Sabato 15 marzo 2025
Il drastico indebolimento (per non dire smantellamento) dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale Usaid, deciso da presidente Donald Trump all’atto del suo insediamento lo scorso 20 gennaio, sta facendo sentire i propri effetti. Migliaia di programmi e contratti Usaid sono stati subito sospesi con conseguenze drammatiche per molti dei Paesi del mondo in condizione più difficile. [P. Giulio Albanese. Photo Credit: WFP]

Il drastico indebolimento (per non dire smantellamento) dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale Usaid, deciso da presidente Donald Trump all’atto del suo insediamento lo scorso 20 gennaio, sta facendo sentire i propri effetti. Migliaia di programmi e contratti Usaid sono stati subito sospesi con conseguenze drammatiche per molti dei Paesi del mondo in condizione più difficile. Al momento in cui questo articolo va in stampa, siamo ancora nella sospensione per novanta giorni per «rivalutare tutti i finanziamenti» destinati all’estero, che secondo il nuovo segretario di Stato Marco Rubio «risponde al mandato ricevuto dal popolo americano di concentrarsi sugli interessi nazionali americani». Rubio, che ha assunto la direzione ad interim dell’Usaid dopo le dimissioni per protesta contro la sospensione presentate da Matt Hopson, appena nominato da Trump, ha spiegato che il destino dell’Usaid dipende dalla risposta a una triplice domanda: “Rende l’America più sicura? Più forte? Più prospera?”.

I tre mesi in questione, in teoria, dovrebbero servire a verificare i progetti dell’Usaid, che fonti dell’amministrazione Usa accusano di sprechi e corruzione. Ma intanto Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo entrato alla Casa Bianca a capo del nuovo dipartimento per l’efficienza del governo (Doge), prima ancora di tale verifica ha detto che l’Usaid «è un’organizzazione criminale … al servizio delle politiche di sinistra nel mondo» e che Trump è d’accordo per chiuderla. Per ora, in ogni caso, gran parte dei dipendenti dell’agenzia sono stati messi in congedo forzato, i fondi per la stragrande maggioranza dei programmi sono stati sospesi e migliaia di collaboratori dell’agenzia sono stati licenziati con pochissimo preavviso. Si profila, secondo fonti concordi, di affidare la gestione degli aiuti internazionali a un ufficio del Dipartimento di Stato, previo drastico ridimensionamento dei fondi, tagliati del 90 per cento rispetto a quelli del budget previsto per il 2025 e, come detto, del blocco di quelli non ancora erogati, ma previsti nel bilancio del 2024. Si punta, cioè, a un taglio di 54 miliardi di dollari sui 60 di spesa previsti entro la fine di quest’anno, per portare la cifra residua a incidere solo per l’1 percento sul bilancio federale.

L’esito di tali decisioni minaccia — e in parte ha già innescato — conseguenze di assoluta gravità, per alcuni Paesi a basso reddito dove l’aiuto allo sviluppo equivale a oltre il 10 per cento del reddito nazionale lordo, con perdite già immediate stimate intorno al 3 per cento. Tra i 26 Paesi più poveri del mondo, nella sola Africa ce ne sono diversi (Sudan, Sud Sudan, Etiopia, Mali, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Etiopia, Uganda e Liberia) ai quali l’Usaid ha fornito finora circa un quinto dell’’assistenza umanitaria. E va sottolineato che tra i programmi contestati all’Usaid dai nuovi decisori a Washington e certamente destinati alla cancellazione, ce ne sono alcuni classificati come “risposta all’emergenza”, anche se per crisi relativamente prolungate. Per essere più chiari, va ricordato che l’assistenza allo sviluppo (Aps) fornisce globalmente aiuti, già di per sé insufficienti, del valore stimato in 223 miliardi di dollari, cioè circa trecento dollari annui per ciascuno dei settecento milioni di esseri umani in povertà assoluta nel mondo. Con il venir meno del contributo statunitense, la cifra diminuirebbe di un sesto.

Il Centro per lo sviluppo globale, che ha sede a Washington e il cui compito è quello di monitorare in modo approfondito la politica di cooperazione statunitense, ha incaricato due ricercatori, Ian Mitchell e Sam Hughes, di analizzare le conseguenze dei tagli che sono illustrate in un articolo dal titolo “Which Countries Are Most Exposed to US Aid Cuts; And What Other Providers Can Do” (“Quali Paesi sono maggiormente esposti ai tagli agli aiuti degli Stati Uniti; e cosa possono fare gli altri fornitori”). Sulle conseguenze dei tagli, l’analisi di Mitchell e Hughes non si discosta da altre autorevoli opinioni, a partire da quella dell’organizzazione umanitaria Catholic Relief Services (Crs), che fa capo ai vescovi statunitensi, costretta a bloccare tutti i programmi co-finanziati dall’Usaid, che finora ha fornito al Crs circa la metà del suo budget di un miliardo e mezzo di dollari impiegati in favore di oltre duecento milioni di parsone nel mondo. Così come nella stessa condizione si è trovata la Caritas interazionale il cui segretario generale, Alistair Dutton, ha diffuso un comunicato sulla scelta di Trump nel quale, pur riconoscendo «il diritto di ogni nuova amministrazione di rivedere la propria strategia di aiuti internazionali», si afferma che «… il modo spietato e caotico in cui questa decisione viene attuata minaccia la vita e la dignità di milioni di persone. Chiudere Usaid metterà a rischio i servizi essenziali per centinaia di milioni di persone in stato di vulnerabilità, minerà decenni di progressi nell’assistenza umanitaria e allo sviluppo, destabilizzerà le regioni che fanno affidamento su questo supporto cruciale e condannerà milioni di persone ad una povertà disumanizzante o addirittura alla morte».

Per quanto riguarda il “cosa possono fare gli altri fornitori” di aiuti internazionali ai Paesi colpiti da Trump nei programmi per loro in atto, alimentari, sanitari e di istruzione, ma anche al soccorso di popolazioni devastate dalla guerra e da catastrofi naturali, ci sarebbe qualcosa da dire riguardo all’Unione europea. L’attacco alle politiche di solidarietà internazionale e di aiuto allo sviluppo ha oggi in Trump il maggiore protagonista, ma non certo l’unico in questi anni che vedono forze sovraniste e xenofobe guadagnare consensi persino in alcuni Paesi fondatori dell’Unione europea. Il che in questa fase rende purtroppo aleatoria anche la possibilità che a finanziare le associazioni e le iniziative abbandonate dall’Usaid possa essere l’Ue. I vari Paesi membri finanziano ogni anno per circa 50 miliardi di euro la cooperazione internazionale. Ma anche su questo bisogna avere chiaro che i fondi per tale cooperazione vanno in massima parte ad aziende europee che vanno a operare nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, per non parlare dei pagamenti a governi autocratici perché trattengano sul proprio territorio - di solito in condizioni disumane e talora uccidendoli - quei profughi e migranti che in Europa cercano di arrivare.

In ogni caso, infatti gli unici aumenti di bilancio prospettati in queste ore, ma per fortuna ancora non approvati, sono purtroppo per la follia di comprare armi (sempre dagli Usa), a conferma del declino valoriale al quale l’Ue sembra piegarsi da tempo. In merito a questo, e più in generale alle scelte da prendere, forse sarebbe utile ricordare agli esponenti delle forze politiche che in Europa si confrontano e in particolare a quelli che si dichiarano cattolici a parole e magari con sfoggio di crocifissi e di rosari branditi come armi contro il nemico di turno, che il magistero della Chiesa al riguardo è chiaro e non aggirabile. Basti come esempio quanto scrisse Papa Francesco all’ultimo summit del G20 a Rio de Janeiro in un messaggio letto dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, nel quale rinnovava «la proposta di lunga data della Santa Sede, che chiede di riorientare i fondi attualmente assegnati alle armi e ad altre spese militari verso un fondo globale progettato per affrontare la fame e promuovere lo sviluppo nei Paesi più poveri».

P. Giulio Albanese - L’Osservatore Romano