P. Carmelo Casile: “Il mistero pasquale nella vita e nell’opera di San Daniele Comboni”

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Martedì 30 marzo 2021
San Daniele Comboni concepì e visse la missione come consacrazione nella sequela di Gesù nel Mistero Pasquale, cioè segnata dall’adesione al Mistero della Croce e della Risurrezione, e quindi come cammino di fedeltà che configura il discepolo al cammino della Croce del suo Maestro e Signore. Il Mistero Pasquale diviene così la chiave per cogliere “dal di dentro” il vissuto della sua vita di apostolo dell’Africa. D. Comboni celebrò il Mistero Pasquale nel suo intenso peregrinare per le vie del mondo dal nativo Teseul all’Africa, e lo visse intensamente nella sua dimensione cristologico-trinitaria e contemplativa.

IL MISTERO PASQUALE
NELLA VITA E NELL’OPERA DI SAN DANIELE COMBONI 

P. Carmelo Casile

San Daniele Comboni concepì e visse la missione come consacrazione nella sequela di Gesù nel Mistero Pasquale, cioè segnata dall’adesione al Mistero della Croce e della Risurrezione, e quindi come cammino di fedeltà che configura il discepolo al cammino della Croce del suo Maestro e Signore. Il Mistero Pasquale diviene così la chiave per cogliere “dal di dentro” il vissuto della sua vita di apostolo dell’Africa. D. Comboni celebrò il Mistero Pasquale nel suo intenso peregrinare per le vie del mondo dal nativo Teseul all’Africa, e lo visse intensamente nella sua dimensione cristologico-trinitaria e contemplativa.

La dimensione cristologico-trinitaria ha come punto di riferimento l’evento carismatico del 15 settembre del 1864 (S 2742-2743; 4799) e quella contemplativa il pellegrinaggio in Terra Santa e il Cap. X delle Regole del 1871. 

1. La dimensione cristologico-trinitaria nell’evento carismatico del 15 settembre del 1864

Per entrare nel vivo dell’esperienza del Mistero Pasquale di Daniele Comboni, è utile richiamare brevemente la dimensione trinitaria di questo Mistero così come ci viene presentato dalla Bibbia. 

1.1 Dimensione trinitaria del Mistero Pasquale

Mistero Pasquale vuol dire il mistero della morte-risurrezione di Gesù, culmine della sua opera salvifica. La Croce, presa nella sua realtà storica, è la dimostrazione dell’amore di Dio per il mondo (Rom 5, 8;1Gv 4, 10). 

Giovanni ci dice che Dio è Amore (1Gv 4, 10). Ciò si deduce dal fatto che inviò il suo Figlio unigenito qual “espiazione” per i peccati del mondo. 

Intuiamo così che Dio nella sua natura profonda è amore, e vi sono due persone divine – Padre e Figlio – che si rivelano sul Golgota. Quest’intuizione diviene evidente con la venuta dello Spirito Santo, l’altro Consolatore: è l’evidenza dello Spirito effuso da Cristo sul Golgota stesso (cf Gv 19, 30; Gv 7, 38s). 

Così il Mistero Pasquale ha come centro d’irradiazione il Calvario; è sul quel monte che Dio si rivela nella sua dimensione più alta, quella trinitaria. 

Così il Mistero Pasquale diventa grazia, lieta novella della volontà salvifica del Padre che mediante il Verbo nello Spirito Santo, arriva in mezzo agli uomini che sono in cerca di salvezza. 

È un fatto che Paolo insiste nella lettera ai Romani sulla Passione di Cristo come “prova” inequivocabile dell’amore del Padre; la morte di Gesù è vista come effetto dell’amore divino. Per questo la Chiesa è fedele al messaggio biblico quando afferma che il suo dovere è “annunciare la Croce di Cristo come segno dell’amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia” (Decr. Sulle Religioni non cristiane, n. 5). 

Da questa constatazione nasce la conclusione di Paolo: La carità di Cristo ci spinge (2Cor 5, 14-15).

L’autentico cristiano è al tempo stesso afferrato dal dinamismo della carità che Cristo gli porta, e introdotto nella logica evangelica del mistero della Croce. La contemplazione amorosa della Croce gli rivela l’immensità della carità divina, fino al punto da non potersi più distrarre dalla manifestazione di quest’Amore. Il suo destino privilegiato è quello di partecipare alla morte di Cristo e alla nascita della nuova umanità: essere chicco di frumento che muore per dar frutto. Da questa immolazione dipende la realizzazione dell’unità di tutti gli uomini in Cristo (Gv 17). È il mistero pasquale che diviene trasparente nella vita del cristiano. 

Non si tratta, per tanto, di avere un senso tragico della vita, né di cercare la sofferenza per se stessa, prendendo un’aria di vittimismo. La sofferenza del cristiano è una logica conseguenza dell’amore che lo spinge alla donazione; amore e donazione che tendono ad essere totali. Gesù amò e si donò così (Gv 3, 16). La sua vita è un dono d’amore che sfociò nell’olocausto (Lc 22, 12-20), che trascina il cuore del cristiano, facendolo esclamare: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20). Di conseguenza: io lo amo e mi dono ai fratelli. È il suo amore che mi spinge, per fare della mia vita un sacrificio (cf Fil 2, 17; 2Tim 4, 6). 

Entrare nel mistero della Croce è sintonizzarsi con la logica dell’amore e del conseguente dolore di Gesù crocifisso, che si prolunga nella Chiesa. È saper trasformare ogni situazione, per quanto difficile e penosa, in una nuova possibilità di amare e di evangelizzare.

La morale cristiana, per tanto, è una contraccambio di amore alla carità di Cristo rivelatasi sul Calvario. Per conseguenza amare morire sono la stessa cosa; la morte fisica e morale, è come il sacramento d’amore, suo segno efficace. Ne nasce così l’imitazione di Cristo, che si ripete instancabilmente nel ritornello “Amate, come anche Cristo ci amò e diede se stesso per noi”. Per questo, “le opere di Dio devono nascere e crescere ai piedi del Calvario”, cioè dalla logica evangelica della croce del dono di sé “fino alla fine”.

Giovanni va ancora più avanti. Per Paolo l’amore è una forza, che predomina su tutte le altre virtù cristiane. Per Giovanni non esiste che l’amore. Dio è il Dio-Amore (Agapè). L’Amore è ciò che meglio esprime la relazione tra il Padre e il Figlio e noi cristiani. 

Ed è l’amore che porta l’unigenito Figlio di Dio nel mondo e sulla Croce: 

Così Dio amò il mondo (Gv 3, 16). Noi abbiamo conosciuto l‘Agape di Dio dal fatto che Cristo morì per noi (Gv 3, 16). L’Agapè di Dio si è rivelata a noi, per il fatto che Dio mandò suo Figlio unigenito. Dio ci amò e perciò ci inviò il Figlio suo qual propiziazione per i nostri peccati (1Gv 4, 9, 10).

In queste parole Giovanni proclama la carità di Dio espressa in Cristo Crocifisso, che per decine d’anni è stato oggetto della sua contemplazione e del suo amore. La Croce è il fatto storico che rivela ai credenti il mistero dell’Amore che lega Dio agli uomini. Un Amore di benevolenza e di misericordia, attivo e dinamico, che prende l’iniziativa e si coinvolge nelle vicissitudini della storia degli uomini. 

La conseguenza pratica di questa presa di coscienza è la carità fraterna; l’essenziale della fede dei discepoli sarà sempre di associare Calvario e Carità. Mentre il peccatore è un omicida, figlio del diavolo, il cristiano è un essere nato da Dio, dal Padre, è figlio di Dio, perciò, è l’amante, cioè colui che ama i fratelli (cf 1Giov. 3, 14). 

Tutto questo deve apparire dalle sue opere, perché l’autentico amore, il più spirituale degli amori, rende la sensibilità dei figli di Dio estremamente delicata, e la fa vibrare e inchinarsi sulla sventura del fratello (1Gv 3, 16-17).

In sintesi, si può dire che il messaggio del Nuovo Testamento converge sul Calvario. La morte del Figlio unigenito del Padre è un fatto così paradossale che è impossibile alla mente umana rimanere distratta. Ma solo il credente sa penetrare nella tenebra che si è addensata sulla morte di Cristo, per scoprirvi l’Agapè del Padre.

Scendendo da quel monte, il cristiano si sente santamente agitato dall’amore divino che lo fa correre alla salvezza del peccatore. Davanti al fratello dolorante, si sente commosso “svisceratamente”. Per questo gli dona non solo un poco del suo tempo e qualche raggio del suo affetto, ma tutto se stesso. Perché il nostro amore, non è divino-cristiano, se non è totale: come quello del Padre che non ha risparmiato il proprio Figlio! (Rom 8, 32).

1.2 San D. Comboni, raggiunto e coinvolto nell’infinita Carità Trinitaria 

San D. Comboni ha vissuto intensamente la dimensione trinitaria del Mistero Pasquale nella sua vita missionaria. In lui la Trinità è realtà di fede vissuta: è relazione amorosa con le Tre Persone Divine, che si concretizza in un impegno forte a essere servo dei popoli dell’Africa, per introdurli in questo Regno di Amore.

Nella vita di Comboni questo costante scambio di relazione con ciascuna delle Tre Persone, raggiunge la massima intensità nell’evento carismatico del 15 settembre del 1864 nel contesto di un’esperienza forte di preghiera. 

Comboni arrivò per la prima volta a Roma nel settembre 1859 proveniente dall’Africa, di ritorno, malato, dal suo primo viaggio missionario. In quest’occasione, varca per la prima volta la soglia della basilica del Vaticano. Il giovane missionario, sotto il peso delle prove della prima esperienza apostolica, porta nel suo cuore orante quell’Africa a cui “già aveva sospirato da gran tempo, con maggior calore di quello con cui due amanti sospirano il momento delle nozze” (S 3) e che ora, dopo averla incontrato, non può abbandonare alla sua sorte. 

Le sofferenze che affliggono l’Africa descritte nell’Introduzione del Piano, pesano come macigni sul suo cuore di sopravvissuto della prima luttuosa esperienza “sotto il torchio della vigna africana” (S 2751) e sfidano la sua fedeltà: “Un buio misterioso ricopre anche oggidì quelle remote contrade che l’Africa nella sua vasta estensione racchiude… i rischi d’ogni maniera e gli scogli insormontabili….sgominarono le forze e gettarono lo scoraggiamento…” (S 2741). 

Il 15 settembre 1864 Comboni si trova di nuovo sulla tomba di S. Pietro “in attesa orante”. È, infatti, un ritorno effettuato nel momento dei suoi “più caldi sospiri verso quelle regioni infelici” (S 2754), che certamente costituisce un momento determinante della sua vita e che può essere definito come “battesimo di fuoco” o “Pentecoste personale” dell’Apostolo della Nigrizia. 

Infatti, presso la tomba di San Pietro è avvenuto il primo incontro dell’Africa nuova con la Chiesa di Cristo proprio nel cuore e nella mente di Comboni, mentre il tormentato cammino della Nigrizia alimentava la sua meditazione e la sua preghiera. Dal Piano, infatti, scaturito da questa preghiera, è nata tutta l’opera comboniana e ne derivò la rinascita della missione dell’Africa Centrale. Egli stesso dirà più tardi che, mentre si trovava in quel giorno nella basilica di S. Pietro, “come un lampo mi balenò il pensiero di proporre un nuovo Piano per la cristiana rigenerazione dei poveri popoli neri, i cui singoli punti mi vennero dall’alto come un’ispirazione” (S 4799). 

Spinto dal fervore per tale illuminazione, Comboni si recò subito alla sede del suo alloggio, si rinchiuse in stanza e vi lavorò per “60 ore continue”. Il contenuto di quest’illuminazione lo formulò nell’introduzione alla I edizione del Piano (Torino, dicembre 1864, p. 3-4):

“Il cattolico, avvezzo a giudicare le cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comune Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana.

Allora trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso, per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli” (S 2742-2743).

Si tratta del cosiddetto “testo privilegiato”, in cui Comboni svela nella Trinità le misteriose Sorgenti, che danno origine e sostengono il suo amore “così tenace e resistente” per l’Africa fino al sacrificio della propria vita. Il profondo “senso di Dio”, vissuto abitualmente da Comboni, per la prima e unica volta diviene comunicazione di vita sul Mistero Trinitario in intima connessione con il Mistero del Cuore di Gesù e della Croce e con la sua passione missionaria. 

La formulazione del testo, infatti, ha il sapore di una comunicazione personale, della condivisione di una esperienza mistica, nella quale “il cattolico” (= Comboni) manifesta quella rivelazione interiore, che garantisce che “i punti gli erano venuti dall’Alto, come un’ispirazione”. In essa traluce “il Tutto” che dà ragione della sua dedizione totale alla causa missionaria tra i popoli dell’Africa centrale (cf RV 2-3).

Il punto di partenza della comunicazione di Comboni è il Cuore Trafitto di Gesù, Buon Pastore (Cf S 2742). 

Bevendo in abbondanza da questo pozzo, fu pervaso da quella “Virtù divina”, che ha reso in lui sempre più forte il sentimento di Dio e sempre più saldo il legame di solidarietà con la Nigrizia, fino a farlo suo “sposo” e liberatore.

Questa “Virtù divina” si effuse su di lui con la forza del fuoco di Pentecoste mentre pregava sulla tomba di S. Pietro, contemplando il Cuore di Gesù in occasione della beatificazione di Margherita Maria Alaquoque. 

Si tratta di un momento di preghiera, nel quale gli vengono dall’Alto i singoli punti del Piano per la rigenerazione della Nigrizia, che imprimono una svolta definitiva e configurano il resto della sua vita missionaria. In esso è presente tutta la Sacrosanta Trinità. Di fatto, un’intensa luce “dall’Alto” illumina nel suo spirito la comunione con Dio-Trinità da lui vissuta fino a questo momento. Comincia ad esperimentare la comunione con la Trinità in un modo nuovo, giacché la percepisce pellegrina nel cammino degli uomini… Questa percezione che inonda il suo spirito, è la vena nascosta che dà ragione e forma alla sua “passione” per la Nigrizia, per cui ci può dichiarare con verità che come missionario viene dal cuore della Trinità. 

Viene dal coinvolgimento nel dinamismo dello Spirito Santo, “Virtù divina”, che gli rivela nel Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce il segno e lo strumento perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre, e la via della solidarietà con la vita di tutti gli uomini. Viene così introdotto nell’inesauribile dialogo e comunione tra il Padre che ama tanto il mondo da decidere di inviare il Figlio, e il Figlio che risponde con la sua obbediente consegna redentrice fino alla fine in Croce e gli merita il dono di questa stessa “Virtù divina” come fiamma di Carità che sgorga dal suo Cuore Trafitto. 

All’essere coinvolto nell’azione salvifica della Trinità mediante questa fiamma di Carità, viene tratto fuori dal “buio misterioso” che ricopre l’Africa e dalla paura del passato in cui “rischi d’ogni genere e scogli insormontabili sgominarono le forze e gettarono lo sgomento” tra le file missionarie. La Nigrizia si trasfigura ora davanti al suo sguardo: comincia a vederla ”come una miriade infinita di fratelli aventi un comun Padre su in cielo”. L’abbraccio di Dio Padre lo esperimenta segnato dalla sofferenza di questi suoi figli africani, e nel bisognoso africano scopre un fratello, che ancora non usufruisce della benedizione del Padre che scaturisce dalla Croce…, per cui ha bisogno di essere incamminato verso di Lui. 

Sotto l’influsso dello Spirito Santo esperimentato come fiamma di Carità che sgorga dal costato del Crocifisso sul Gólgota, sente che i palpiti del suo cuore si fondono con quelli di Gesù e si accelerano. In questa sintonia di cuori percepisce come il Padre, attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido di quella miriade di figli suoi che vivono in Africa ancor “incurvati e gementi sotto il giogo di Satana” ed entra con tutto il suo essere nella loro storia e nel loro dolore. 

Questa Carità lo fa sentire figlio amato dal “comun Padre” che si prende cura di lui allo stesso modo che dei suoi fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio; è questa Carità che lo trasporta e lo spinge a stringerli tra la braccia e dar loro il bacio di pace e d’amore; lo spinge, cioè, ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune con loro”, anche con il rischio della sua vita. 

È un incontro con dei fratelli in cui si cela il volto di Gesù nello sconcertante mistero della sua identificazione con gli esclusi della storia (Mt 25, 42-43). Nei suoi fratelli africani oppressi gli si rivela il volto colpito, dolorante e sfigurato del Crocifisso, che fissa il suo sguardo su di lui e lo chiama ad evangelizzarli e a lavorare per il loro progresso e per la liberazione dalla loro schiavitù. Nello stesso tempo continua a tenere lo sguardo fisso sul Crocifisso, per “capire sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”. 

Comboni, infatti, ha percorso il suo pellegrinaggio missionario tenendo gli occhi fissi nel Crocifisso-Risorto. L’unione con Gesù crocifisso la visse in modo particolarmente intenso nelle varie situazioni e tappe della sua vita missionaria, e ha raggiunto il vertice nell’ultimo periodo della sua vita, consumata sulla breccia in un lento e sempre più martoriato olocausto che lo rende tanto simile al Crocifisso del Gólgota.. 

Vissuto all’insegna del Mistero Pasquale, il Venerdì Santo di Comboni è la sua anima sola, vuota, in aridità e angoscia… È la sua anima innamorata-consegnata e senza comprensione, senza compagnia… È la sua situazione di un uomo “solo” disposto a dare mille vite per l’amata Nigrizia; l’esperienza del suo cuore che comincia a battere più rapidamente contemplando l’impeto della Carità che si accese con divina vampa sulla pendice del Gólgota e si effuse dal costato di un Crocefisso; quella “virtù divina” che lo avvince, che gli stringe il cuore e lo spinge tra le braccia della Nigrizia per essere guida-servo della sua rigenerazione… 

In Comboni, questa esperienza forte di Dio nel Cuore trafitto di Cristo trabocca nell’esuberanza del dono totale di sé alla causa della rigenerazione della Nigrizia, che così fortemente attira la nostra attenzione. Il nostro Fondatore e Padre, prima di essere un uomo conquistato dalle cose da fare per Dio, è un uomo conquistato e contagiato dal Mistero di Dio, manifestato in pienezza nell’Evento della Croce, che associa le vittime del male del mondo alla Pasque Eterna del Risorto. 

2. Alla contemplazione del Trafitto attraverso la contemplazione dei Misteri della vita di Gesù

La contemplazione del Trafitto è la cima a cui Daniele Comboni arriva attraverso la contemplazione dei Misteri della vita di Gesù alla luce del supremo Mistero della sua Risurrezione. Il frutto maturato da questa contemplazione ce lo offre nel Cap. X delle Regole del 1871, in cui egli propone ai suoi missionari la contemplazione di questo Mistero come fonte e sostegno della loro consacrazione missionaria. 

Una tappa decisiva nel cammino che lo porta a questa cima è costituito dal pellegrinaggio in Terra Santa (29 settembre – 16 ottobre 1857). L’esperienza della visita dei luoghi santi rimase profondamente impressa nel cuore di Daniele Comboni e influì fortemente nel suo cammino spirituale fino alla fine della sua vita. Nella visita dei luoghi santi viene introdotto dallo Spirito Santo in quei “sentimenti” del Cuore di Cristo, che gli farà rivivere ed assumere con sempre più intensità nelle varie circostanze della sua vita missionaria. Tra Betlemme ed il Monte Calvario Comboni è introdotto nella vita e nella missione di Colui che “annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo” (Fil 2, 7; cf. AG 23).

Così, Comboni che “visita” la Terra Santa è “visitato” dai Misteri della vita di Gesù che si sono realizzati in quei luoghi. E la grazia di tale “visitazione” l’accompagna d’ora in poi nei suoi viaggi apostolici fino al cuore della Nigrizia, per coinvolgerla in questi Misteri di Vita. 

Comboni non uscirà più dalla pratica della contemplazione dei Misteri della vita di Gesù. Molti anni dopo nella “Lettera Pastorale per la Consacrazione del Vicariato al S. Cuore”, ricapitolava le “iconi di Terra Santa” nei battiti di quel “Cuore divinizzato per l’ipostatica unione del Verbo con l’umana natura”.

Infatti, non v’era stato istante dalla sua formazione, in cui non palpitasse del più puro e misericordioso amore per gli uomini.  Dalla sacra culla di Betlemme s’affretta ad annunziare per la prima volta al mondo la pace: fanciulletto in Egitto, solitario in Nazaret evangelizzatore in Palestina divide coi poveri la sua sorte, invita a sé i pargoli e gl’infelici conforta, risana gl’infermi e rende agli estinti la vita; richiama i traviati e ai pentiti perdona; morente sulla croce mansuetissimo prega pei suoi stessi crocifissori; risorto glorioso manda gli Apostoli a predicare la salute al mondo intero” (S 3323).

Comboni, dunque, vive coinvolto nei misteri dell’annientamento del Verbo Incarnato, il suo richiamo costante alla Croce è quasi un commentario al pellegrinaggio in Terra Santa, animato dalla fede nel Trafitto-Risorto che “trionferà nell’Africa Centrale” (S 6425). 

L’efficacia dell’esercizio contemplativo dipende dal frutto della contemplazione che è divenire quello che si contempla, e dal carattere unificante della contemplazione del Trafitto. 

Contemplando il Trafitto, Comboni accetta che il Dio-con-noi del Golgota lo racchiuda nel suo Cuore. Ciò vuol dire che si lascia amare da Lui e porta con Lui il peso del peccato del mondo, combattendo per eliminarlo e irradiando la bontà del Cuore di Gesù sui fratelli più colpiti dal dolore. 

La ricchezza e il dinamismo della comunione con il Cuore del Dio Crocifisso dipende dalla caratteristica unificante della contemplazione del Trafitto Stesso. 

Tale caratteristica sta nel fatto che ogni mistero della vita di Gesù trova il suo culmine e il suo compimento nel Mistero Pasquale. Lì tutte le sue parole sono raccolte in unità, ricapitolate, pienamente compiute, espresse e spiegate. 

Per Comboni il Crocifisso è come un Vangelo aperto, dove può leggere la Potenza e la Sapienza di Dio in ordine alla salvezza del mondo (cf 1Cor 1, 17-25): la contemplazione del Trafitto polarizza il suo cuore e determina il suo stile di vita come missionario totalmente consacrato alla causa missionaria (RV 2-3). Per questo egli propone ai suoi missionari la contemplazione di questo Mistero. Per lui la dedizione totale alla causa missionaria nasce e si sostiene “col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce per la salvezza delle anime. Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saràn beati a perdere tutto, e morire per Lui, e con Lui” (S 2720-2721).

Così contemplando Gesù Crocifisso, il missionario penetra nella profondità della “carità” del Cuore di Gesù e ne diviene prolungamento soprattutto in favore dei più abbandonati. Infatti il Gesù che si raggiunge nella contemplazione del Trafitto è il Gesù che vive negli alienati dall’immagine di Dio, anzi dall’immagine stessa dell’uomo (Mt 25, 40; RV 3-5). 

Nel mistero della morte in Croce viene rivelata la pienezza dell’amore del Cuore di Gesù. Morendo in Croce, Gesù è il “Sì” totale al Padre e agli uomini, che sigilla la sua vita di Apostolo del Padre. Lì l’immensa carità che Gesù vive perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza (Gv 10, 10), raggiunge l’estremo delle sue possibilità (Gv 13, 1). Nell’atto di morire Gesù esprime se stesso come Inviato del Padre, che “vergine e povero, redense e santificò il mondo con la sua obbedienza spinta fino alla fine di croce” (PC 1c).

Gesù ha compreso e vissuto la sua vita come un essere per gli altri, un lasciarsi costruire e realizzare dalle necessità di noi uomini peccatori. La morte di Gesù è l’ “ora” a cui tende il suo amore salvifico di Buon Pastore (Gv 10, 11; 13, 1). È l’ “ora” del compimento supremo: “Tutto è compiuto” (Gv 19, 30). Gesù morente sulla Croce è il chicco di grano che cade a terra e muore (Gv 12, 24); nel solco profondo della morte il suo amore al Padre e agli uomini raggiunge la sua piena realizzazione, perché “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13). Gesù sulla Croce è l’esperto dei costi dell’amore. Come Maestro delle moltitudini aveva detto per gli altri: “A chi vuol litigare con te e toglierti la tunica, lascia pure il mantello” (Mt 5, 40). Qui sulla Croce, per se stesso, va più avanti. Si fa togliere tutto. Si fa nudità crocifissa: è simbolo di un amore che tutto ha donato. Dona tutto con la sua obbedienza al Padre; dona tutto con la sua oblazione ai fratelli: “Vero agnello condotto al macello” (Is 53, 7). Egli, infatti, innalzato sulla Croce, stende definitivamente le braccia per attrarre tutti a sé e stringerli nel suo abbraccio d’amore e di pace. Le sue braccia stese sulla Croce ed il suo Cuore Trafitto sono l’espressione massima del suo amore verginale verso il Padre e verso tutti gli uomini.

Gesù sulla Croce vive fino all’estremo la spoliazione di se stesso, come dono di sé al Padre, che è il suo centro e la sua dimora fin dall’inizio della sua venuta in questo mondo (cf Lc 2, 49; Eb 10, 7) e che vuole la salvezza di tutti gli uomini. Gesù ha vissuto la morte come atto di estrema spoliazione di sé e di obbedienza piena al Padre per la salvezza degli uomini. Egli, infatti, “da ricco che era si fece povero” (2Cor 8, 9) e “spogliò se stesso prendendo la natura di servo… facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2, 7-8). 

Gesù con le mani stese sulla Croce è il religioso del Padre. È l’Agnello purissimo, povero e obbediente, che ha portato a termine l’impeto della sua carità di buon Samaritano di tutti i tempi. La sua kénosis (Fil 2, 5) si è compiuta. Si è spogliato delle sue vesti e della sua stessa vita umana. Si fa spogliare di tutto per farsi Corpo offerto e Sangue versato per tutti. 

“Contemplando e gustando un mistero di tanto amore”, la morte di Gesù viene colta come compimento di una vita donata per amore; essa svela al missionario che Gesù vive la sua solitudine radicale del morire come traguardo finale, in cui il dono di sé nella verginità, povertà ed obbedienza, si apre ad una dimensione universale, divenendo l’offerta agli uomini perché entrino nella Famiglia di Dio. In Gesù che muore casto povero ed obbediente, c’è la manifestazione visibile della donazione incondizionata di tutto se stesso all’amore del Padre e degli uomini fino al martirio (cf. VC 23). 

Daniele Comboni, proponendoci di “ tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo…”, ci propone la contemplazione di Gesù in croce come mistero d’amore, d’immolazione e dono assoluto di sé. Il missionario contemplando Gesù crocifisso viene raggiunto dalla forza di un Dio dal Cuore aperto sul mondo; da questo coinvolgimento impara ad amarlo teneramente, sarà beato di offrirsi a perdere tutto, a morire con Lui e per Lui in totale generosità fino al martirio. 

Daniele Comboni è convinto che l’apostolato missionario nasce dalla beatitudine, dalla gioia del dono di sé, cioè dalla consacrazione, che è frutto della contemplazione di Gesù Trafitto in croce. Per questo aggiunge “ e rinnovando spesso l’offerta intera di se medesimi a Dio, della sanità e della vita, in certe circostanze di maggior fervore fanno tutti insieme in comune una formale ed esplicita consacrazione a Dio di se stessi, esibendosi ciascuno con umiltà e confidenza nella sua grazia anche al martirio”

Contemplando il Cuore di Dio aperto sul mondo, non ci può essere che il conseguente atteggiamento umano della totale donazione di sé sotto forma di testimonianza assoluta (martyria) e di consacrazione, da cui nasce sempre anche una testimonianza comunitaria, un esporsi assieme senza risparmiarsi.

Per Daniele Comboni, la vita missionaria è consacrata, perché è vocazione alla partecipazione a quest’ora suprema di Gesù. Ascoltando il suo invito: “Vá, vendi, seguimi” (Mc 10, 17-21), il missionario si incammina verso quest’ora consegnando a Gesù tutto se stesso: il suo corpo, il suo cuore, la sua libertà, la sua creatività… Il Cap. X delle Regole del 1871 è ordinato a promuovere nel missionario questo spirito e le virtù corrispondenti, a cominciare dai consigli evangelici di castità, povertà ed obbedienza. 

Questo “martirio bianco”, introdotto dalla fedeltà all’amore casto, povero ed obbediente, è come dare la vita goccia a goccia e fa del missionario un Crocifisso innalzato in mezzo al mondo, così che può dire con Paolo: “Sono Crocifisso con Cristo (Gal 2, 20); sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24). 

La vita missionaria consacrata, nel vissuto comboniano, è chiamata a testimoniare nelle trincee del Regno il martirio nella perseveranza dell’amore paziente e fedele, ma anche in quella cruenta e definitiva. Nella storia dell’Istituto Comboniano le firme di tanti missionari, rosse di sangue, siglano una vita di martirio diuturno. Siamo di fronte ad una catena di martiri, di cui il Beato Daniele Comboni è il primo anello. Sono martiri a causa di quello sguardo sponsale all’amore del Cuore Trafitto di Gesù per gli uomini indifesi. 

Per tanto, come comboniano consacrato a Dio per la missione, sono chiamato ad essere nella Chiesa e nel mondo una copia vivente di Gesù Crocifisso. Le mie mani, inchiodate mediante il voto di povertà, non lavorano per i miei interessi e per la mia sicurezza personale, ma sono a servizio esclusivo del Regno; i miei piedi, inchiodati per il voto di obbedienza, non possono dare un passo senza di Lui, anche quando si tratta di bere il calice della Passione fino all’ultima goccia; il mio cuore trafitto dal voto di castità non può che amare Lui ed in Lui.

I missionari comboniani, “tenendo sempre fissi gli occhi in Gesù Crocifisso, contemplando con viva fede e gustando un mistero di tanto amore”, formeranno una vera comunità di crocifissi, costituiranno una “fabbrica di crocifissi”, cioè di persone “felici di perdere tutto, di morire per Lui e con Lui per la salvezza delle anime” (cf S 2720-21). Possiamo dire che con queste parole e con l’esempio della sua vita, san Daniele Comboni ha messo la prima pietra del suo “cenacolo di Apostoli”, che diviene una delle fabbriche più serie e benefiche del mondo, perché il mondo ha bisogno di incontrarsi con Gesù Crocifisso, per imparare da Lui la suprema lezione della carità che salva, che genera dalla morte la Vita senza fine.

Il missionario che segue l’incarnato Figlio di Dio nel mondo e per il mondo (cf RV 16), tenendo gli occhi fissi su Gesù Crocifisso, “si scopre qui nel suo specifico di volontà di spoliazione non solo dei beni economici ma anche del bene che si colloca a livello affettivo e decisionale. Il punto supremo dell’auto spoliazione è nel duplice voto dell’amore casto e obbediente. Con questa rinuncia, che affonda nelle carni vive, il missionario, tutt’altro che mutilarsi, tende a potenziare la sua capacità affettiva che si fa feconda di grazia; e la sua attitudine deliberativa che si fa collaborazione costruttiva. L’amore casto connota l’allargamento della paternità e maternità alle dimensioni del mondo a cui è inviato. L’amore obbediente è partecipazione al grande progetto del Regno, condiviso e guidato dall’unico Signore della storia. L’uno e l’atro sono a privilegiato servizio degli espropriati di oggi nella loro dignità sacra, i soggetti alla oppressione e alla repressione del potere”. 

Il missionario, tenendo gli occhi fissi su Gesù Crocifisso, vivendo la sua consacrazione nella professione dei consigli evangelici, si fa esperto di solidarietà e solo così si può impegnare efficacemente nella liberazione integrale dell’uomo (cf RV 60-61). 

2.1 La professione religiosa, “sigillo” della radicalità nella partecipazione al Mistero Pasquale 

Nella vita di san Daniele Comboni fin dal 6 gennaio 1849, quando aveva 17 anni, appare il senso della consacrazione come un essere “tutto di Dio e tutto dell’Africa” (4083).

Nel percorso della sua vita di consacrazione, Comboni cerca ispirazione e sostegno. È indicativo il fatto che già nel 1865 mentre era a Parigi in compagnia del Card. Guglielmo Massaja, aveva cominciato il noviziato del Terz’Ordine Francescano, perché era convinto che l’Africa doveva convertirsi sotto gli auspici di san Francesco d’Assisi e lui stesso, «agghiacciato e molto orgoglioso», aveva bisogno che gli ottenesse da Dio una scintilla di quella carità e umiltà, che possedeva in terra (S 1120): Di fatto emette la Professione come Terziario Francescano nel febbraio del 1873, mentre si trovava a Negadeh, nell’Alto Egitto, in viaggio verso Khartoum, dove si dichiarerà “tutto” dell’Africa (S 6804). Proclama così la radicalità della sua consacrazione alla causa della Nigrizia come totale dono di sé vissuto nella castità, nella povertà e nell’obbedienza.

È un evento nel suo cammino di “votato” all’Africa, in cui è felice di coinvolgere anche i suoi missionari/e; di fatti ne da notizia mentre sta chiedendo al P. Generale dei Francescani di dargli la facoltà di ricevere come Novizie/i e dopo il Noviziato di ricevere la professione secondo le Regole del Terz’Ordine delle sue Suore, che avevano cominciato il noviziato al Cairo e di altre Suore e alcuni Fratelli laici che volevano seguire lo stesso cammino (S 6803). In questo contesto di animazione spirituale dei suoi, dichiara: 

“Anch’io ho l’onore e la consolazione di appartenere da molto tempo al III Ordine di S. Francesco. Mi ha ricevuto Novizio in Cairo il P. Venanzio da S. Venanzio quand’era f.f. di Prefetto, o Prefetto definitivamente dell’Alto Egitto; ed ha ricevuto la mia Professione nel 1872 in Negade nell’Alto Egitto il R.mo P. Angelo da S. Agata Prefetto di Tripoli quando fungeva questo grado nella Prefettura Ap.lica dell’Alto Egitto. Spero che ciò mi faciliterà ad ottenere la grazia che le domando” (S.6804). 

Con questo gesto Comboni mette il sigillo della radicalità all’offerta di se stesso al Trafitto-Risorto per la salvezza della Nigrizia e proietta sulla nascente famiglia missionaria l’esperienza della donazione totale di se stessi, che egli aveva compiuto nella sua gioventù e viveva con generosità crescente.

In questo contesto il Cap. X delle Regole del 1871 assume il carattere di una condivisione di vita. In esso, infatti, Comboni delinea i tratti spirituali dell’Istituto e li propone ai suoi nella forma in cui li viveva personalmente: vita di consacrazione, seguendo Gesù secondo i consigli evangelici nella missione presso gli abbandonati africani. È la proposta di uno stile di vita, fondata su elementi raccolti da varie fonti, ma vissuti in prima persona e arricchiti dall’apporto della propria esperienza spirituale incarnata nella situazione concreta della missione dell’Africa Centrale.

Per Daniele Comboni la vita del missionario è vita di consacrazione a Dio per “la sua gloria e il bene delle anime”, vissuta tenendo lo sguardo fisso in Gesù Cristo Crocifisso: “Se con viva fede contempleranno e gusteranno un mistero di tanto amore, saran beati di offrirsi a perder tutto e morire con Lui e per Lui…”. 

Illuminato e spinto dalla Carità del Cuore Trafitto di Cristo, il missionario fa l’offerta di se stesso a Dio per la salvezza delle anime. La professione religiosa è espressione di quest’offerta, che è radicale coinvolgimento nel Mistero Pasquale di Gesù. 

3. Il pellegrinaggio missionario di Daniele Comboni all’insegna del Mistero Pasquale

3.1 Il canto della creazione sigillato dalla gioia della Risurrezione

La Croce alla quale Comboni aderisce, è la Croce “gloriosa”, cioè quella che è causa della Risurrezione di Gesù. L’immagine di Gesù che domina nella sua vita, è quella del Cristo glorioso, che continua ad operare la salvezza del mondo, servendosi della collaborazione umana. Il suo “guardare l’Africa al puro raggio della fede” è “un giudicare delle cose con lume che gli piove dall’Alto”, dove il Risorto sta alla destra del Padre, vittorioso. Si comprende il Mistero Pasquale che è al centro della vita di Comboni, precisamente partendo dalla Risurrezione. 

Nel vissuto di Comboni lo splendore della Risurrezione rifulge anzitutto nell’orizzonte dell’opera della creazione. Il Garda lo aveva abituato a godere dello spettacolo di una natura fatta di colori cangianti, profumi intensi, suoni gradevoli. In Africa egli poteva contemplare paesaggi immensi e inediti. Nei sui Scritti dal continente africano, fin dalle prime lettere indirizzate ai genitori, si fa conoscere come ammiratore attento e narratore puntuale. Quelle bellezze naturali che fanno da cornice a tanti “volti” umani, non cessano di generare in lui stupore. L’incanto delle bellezze naturali, il sentirsi creatura tra le creature, l’essere avvolto dal quel mistero di “tramonto e aurora”, fa di Daniele Comboni un cantore della creazione, che va ripetendo: “Quanto è grande, e potente il Signore!” (S 246) 

3.2 “Il cantico della Provvidenza” e il proposito di combattere da forte

L’opera meravigliosa della creazione è nell’animo di Comboni simbolo della presenza provvidente di Dio in tutti i luoghi. Quest’opera raggiunge il suo vertice nella Risurrezione di Gesù, suprema manifestazione della Provvidenza divina, che per mezzo della Croce penetra anche nel regno della morte.

Infatti, “se Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15, 14-20). 

Il Comboni era convinto che nessuna salvezza, e quindi neppure quella dell’Africa, era possibile senza la Croce. Egli aveva posto la Croce come “un’inevitabile grazia suprema, garanzia di apostolato e di santità”. Gesù, infatti, vince morendo e anche le membra del suo corpo vincono vivendo le vicissitudini della vita con la mentalità del Signore, che oppose al male la debolezza della bontà, generando così rapporti nuovi con gli uomini tutti (Cf Rom 12, 21). 

Il cristiano, lasciandosi “crocifiggere”, salva con e in Cristo il mondo intero, perché si sente membro del Signore che prolunga il Mistero della sua Passione a vantaggio della Chiesa e di tutta l’umanità (cf Col 1,24); nello stesso tempo, più si unisce al Crocefisso (cf Gal 6, 14), più fa l’esperienza del Risorto.

Le parole rivolte al papà, in occasione della morte della mamma, sono un vero “Cantico dell’ordine della Provvidenza”, che egli vedeva realizzarsi nella Storia della Salvezza dell’umanità attraverso il Mistero della Croce, che culmina nella Risurrezione. Così Comboni approfondisce il suo Cantico delle creature, facendosi cantore della sapienza della Croce e invitando a combattere da forti al fianco “del medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore”. 

Con queste espressioni Comboni ci indica in Gesù Risorto, il “Re Eterno”, che ci invita a seguirlo “nel dolore per esserlo anche nella gloria”: 

“Volgete uno sguardo all’ordine della Provvidenza, al modo che tiene Iddio verso dei fedeli suoi servi, cui predestina all’eterna beatitudine. La Chiesa di Cristo cominciò sulla terra, crebbe e si propagò tra le stragi e i sacrifizi dei suoi figli, tra le persecuzioni e tra il sangue de’ suoi Martiri e Pontefici. Lo stesso suo Capo e Fondatore Gesù Cristo spirò sopra di un infame patibolo, vittima del furore d’una crudele ed empia nazione: i suoi Apostoli subirono la medesima sorte del Divino Maestro.

Tutte le Missioni, ove si diffuse la Fede, furono piantate, s’accrebbero, e giganteggiarono nel mondo tra il furore dei principi, tra i patiboli, e le persecuzioni che distruggevano i credenti. Non si legge di verun santo, che non abbia menato una vita tra le spine, i travagli, e le avversità: delle stesse anime giuste che noi pur conosciamo, una non v’ha che non sia tribolata, afflitta, e disprezzata. Oh la palma del cielo non si può acquistare senza pene, afflizioni e sacrifizi; e quelli che si trovano visitati con questa sorta di favori celesti, possono a buon diritto chiamarsi beati su questa terra, mentre godono della beatitudine de santi, pei quali fu somma delizia il patire gran cose per la gloria di Cristo.

L’umana miseria s’adopera a toglierci la pace del cuore, e la speranza d’una vita migliore; e noi al fianco di Gesù crocifisso che patisce per noi, tripudiamo in mezzo all’avversa fortuna, mantenendo intatta quella pace preziosa, che solo appiè della croce e nel pianto può trovare il vero servo di Dio. Siamo nel campo di battaglia, vi ripeto, e bisogna combattere da forti. A grandi premi e trionfi giungere non si può se non per mezzo di grandi fatiche, travagli e patimenti. Ci sia adunque di sprone e ci consoli la grandezza del premio che ci aspetta nel cielo; ma non ci sgomenti e non ci atterrisca la grandezza e la difficoltà della pugna.

Abbiamo al nostro fianco il medesimo Cristo che combatte e patisce per noi e con noi; e noi fiancheggiati ed assistiti da sì generoso e potente Capitano e Signore, non solamente potremo sostenere con gaudio e costanza quei travagli e patimenti che il Signore ci manda, ma sarà nostro perenne esercizio il chiederne di maggiori, perché solo con questi, e col disprezzo di tutto il mondo, si può fare acquisto dei preziosi allori del Cielo”

3.3 L’“Inno alla Croce”

In questa convinzione, Comboni si è radicato gradualmente. Già nella sua fanciullezza egli poteva osservare nella chiesa di Limone il grande crocifisso di legno di bosso esposto su un altare laterale e ascoltare le ispirazioni interiori che quella visione gli suggeriva. 

Giovane missionario, durante il suo primo viaggio verso la Missione, arrivato ad Alessandria, gli fu offerta l’opportunità di un pellegrinaggio a Gerusalemme. Come pellegrino il momento più intenso lo visse proprio sul Calvario:

“Non posso esprimere a parole la grande impressione, i sentimenti che mi destarono questi preziosi santuari, che ricordano la Passione e la Morte di Gesù Cristo… Ascesi sul monte Calvario 30 passi più sopra del S. Sepolcro: baciai quella terra sulla quale posò la Croce… mi gettai in un dirotto pianto, e per un momento mi allontanai…. Mi si risvegliarono questi pensieri: Qui fu compiuto l’umano riscatto… qui sono stato redento”. (Ai genitori, S 39-43).

Quindi proseguì il suo viaggio verso la Missione, navigando sul Nilo, “vagheggiando alla sfuggita le famose piramidi, e i gloriosi avanzi di Denderah, Kneh, Tebe, Karnak, Luxor…” (S 200). 

Giunse alla stazione di S. Croce, seguendo l’itinerario dei missionari verso la Nigrizia segnalato dalle 44 croci delle loro tombe. Quelle croci gli ricordavano una storia, che cominciò a premere sul suo cuore e divenne pesante come un macigno quando vide soccombere i suoi primi compagni e lui stesso arrivò ad una passo dalla morte. In questa situazione di sofferenza per la morte dei confratelli e di trepidazione per le sorti della Missione, il 13 novembre 1858 gli giunse la notizia della morte della mamma, che colmò la misura delle sue sofferenze. 

Così, mentre gode dell’ambiente fascinante delle foreste e del Nilo, Comboni scopre che questo stesso ambiente rendeva impossibile la realizzazione della missione a causa del clima che portava inesorabilmente i missionari alla morte. 

Nello stesso tempo è colpito dal fatto che questo stesso ambiente è ricoperto da un “buio misterioso” (S 800). È un buio che nasce da un intreccio di fenomeni sconcertanti, e che attanaglia gli Africani in una vicenda di “povertà” radicale di oltre quaranta secoli, tenendoli lontani dai benefici del progresso umano e dai benefici della fede. 

Il più sconcertante di questi fenomeni, quello che rende più drammatica la desolante situazione della “Nigrizia”, è la storia secondo cui “i Neri non fanno parte della famiglia umana, né sono dotati d’anima umana…”, ma è una razza subordinata e sottomessa ai “bianchi” per cui sorgono sordide connivenze che lasciano sfrenarsi nel continente africano la tratta degli schiavi.

La “povertà” della Nigrizia, per tanto, è una povertà in tutte le dimensioni: essa tocca l’ambiente naturale, le anime, i corpi, e il tessuto sociale, causando l’indole avvilita dei neri, “su cui pare che ancora pesi tremendo l’anatema di Cam”. È una povertà che, considerata alla luce di una descrizione del deserto lasciata da don Squaranti, scava un vuoto orribile tutto all’intorno ed in mezzo alla Nigrizia e la rende una viva immagine di un anima abbandonata da Dio!.

Ma la “via crucis ” di Comboni non si ferma qui. Nella sua attività missionaria ha incontrato tribolazioni di ogni genere anche all’interno della stessa comunità ecclesiale: incomprensioni, calunnie, il disinteresse dei più per la missione, l’abbandono di tanti che avevano molto promesso e poco mantenuto, la mancanza di mezzi e la morte prematura dei collaboratori più cari. 

Tuttavia, né il buio che avvolge “la Nigrizia” né le altre difficoltà riescono a spegnere in lui il senso della gioia e della lode a Dio. La meravigliosa aurora del deserto che imporpora come un incendio d’oro il cielo, i monti e il piano; il sole che puntualmente si alza maestoso, continuano a essere nell’animo di Comboni simbolo della presenza provvidente di Dio in tutti i luoghi, anche nel regno della morte. 

E nel regno della morte Dio entra per mezzo di Gesù Crocifisso. Sul Calvario, la Croce diventa strumento e segno perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre. Gesù, Agnello immacolato sulla Croce, proprio mentre è oggetto della nostra violenza, assume su di sé il male del mondo, ed è la vera rivelazione del volto di Dio, a cui l’umanità ferita può tornare per vivere. L’uccisione del Figlio di Dio, infatti, costituisce l’apice del male e nello stesso tempo la fine di esso, sia perché non può andare oltre, sia perché, dando la vita per noi, Gesù manifesta chiaramente chi è Dio: amore infinito per noi. Per questo Gesù innalzato sulla Croce è la vittoria definitiva della luce sulla tenebra (cf Gv 3, 16). 

Comboni è il primo a sentirsi avvolto da quest’amore smisurato di Dio incarnato nel mistero di Cristo Crocifisso, e che entra nella regione della morte. Così per Comboni la Croce diviene nella sua vita segno dell’amore personale del Padre per lui ed espressione chiara dell’offerta di salvezza in Cristo, che Dio vuol portare per mezzo di lui ai popoli dell’Africa. 

Dal Cuore Trafitto di Gesù si sprigiona una potenza generatrice di vita, una “divina Vampa di carità”, che come una punta laser avrà ragione del “buio misterioso”, che avvolge la Nigrizia e di tutti gli ostacoli che si frappongono nel cammino dell’Apostolo dell’Africa Centrale. Gesù crocifisso entra nelle vicende dolorose della Nigrizia, è l’espressione della sua estrema e totale vicinanza ad essa, diventa uno di essa; con la “divina Vampa di carità” che promana dal suo Cuore, assorbe i veleni che la paralizzano, la solleva e la conduce a sé. Gesù che muore nella “carne” presa dalla Nigrizia, è anche il Figlio di Dio; perciò il suo ingresso nel buio che l’avvolge, è esplosivo e spezza la prigionia della sua natura avvilita e le catene della sua schiavitù, recuperandola totalmente all’abbraccio dell’amore del Padre. Nel morire di Gesù, la sua divinità è effusa su coloro che sono giudicati gli ultimi della terra e diviene in essi forza salvifica e presenza rigeneratrice dell’uomo oppresso. Si schiude così per la Nigrizia l’orizzonte del destino ultimo della sua storia, che è l’eternità e l’infinito di luce della divinità e della risurrezione riversato nella sua storia di oppressione: credere e sperare con amore è già andare là dove Gesù si trova per sempre, presso il Padre. 

Da questo sguardo contemplativo su Gesù Crocifisso, nasce nel cuore di Comboni l’Inno alla Croce (1877), che suggella la sua nomina (1872) come Pro-vicario della difficile e scabrosa Missione dell’Africa Centrale, da lui assunta e vissuta come mistico sposalizio con quella “Croce che ha la forza di trasformare l’Africa Centrale in terra di benedizione e di salute”, e che è l’esplicitazione di una riflessione e di un’esperienza vissuta da lui lungo l’arco della vita. 

Quest’Inno che risuonava continuamente nel suo spirito, Comboni lo mise per iscritto nella relazione della Missione alla Società di Colonia del 1877:

“Il Salvatore del mondo 
compì le sue meravigliose conquiste di anime 
con la forza di questa Croce,
che atterrò il paganesimo, 
rovesciò i templi profani, 
sconvolse le potenze dell’inferno, 
e divenne altare non di un unico tempio, 
ma altare di tutto il mondo. 
Questa Croce, 
che prese il suo volo dall’alto del Golgota 
e che riempì l’universo della sua potenza, 
nei templi le fu prestata adorazione; 
nelle città reali la più grande venerazione; 
viene rispettata come distintivo sulle bandiere 
ed invocata sugli alberi maestosi delle navi. 
Essa diede alla fronte sacerdotale la consacrazione, 
e a quella dei monarchi una sacra incoronazione. 
Sul petto degli eroi comunicò entusiasmo.
Terra, mare e cielo riconoscono la Croce
e dovunque le si rende onore.
Fra i dolori e le spine 
è sorta e cresciuta l’opera della Redenzione 
e per questa essa mostra uno sviluppo mirabile
e un futuro consolante e felice.
La Croce ha la forza di trasformare l’Africa Centrale
in terra di benedizione e di salute.
Da essa scaturisce una forza,
che è dolce e che non uccide,
che rinnova e discende sulle anime
come una rugiada ristoratrice;
da essa scaturisce una grande potenza 
perché il Nazzareno, sollevato sull’albero della Croce,
tesa una mano all’Oriente e l’altra all’Occidente,
raccolse i suoi eletti da tutto il mondo
nel seno della Chiesa;
e con le sue mani trafitte, come un altro Sansone,
scosse le colonne del tempio, 
dove da tanti secoli si prestava adorazione al potere del male.
Su queste rovine
Egli inalberò la Croce, operatrice di meraviglie, 
che tutto attrasse a sé: 
Quando sarò elevato da terra, attirerò tutte le cose a me”.
(S 4973-4975). 

3.4 “L’Inno alla Croce” e il “Sabato Santo” del missionario e dell’umanità

Nei diversi viaggi verso Khartoum con le bellezze di una natura vergine, che gli “destano nell’anima l’idea più sublime di Dio”, D. Comboni poteva osservare le rovine di antiche civiltà e dei primordi del cristianesimo in quelle terre, soprattutto “…. Tebe, Karnak, Luxor…” (S 200).

Possiamo ritenere, quindi, che l’“Inno alla Croce” sia stato ispirato a Comboni anche dalla vista delle rovine della città di Tebe e dei vicini imponenti templi di Luxor e Karnak. La città di Tebe della metà del XIX secolo era solo l’ombra di quella che era stata un tempo, ossia appariva come un agglomerato addossato al tempio di Amenofi III, un ammasso di rovine minacciate dalle inondazioni del Nilo. 

Questo scenario di decadenza è quanto vide Comboni; dai sui Scritti emerge anche che al tempo del suo arrivo in Alto Egitto in questi luoghi c’era una consistente presenza islamica, che interpella lo zelo del Missionario (S 4545; 4550). 

Allora, davanti alle “rovine del paganesimo”, davanti ai popoli che ancora non conoscono il Signore Gesù, l’“Inno alla Croce” che Daniele Comboni intona, è una esaltazione della Salvezza universale nella morte in Croce di Gesù e, nello steso tempo, un processo alla “idolatria”. 

Il silenzio che avvolge ancora queste “rovine del paganesimo” e le difficoltà che l’annuncio del Vangelo affronta anche oggi, ci rimandano al “Sabato Santo”, un tempo di attesa indefinita che si fa ricerca della Verità, mentre “Dio morto nella carne, è sceso nel regno degli inferi per chiamare Adamo ed Eva, a vita nuova” (Liturgia delle Ore, Omelia del Sabato Santo), affinché in loro tutti quei “pellegrini nella notte” fossero inclusi nella Salvezza e l’ ”attesa” di tutti i tempi fosse colmata.

È il “sabato dei cuori”, un “vivere nella notte”, il “sabato dell’umanità” in attesa di giustizia e pace, perché non si vive più per il “fine” per il quale si è nati e allora si finisce “per lodare, riverire e servire” déi costruiti da mente umana. 

In questo “sabato” in cui “l’umana miseria si adopera a togliere la pace del cuore e la speranza di una vita migliore, noi al fianco di Gesù Crocifisso che patisce per noi, tripudiamo in mezzo all’avversa fortuna, mantenendo intatta quella pace preziosa, che solo appiè della croce può trovare il servo di Dio…” (S 343). 

3.5 Un Inno alla Croce cantato con la vita fino alla fine

La vita del Comboni fu una vita profondamente segnata dal Mistero della Croce; una Croce accettata, cercata e soprattutto amata, conseguenza della certezza della sua vocazione, che ha temprato il suo carattere, lo ha educato alla santità e ha plasmato il suo esuberante zelo missionario. Questa Croce, abbracciata da Comboni come sua sposa indivisibile ed eterna (Cf S 1710; 1733), ha reso la sua vita simile ad una “via crucis”, percorsa coscientemente fino al Calvario, per la redenzione della Nigrizia. 

In modo particolare, gli ultimi venti mesi della vita di Comboni (1880-1881) sono stati umanamente tragici e soprannaturalmente quelli della piena maturazione di una santità eroica nell’accettazione della Croce. La causa immediata fu la rottura totale col suo Vescovo, Card. Luigi di Canossa. Molti fattori vi hanno contribuito: la vecchiaia del venerando prelato, il geloso conflitto di poteri di fronte a Comboni già vescovo e sommamente attivo come missionario e come fondatore e infine la sconsiderata creduloneria su calunnie distribuite a mezzo di sporchi pettegolezzi.

In più sopraggiunse una terribile carestia e conseguenti malattie, che hanno condizionato gravemente il suo apostolato, hanno seminato la morte tra i missionari e lasciato lui stesso stremato di forze. 

Per tanto, la frase di S. Paolo – “Crocifisso con Cristo sulla Croce” – s’addice perfettamente all’ultimo periodo della vita del Comboni, consumata sulla breccia in un lento e sempre più martoriato olocausto, che lo rende tanto simile al Crocifisso del Golgota. Paolo, crocifisso con Cristo e partecipe della sua morte, gioiva nella visione della vittoria finale: partecipe della morte di Cristo, lo sarà poi della sua consolazione e risurrezione. Comboni, dopo aver fatto sua la “filosofia della Croce” (S 2326), vedendo in essa la sua “sposa per sempre” (S 1710), dopo averne profondamente sentito il peso, mentre intorno a sé vi è il buio e l’isolamento morale più assoluto, proferisce parole toccanti che testimoniano l’autenticità del suo apostolico eroismo, fondato su una fede pura e su un amore ardente per l’Africa da salvare. E il tutto si apre verso una speranza che si fa quasi certezza: egli soffre e muore, ma l’Africa si salverà.

Le ultime parole che scrive sono parole che nascono da una forte visone di fede nella Croce che redime; sono parole che si illuminano nella luce completa del Mistero Pasquale. In una delle lettere con la data più vicina alla sua morte, scritta il 4 ottobre 1881, Comboni termina presentandosi pervaso come Paolo dalla forza e dalla gioia, che sono frutti della Croce abbracciata con amore:

Che avvenga pure tutto quello che Dio vorrà: Dio non abbandona mai chi in lui confida… Io sono felice nella Croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna” (S 7246). 

Così Comboni si trova ad affrontare la morte, certamente affrettata dalle ingiuste calunnie, “pieno di croci da capo a fondo”, solo, abbandonato anche dai suoi, come Gesù sul Calvario; ma le sue parole finali esprimono una fortezza che non cede, anche di fronte alla morte: 

“Abbiate coraggio; abbiate coraggio in quest’ora dura, e più ancora per l’avvenire. Non desistete, non rinunciate mai. Affrontate senza paura qualunque bufera. Non temete. Io muoio, ma l’opera non morirà”. 

P. Carmelo Casile
Casavatore, Marzo 2012

[Combonianum]