artigianato, collegi e addirittura quattro Università teologiche e tecnico-scientifiche, per formare soggetti indigeni (preti e laici) non più semplici recettori del Vangelo, ma suoi agenti qualificati, capaci di portare all'interno «fede e civiltà». Parallelamente anche i missionari europei, ormai acclimatati sulle coste e debitamente inculturati, potranno spingersi verso l'interno: dapprima in rapide ricognizioni e poi con stabili fondazioni. Inoltre, essendo «cattolico», il Piano riguardava tutta la Chiesa, e non questo o quell'altro Istituto missionario (francese, tedesco o italiano). Ancora, Comboni passava dall'obiettivo marcatamente religioso della «conversione» a quello globale della «rigenerazione», che, incredibilmente per quel tempo, vedeva la promozione umana della Nigrizia passare attraverso la valorizzazione delle donne. Infatti bianche e nere insieme dovevano trasfondere non solo la morale cattolica, ma anche, come scriveva, insegnare a «leggere, scrivere, filare, cucire, tessere, assistere gli infermi ed esercitare tutte le arti domestiche più utili».
Quando ragguagliò don Mazza circa tale Piano (novembre 1864), quel santo vecchio restò perplesso di fronte a tanta grandiosità, che superava i limiti dell'Istituto (fra l'altro, minacciato da una grave crisi sia di mezzi economici sia di uomini). Perciò scrive al cardo Barnabò: «Io, col mio Istituto, sarò sempre pronto a coadiuvare in tutto ciò che io e il mio Istituto potesse. Ecco la ragione per cui don Comboni non è considerato membro del mio Istituto». Malintesi successivi a parte, emblematico resta l'incontro del 15 febbraio 1865, quando il Comboni, finalmente a quattr'occhi col Mazza, gli domanda provocatoriamente di mettere per iscritto la dichiarazione che non apparterebbe più all'Istituto. Don Mazza, per tutta risposta, lo abbraccia esclamando: «Tu sei mio figlio». Il che significava: «Tu hai interpretato fedelmente la mia utopia, e in grande. Per parte mia, prendo tuttora la responsabilità della missione centroafricana». E firma la richiesta di un vasto territorio in Africa Centrale: è il 25 giugno 1865. E l'ultima firma di don Mazza (in luglio si ammala e il2 agosto muore). Nella lettera si precisa che Comboni è membro dell'Istituto e che ha procurato i mezzi economici necessari a iniziare quanto stabilito nel Piano. Da parte sua, Comboni aveva scritto al cardo Barnabò (23 giugno 1865) che, chiarito tutto col Mazza, resta membro dell'Istituto. E che ha già pronta una «eletta falange» di sei preti mazziani, pronti a raggiungere l'Africa, mentre lui - che ha procurato i mezzi economici necessari - non briga affatto per essere il capo della spedizione (cfr. Gli scritti, n. 1146).
Il 27 giugno Comboni parte per Roma, dove incontra Barnabò, favorevole alla divisione del vicariato centro africano tra i francescani di p. Ludovico da Casoria e i mazziani di Verona. Ma subito dopo la morte del Mazza, il 7 agosto si abbatte sui mazziani il decreto del vescovo, mons. L. Di Canossa, che vieta di coltivare vocazioni proprie. A questo punto il Comboni deve procedere da solo, anche per non compromettere gli aiuti della Società di Colonia e allora, col riconoscimento del vescovo (il 1° giugno 1867 mons. Di Canossa approva la fondazione dell'Opera del Buon Pastore e Missionari per la Nigrizia - che in seguito diventò l'istituto «Missionari Comboniani del Cuore di Gesù» -, il cui superiore è lo stesso Comboni e il primo rettore è don Alessandro Dal Bosco, un superstite della spedizione mazziana del 1857. Nel 1872 fonderà, sempre a Verona, le «Pie Madri della Nigrizia» - più note come «Suore Missionarie Comboniane» -, che voleva «sante davvero, ma non col collo storto, perché in Africa bisogna tenerlo dritto; anime ardite e generose, che sappiano patire per Cristo e per i neri. [...] Donne serie, buone e di giudizio!» (L. GAIGA, Daniele Comboni. La missione continua, Bologna, EMI, 1995, 157), quell'iniziativa missionaria cessa di essere mazziana per diventare formalmente comboniana. Il «figlio» del Mazza è ora, a sua volta, «fondatore» e in piena autonomia si lancia nella realizzazione del suo Piano. Ma subito farà l'esperienza della grazia a caro prezzo insita nel «Cuore trafitto del Buon Pastore». Infatti, costretto a scegliere tra la permanenza nell'Istituto e la fedeltà a quella vocazione che si era impadronita di lui proprio tra i mazziani, senza più una famiglia né una casa, è costretto a farsi lui padre e casa per tanti altri.
Impresa temeraria, soprattutto considerando l'enorme divario tra le sfide centroafricane - alle quali rispondeva un non meno grandioso orizzonte utopico comboniano - e le scarsissime risorse di uomini e mezzi a disposizione. Ciò nonostante, nel dicembre 1867, al Cairo, fonda un istituto per ragazzi e un altro per ragazze dell'Africa: il primo consacrato al Sacro Cuore di Gesù e il secondo al Cuore di Maria. Nel primo prestavano la loro collaborazione due padri camilliani (non estranei a future gravi sofferenze per Comboni), mentre l'altro era diretto dalle religiose francesi di San Giuseppe dell'Apparizione (era la «cattolicità» indicata nel Piano). E mentre nel giugno 1869, al Cairo vecchio, fonda una scuola per ragazze affidandola a maestre africane, eccolo già ripartire per Roma: nel 1870 lo troviamo al Concilio Vaticano I («Una notte in cui stavo immerso in tali pensieri [l'evangelizzazione dei neri], come un lampo colpì il mio spirito il pensiero di approfittare del Santo Concilio Ecumenico e di presentarmi a tutti i Vescovi del mondo cattolico, raccolti intorno alla tomba di San Pietro per conferire con il Vicario di Gesù Cristo sui più importanti interessi della Chiesa Cattolica») (Gli scritti, n. 2545), come teologo del suo vescovo, L. Di Canossa. Il 26 maggio 1872, Pio IX lo nomina provicario (e vescovo nel 1877) dell'Africa Centrale, affidando quella missione - la più vasta del continente - all'Istituto da lui fondato. Consapevole della gravità di tale incarico, Comboni si dedica all'orazione con maggior impegno e ottiene una «ispirazione» (questo è il termine che usa): «Affida il tuo vicariato al Cuore di mio Figlio».
Dal 1877, primo vescovo residente in Africa Centrale, intensifica la sua battaglia contro lo schiavismo, denunciando sia la politica di sfruttamento coloniale, poi ufficializzata alla Conferenza di Berlino (1884), sia l'ambigua politica missionaria di alcune realtà ecclesiali del tempo, specie per la mancanza di quella che oggi denominiamo «inculturazione». Ciò gli attira le reazioni degli schiavisti - le campagne diffamatorie si moltiplicano - e la sua morte a 50 anni, stroncato dalle fatiche, avvenne in circostanze tragiche per il Sudan e per la missione: carestie, ribellione fondamentalista islamica dei mahadisti, opposizione di alcuni ambienti clericali europei, ostilità crescente di uomini politici, incomprensione di qualche amico e collaboratore. Letteralmente, gli ultimi anni del Comboni furono un calvario», sicché quando nell'epistolario troviamo il progressivo suo rifugiarsi nel Cuore di Cristo, et quidem «trafitto», non si tratta di una moda, di un fatto meramente devozionale, perché soltanto in questa «fornace ardente di carità» egli trova la forza di consumarsi sino alla fine per «la Nigrizia». Nell'estate 1881, mentre attraversa per l'ultima volta le nuove missioni del suo immenso vicariato - dove si tenta di applicare le intuizioni del suo Piano -, Comboni è ormai pronto per ben altro viaggio e secondo il piano di tutt'altro stratega. Sul letto di morte, il 10 ottobre 1881, rassicura i pochi missionari superstiti che l'opera non sarebbe finita con lui. E così è stato (oggi i missionari comboniani sono 1.831 (17 vescovi, 1.290 sacerdoti, 312 religiosi non religiosi e 212 religiosi in formazione); appartengono a 44 nazionalità e hanno 388 comunità in 40 Paesi di Europa, Africa, America e Asia. Le missionarie comboniane sono 1.775 (di cui 1.695 professe e 80 in formazione); di 33 nazionalità, che lavoravano in 30 Paesi (dei quattro continenti citati). Oltre a contare già 24 martiri – tra padri, suore e fratelli laici -, l'albero comboniano si è recentemente ornato con le «Missionarie Secolari Comboniane» e poi con i «Laici Missionari Comboniani», mentre ben 24 odierne Congregazioni religiose (maschili e femminili), nate in Africa e America Latina, si ispirano a quel carisma.), ma a caro prezzo.
L'Egitto, per meglio combattere la tratta degli schiavi, aveva inaugurato la prassi di nominare come alti funzionari non solo alcuni europei - come già in passato -, ma addirittura dei cristiani. Questa politica antischiavista e filoccidentale provocò la rivolta di Mohammed Ahmed Ibn Abdullah, proclamatosi Mahdi (la guida, il restauratore della religione e della giustizia), che nel 1882 cominciò a devastare villaggi e missioni. Prima tocca a Delen - e nell'anno muoiono per sevizie e tifo due suore e un fratello laico comboniano (è il «martirio bianco») -, poi è la volta di El Obeid, arresasi per fame nel gennaio 1883, e le comboniane (superiora Teresa Grigolini) vengono date come schiave ai principali collaboratori del Mahdi e trattate peggio delle altre schiave. Nel frattempo sono in arrivo 10.000 egiziani, capitanati dall'inglese W. Hicks, ma il 4 novembre 1883 la spedizione cade in un agguato e, con quella strage, per le comboniane finì ogni speranza di liberazione e si consumò quest'altro «martirio bianco». Infatti, nel maggio 1884 il Mahdi ordina loro di sposarsi - considerando la verginità un simbolo d'indipendenza dai maschi, intollerabile per la sua concezione fondamentalista dell'islam -, ma esse trovano la via di fuga nello stratagemma dei finti matrimoni con alcuni greci ortodossi, che fraternamente accolsero la proposta e difesero in quel modo le suore".
Infine cadde anche Khartoum, nel 1885, dopo un lungo assedio, e in quel massacro furono trucidati anche diversi amici del Comboni - il colonnello Ch. Gordon, governatore del Sudan egiziano, e il console austriaco M. Hansal -, mentre una ventina tra comboniani e comboniane furono imprigionati e, per anni, conobbero le stesse violenze e angherie già descritte. Anche la tomba del Comboni fu profanata, e i resti del suo corpo dispersi. Quando, finalmente domata la rivolta mahdista, i comboniani tornarono a Khartoum, riuscirono a trovare soltanto minuscoli frammenti di ossa, che furono trasferiti prima in Egitto e successivamente nella Casa madre a Verona. Ma non per questo il Patrono della Nigrizia ha lasciato l'Africa o ha rallentato nel soccorrere gli africani. Come dimostra il miracolo avvenuto l'11 novembre 1997 a Khartoum, che ha aperto la via della canonizzazione.
Il miracolo per la canonizzazione
La miracolata è la trentaseienne musulmana Lubna Abdel Aziz, già quattro volte madre con quattro cesarei. È la quinta volta che per partorire sceglie il St. Mary’s Maternity Hospital diretto dalle Missionarie Comboniane, e alle 7,30 dell'll novembre 1997 è programmato il parto con il quinto cesareo (I ginecologi avvertono che una gravidanza dopo il terzo cesareo è molto rischiosa. Il motivo - spiegato alla buona - è questo: il cesareo non lacera semplicemente la muscolatura, ma anche l'utero, che, una volta cicatrizzato, perde alcune delle sue proprietà). Estratto il bimbo, il chirurgo constata una emorragia: chiude tutto, sperando in bene. Ma alle ore 12,00 l'emorragia è già così grave da richiedere un'emotrasfusione di due unità di sangue, quindi sala operatoria, asportazione dell'utero e ricovero in terapia intensiva: la pressione arteriosa non è misurabile e il polso impercettibile. Le suore cominciano a pregare, rendendosi conto che ormai soltanto un miracolo potrà salvare Lubna. Nel pomeriggio il quadro clinico peggiora: la ferita sanguina copiosamente e il sangue non coagula. Alle ore 7 del 12 novembre la situazione è disperata. Il ventre è gonfio a causa dell'emorragia. La paziente viene portata di nuovo in sala operatoria per un terzo intervento, con quattro chirurghi all'opera. Ma l'intervento avviene con la paziente collassata e alla fine di esso insorge la complicazione di un edema polmonare. Il giorno dopo, 13 novembre, la donna è lucida e i parametri vitali nella norma. Il 18 novembre è dimessa.
La prima riflessione che viene in mente a un profano è che il terzo intervento abbia salvato la donna. Tuttavia le relazioni mediche sottolineano il trattamento inadeguato dell'emorragia intervenuta dopo il secondo intervento, data l'assenza di sangue fresco e plasma. In pratica tutte le statistiche dicono che in quelle condizioni le partorienti non si salvano. E infatti durante il terzo intervento l'anestesista stava per arrendersi, a causa delle complicazioni intervenute. Ma anche più inspiegabile è la rapidità del favorevole decorso clinico dopo il terzo intervento. Una donna massacrata in quel modo che a 48 ore di distanza sta bene è qualcosa che la scienza medica non prevede. Veniamo così al punto più delicato, e forse anche più interessante: la lettura di fede. Siamo infatti davanti a un miracolo ricco di anomalie e peculiarità, che occorre esaminare.
Anzitutto, la non spettacolarità del miracolo stesso. Chi non è medico stenta a capire. Invece quando a uno ricresce una gamba, o quasi istantaneamente sparisce un cancro ormai diffuso, tutti vedono che i medici non possono averne merito. La seconda anomalia è il ruolo dei medici che, sia per imperizia sia per le condizioni oggettive, invece di favorire la guarigione hanno accelerato un processo di morte. Non a caso la relazione del miracolo sottolinea l'inadeguatezza delle terapie chirurgiche e trasfusionali. Ma come leggere questo intervento divino? Si potrebbe essere tentati di reagire in modo consolatorio: si sa che sbagliamo, ma per fortuna alla fine Dio rimedia. In questa lettura c'è del vero. Ma è tutto qui? Oppure c'è un messaggio più forte e appassionante? Di fatto, si potrebbe immaginare che Dio possa essersi servito del miracolo per richiamare l'attenzione del Nord benestante sull'endemica, tragica povertà (anche in medicinali) dell'Africa, caldeggiando una solidarietà più vera.
Ma veniamo alle peculiarità tutta «comboniana» del miracolo: nell'Africa, al cuore della missione di Comboni, il Sudan. E poi per la miracolata: non una cattolica, ma una islamica. Questo, soprattutto oggi, con le tensioni antioccidentali e anticristiane che montano nell'islam, ha un significato fortissimo: il Dio dei cristiani non attende la conversione di un musulmano per beneficarlo col miracolo, perché lo ama così com'è. E i cristiani sono un bene anche per gli islamici non quando si convertono al Vangelo, ma semplicemente perché sono loro fratelli: tutti figli dell'Unico Creatore e Padre. Lubna l'aveva capito, poiché per la quinta volta si era fatta ricoverare in quell'ospedale cattolico. Se in precedenza si fosse trovata male, avrebbe scelto diversamente; invece è tornata perché contenta dell'assistenza ricevuta. Infine nella preghiera d'intercessione sono coinvolti tutti, non solo le suore. Pregano anche i medici, e prega la mamma di Lubna, benché non cristiana ma sapendo che Comboni ha amato l'Africa, ha amato la Nigrizia, ha amato il Sudan, ha amato i malati che incontrava e cercava di curare meglio che poteva". Capisce che Comboni non ha mandato le suore perché la figlia muoia, ma perché viva. Capisce che il suggerimento di pregarlo è ragionevole e opportuno. E aderisce. E Dio, davanti alla forza di una preghiera così solidale, si piega. Non potrebbe altrimenti, perché dagli uomini non desidera più di questo: che si affratellino nella carità, nella speranza e nella fede». È questo affratellamento il miracolo più grande, il vero miracolo che attende il terzo millennio. E Comboni ci dice che è un miracolo possibile.
Tuttavia per comprenderne appieno la natura e la grandezza, bisogna tener presente anche la storia di angherie subite dai cristiani nell'Africa islamica. Non è qui il caso di aprire un cahier de doléance. Ma non è lo stesso se i cristiani offrono soccorso a una popolazione che li rispetta, oppure se amano pure quelli che li rapiscono e uccidono. Purtroppo siamo poco consapevoli del tanto sangue cristiano versato nel secolo XX, e ancor meno ne è consapevole il mondo. Se i cristiani rivendicassero i torti subiti per accusare, o per ricambiare l'ingiustizia con altrettante ostilità, saremmo fuori dalla linea evangelica. Invece, proprio le piaghe del Risorto - anche quelle del suo Corpo Mistico - ci impongono di pensare al rapporto tra il sangue e l'Amore. Nel miracolo di Lubna tutto si gioca sul sangue. E una mamma, perché dà il suo sangue. E non lo dà perché il figlio sarà bravo, ma perché il figlio è figlio. Anche la Chiesa sarebbe poca cosa se desse soltanto ritualmente il Sangue divino. Invece la Chiesa è sposa e madre, perché, come Lubna, dà fino all'ultima goccia di sangue in un parto senza fine. E dopo il parto dà il latte del servizio, dell'affetto e anche - col soccorso della Comunione dei Santi - del miracolo. Comboni ha dato la vita per l'Africa: ma è vivo e continua a soccorrere la Terra che tanto ha amato e per la quale desidera vedere i suoi figli, e tutti i cristiani, prodigarsi senza riserve né paure.
Non a caso Giovanni Paolo II, nell'udienza ai pellegrini della famiglia comboniana, giunti a Roma per la canonizzazione, ha detto: «Iddio renda fruttuosa ogni vostra iniziativa, sempre tesa a diffondere il Vangelo della speranza, e benedica gli sforzi della promozione umana, specialmente a favore della gioventù». E riferendosi a quanto il Patrono della Nigrizia sognava già nel 1864, circa le Università da fondare per lo sviluppo dell'Africa, ha proseguito: «A questo riguardo auspico vivamente che sia ripreso e portato a compimento il progetto di fondare una Università Cattolica in Sudan, terra cara al Comboni. Sono certo che una così importante istituzione renderà un qualificato servizio all'intera società sudanese».