140 anni fa, a quel tavolo di Berlino, si decise la fine dell’Africa libera

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Venerdì 28 febbraio 2025
Sono passati 140 anni dalla storica Conferenza di Berlino [1884 – 1885] durante la quale 14 nazioni europee decisero la spartizione del continente. Un processo che non tenne assolutamente conto delle popolazioni locali e favorì l’unione forzata di gruppi etnici storicamente in conflitto. [Valentina Giulia Milani – Rivista Africa. Foto: Wikimedia]

Il 26 febbraio di 140 anni fa si tenne la storica Conferenza di Berlino che di fatto regolò la spartizione dell’Africa coloniale. Le decisioni prese a quel tavolo della residenza del cancelliere Otto von Bismarck, in Wilhelmstrasse 77, nell’allora Impero Tedesco, pesano ancora oggi sulle dinamiche securitarie ed economiche del continente. In quella stanza erano presenti le principali potenze europee con l’obiettivo dichiarato di “civilizzare e sviluppare” l’Africa, secondo i documenti dell’epoca. Nei fatti si trattò di una spartizione strategica per consolidare l’influenza economica e politica dell’Europa su un continente che iniziava ad essere visto come una riserva permanente di risorse per i settori industriali in espansione. Da lì si scatenò infatti una competizione sfrenata tra le potenze per il controllo dei territori più ricchi.

Innanzitutto, una precisazione. Convocata dal cancelliere, la Conferenza non tracciò direttamente i confini delle colonie, ma stabilì le regole e i principi – quindi il quadro giuridico – che le potenze europee avrebbero seguito nella successiva spartizione del continente.

I negoziati durarono dal 15 novembre 1884 al 26 febbraio 1885 e portarono alla firma di un Atto Generale composto da 38 clausole. Tra i punti principali, la creazione di zone di libero commercio nei bacini del Congo e del Niger e il riconoscimento dell’Associazione Internazionale del Congo di Leopoldo II, che garantì al sovrano belga il controllo personale su quell’area. Questo portò alla creazione dello Stato Libero del Congo, un territorio che subì alcune delle peggiori brutalità della colonizzazione, con centinaia di migliaia di persone costrette al lavoro forzato nelle piantagioni di gomma e punizioni atroci, come le amputazioni di arti.

Per quanto riguarda la specifica questione dei confini, venne messo a punto un principio che fu il principale responsabile della corsa all’occupazione dell’Africa. Il criterio dell’”occupazione effettiva” obbligava infatti le nazioni europee a dimostrare un controllo concreto su un territorio per poterne rivendicare il possesso: non bastava più una bandierina, bensì era necessario dimostrare un’amministrazione effettiva del territorio.

Così, dopo il 26 febbraio 1885, le potenze europee iniziarono una corsa sfrenata alla colonizzazione, occupando rapidamente territori africani per soddisfare tale criterio. Questo portò alla definizione formale dei confini coloniali in un periodo successivo, tra il 1890 e il 1914, quando si susseguirono trattati e accordi diplomatici tra le potenze europee per delimitare le rispettive sfere d’influenza.

E se si considera il numero di potenze che parteciparono alla conferenza e i rispettivi interessi, si capisce quanto siano state e siano tuttora devastanti le conseguenze di quelle decisioni per il continente africano. Erano 14 le nazioni europee riunite a Berlino: Germania, Regno Unito, Francia, Belgio, Portogallo, Spagna, Italia, Paesi Bassi, Impero Ottomano, Austria-Ungheria, Danimarca, Svezia-Norvegia, Russia e Stati Uniti.

Al termine dei negoziati, la Germania si affermò come potenza coloniale emergente, mentre il Regno Unito e la Francia consolidarono le loro posizioni dominanti. Il Belgio, attraverso Leopoldo II, ottenne il riconoscimento del controllo personale sul Congo, mentre il Portogallo cercò di rafforzare il dominio su Angola e Mozambico. L’Italia, potenza emergente, mirava al Corno d’Africa, mentre la Spagna consolidò il controllo su Guinea Equatoriale e Sahara Occidentale. L’Impero Ottomano, in declino, partecipò per difendere i suoi residui interessi in Nord Africa. Austria-Ungheria, Danimarca, Svezia-Norvegia e Russia ebbero un ruolo marginale, mentre gli Stati Uniti parteciparono come osservatori, principalmente per proteggere gli interessi della Liberia, fondata da ex schiavi afroamericani.

Nessun rappresentante africano venne invitato. Così, se prima della conferenza solo il 20% dell’Africa era sotto il dominio europeo, entro il 1890 circa il 90% del continente era stato colonizzato. Un processo, che non tenne assolutamente conto delle popolazioni locali – mai consultate – favorì l’unione forzata di gruppi etnici storicamente in conflitto e, al contempo, la separazione di comunità omogenee, causando tensioni che si sono trasformate in guerre e crisi politiche, alcune tuttora in corso.

Un caso emblematico è l’attuale conflitto in Camerun tra il governo centrale e i separatisti anglofoni. Questa guerra civile, nota come “crisi anglofona”, ha origine proprio nella spartizione coloniale: dopo la Prima guerra mondiale, l’ex colonia tedesca del Camerun fu divisa tra la Francia e il Regno Unito. Alla fine del periodo coloniale, il Camerun britannico meridionale votò per unirsi al Camerun francese nel 1961, ma senza alcuna garanzia di autonomia. Le tensioni tra la maggioranza francofona e la minoranza anglofona sono esplose nel 2016, quando manifestazioni pacifiche contro la discriminazione degli anglofoni sono state represse con la forza. Nel 2017, gruppi separatisti hanno dichiarato unilateralmente l’indipendenza delle regioni anglofone sotto il nome di “Ambazonia”, innescando un conflitto armato che ha causato migliaia di morti e sfollati. La guerra è ancora in corso, con violenze diffuse, attacchi ai civili e una crisi umanitaria che colpisce oltre un milione di persone. Questo conflitto è un esempio diretto di come la divisione coloniale arbitraria abbia creato fratture ancora irrisolte.

Molti altri conflitti attualmente in corso in Africa sono infatti la diretta conseguenza della Conferenza. La guerra in Sudan e Sud Sudan, iniziata con due guerre civili (1955-1972 e 1983-2005) e culminata nell’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, è il risultato della spartizione coloniale anglo-egiziana e delle tensioni tra gruppi etnici e religiosi. La guerra civile in Somalia, in corso dal 1991, affonda le sue radici nella divisione coloniale tra Italia e Regno Unito, che ha impedito la creazione di un’identità nazionale unitaria, portando a scontri tra clan e all’ascesa del gruppo jihadista Al-Shabaab.

Senza dimenticare la Repubblica Democratica del Congo che è teatro di una guerra perenne iniziata con le Guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2003), risultato diretto del dominio belga e delle lotte per il controllo delle risorse naturali. Il conflitto in Darfur, esploso nel 2003, deriva dalle divisioni etniche esasperate dal colonialismo britannico in Sudan, mentre nel Sahel (Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad) le guerre tra governi e gruppi jihadisti sono il frutto delle frontiere imposte dalla Francia, che hanno unito popoli storicamente in conflitto e diviso gruppi omogenei come i tuareg.

La Nigeria, creata artificialmente dalla fusione delle colonie britanniche, soffre ancora oggi divisioni etniche e religiose che hanno portato alla guerra del Biafra (1967-1970) e alla continua insurrezione di Boko Haram. La disputa tra Etiopia ed Eritrea, sfociata nella guerra del 1998-2000, è un’altra eredità diretta del colonialismo italiano, che aveva annesso l’Eritrea all’Etiopia nel 1936.

Questi esempi fanno anche capire come con la decolonizzazione, avvenuta tra gli anni ’50 e ’70, le cose non migliorarono più di tanto. Il motivo è semplice: gli Stati africani indipendenti ereditarono i confini imposti dalle potenze coloniali. Nel 1964, l’Organizzazione dell’unità africana (Oua) stabilì infatti il principio dell’intangibilità dei confini coloniali, per evitare, sulla carta, ulteriori conflitti territoriali.

Parallelamente l’instabilità politica ha favorito l’ascesa di regimi militari. Ex colonie come il Mali e il Burkina Faso, oggi guidate da giunte militari, si oppongono alla Francia, accusandola di perpetuare un neocolonialismo economico e politico. Il presidente tanzaniano Julius Nyerere sintetizzò questa eredità con una frase celebre: “Abbiamo nazioni artificiali create alla Conferenza di Berlino nel 1884 e oggi stiamo lottando per trasformarle in società stabili. Rischiamo di diventare il continente più balcanizzato del mondo”.

L’economia africana è stata altrettanto segnata da questi confini imposti, poiché la frammentazione politica ha ostacolato il commercio intra-africano e la cooperazione regionale, mantenendo molte economie dipendenti dall’export di materie prime verso l’Europa, come stabilito nel periodo coloniale.

Valentina Giulia Milani – Rivista Africa