Venerdì 18 aprile 2025
A seguito dei dazi decisi dal presidente statunitense Donald Trump, l’economia mondiale è letteralmente in subbuglio e come sempre a pagare il prezzo più alto sembrano destinati i Paesi poveri, tra i quali spiccano quelli africani. Mentre scriviamo, queste misure protezionistiche sono state sospese dal presidente per 90 giorni, ma tutti sanno che si tratta di un escamotage negoziale che non risolve la questione di fondo.

Ma andiamo per ordine. L’ideatore di questo nuovo ordine economico a stelle e strisce si chiama Stephen Miran, autore di una nota previsionale scritta per il fondo Hudson Bay Capital intitolata: «A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System». Si tratta della matrice di quello che alla prova dei fatti è il nuovo indirizzo della Casa Bianca e il cui obiettivo consiste nel risolvere, una volta per tutte, il paradosso strutturale dell’economia americana: il problema del doppio deficit, quello commerciale e quello della spesa pubblica. «La profonda insoddisfazione nei confronti dell’attuale ordine economico — si legge nella nota — è radicata nella persistente sopravvalutazione del dollaro e nelle condizioni commerciali asimmetriche».

Questa sopravvalutazione — spiega Miran — «rende le esportazioni americane meno competitive, le importazioni americane meno costose e ostacola l’industria manifatturiera americana». Di qui, la soluzione auspicata dall’economista: aumentare, anche drasticamente, i dazi doganali finalizzati a ottenere vantaggi diretti o, se preferite, nuove e sostanziali entrate fiscali per l’amministrazione statunitense, da reinvestire in particolare nel settore manifatturiero. Da rilevare che nella sua analisi, Miran non tiene assolutamente conto del fatto che la vera causa del crollo industriale è l’outsourcing, cioè il trasferimento delle produzioni da parte delle imprese americane verso altri Stati con basso costo della manodopera e privi di ogni controllo. Questo fenomeno, chissà perché, è del tutto ignorato. La verità è che dopo 80 anni di egemonia monetaria che hanno consentito agli Stati Uniti di gestire sistematicamente la bilancia dei pagamenti e i deficit interni senza mai dovere aggiustare la propria economia e i prezzi interni, attingendo ai risparmi del resto del mondo, in particolare dai paesi poveri, oggi il debito degli Stati Uniti è fuori controllo. Sta infatti raggiungendo la cifra insostenibile di 40 trilioni di dollari.

La sfida di Trump consiste dunque nel far pagare al resto del mondo un debito tecnicamente già insostenibile. Intendiamoci, già in passato le amministrazioni statunitensi avevano venduto il loro debito (ad esempio alla Cina); una politica questa perseguita costantemente negli ultimi ottant’anni. Il problema è che considerando l’ammontare del debito statunitense non si può continuare a chiedere al resto del mondo di sostenere i costi di tale scelta. Ecco che allora la nuova amministrazione della Casa Bianca ha escogitato lo stratagemma dei dazi che, soprattutto in questa fase negoziale dovrebbe servire a persuadere i partner commerciali a darsi carico del debito di cui sopra. Tutto questo per consentire agli Stati Uniti quello che Charles De Gaulle già ai suoi tempi definiva un «privilegio esorbitante».

Come se non bastasse, Trump ha pensato bene di attaccare anche i Paesi più poveri, proprio quelli che dipendono maggiormente dal commercio considerandoli dei veri e propri antagonisti. La dottrina di clintoniana memoria “Trade not Aid” (Commercio e non Aiuti), mantra che avrebbe dovuto sollevare le periferie del mondo dalle proprie miserie, a questo punto viene drammaticamente scavalcata, non foss’altro perché questi Paesi del cosiddetto Sud del mondo, si trovano privi di entrambi.

Emblematico è il caso del Lesotho, il piccolo regno senza sbocco sul mare, un’enclave quasi interamente dipendente dalle esportazioni di prodotti tessili, ha ricevuto un dazio del 50 per cento, il più alto di tutta l’Africa. E cosa dire del Madagascar, dove la percentuale è del 47 per cento. Da rilevare che le aziende del Madagascar e del Lesotho, che dipendono dal mercato statunitense, potrebbero subire un rallentamento con una forte perdita di posti di lavoro. Seguono le isole Mauritius con il 40 per cento, l’Angola con il 32 per cento, il Sud Africa con il 30 per cento, Costa d’Avorio con il 21 per cento e il 14 per cento della Nigeria. Per quanto concerne gli altri Paesi del continente africano, la tariffa minima è del 10 per cento.

È importante rilevare che le misure volute da Trump pregiudicano il futuro dell’African Growth and Opportunity Act (Agoa), l’accordo firmato nel 2000 che consente ad alcuni prodotti africani di beneficiare di un accesso di favore al mercato statunitense. Considerando che scade a giugno di quest’anno, i governi dei 32 Paesi dell’Africa subsahariana ritenuti idonei sono seriamente preoccupati. L’Agoa, finora, ha concesso loro il permesso di esportare negli Stati Uniti circa 6.800 prodotti senza pagare dazi doganali. Qualora fosse messa in discussione la loro ammissibilità dalle nuove tariffe, ne sarebbe devastato l’intero programma, con notevoli conseguenze economiche e sociali per diversi Paesi africani. Con queste nuove barriere commerciali, sarà a dir poco difficile riuscire a contenere le perdite considerando che l’attuale congiuntura internazionale non pare essere affatto favorevole.

Le ipotesi di risposta sul tappeto sono almeno tre. La prima è quella di abbassare i propri dazi doganali rispetto alle merci americane in entrata. È quello che in effetti ha già fatto il governo dello Zimbabwe sperando di inaugurare un nuovo capitolo nelle relazioni tra Washington e Harare. L’intento è quello di ottenere un accesso preferenziale al mercato statunitense, indebolendo però le proprie industrie locali nei confronti dei prodotti Usa.

Un’altra via è quella d’intercettare nuove partner e da questo punto di vista la cooperazione sia con l’Europa che con i Brics, il raggruppamento delle economie emergenti, Cina in primis, potrebbe rivelarsi strategico. Una terza soluzione potrebbe essere rappresentata dall’Area di libero scambio continentale africana (Afcfta). Si tratta di un trattato che ha coinvolto 54 Paesi africani su 55, entrato in vigore formalmente il 1° gennaio 2021. L’Afcfta, almeno sulla carta, rappresenta una grande opportunità per i Paesi africani consentendo loro d’incrementare l’industrializzazione, il mercato del lavoro e il commercio all’interno del continente.

I Paesi africani, che attualmente rappresentano un mercato di 1,5 miliardi di persone, commerciano più a livello internazionale che tra loro. In questo caso si tratterebbe di un’opportunità unica per ridurre la propria dipendenza dai mercati esteri e costruire solide catene del valore all’interno del proprio territorio.

Non v’è dubbio che i prossimi mesi saranno decisivi per il futuro delle relazioni economiche tra l’Africa e gli Stati Uniti. Anche perché, se da una parte è vero che dal punto di vista commerciale la Cina continentale ha superato già da tempo gli Usa come principale partner in gran parte del continente africano, dall’altra occorre tenere presente che la finanza a stelle e strisce, speculativa per vocazione, continua a giocare un ruolo fondamentale e imprescindibile per la sostenibilità del debito pubblico, soprattutto quello dell’Africa subsahariana. Difficile fare previsioni anche se poi, se non da oggi, sembra proprio che il destino del continente africano — non certo desiderato dai suoi abitanti — sia quello di continuare a pagare dazi.

P. Giulio Albanese — L’Osservatore Romano