Domenica 24 giugno 2018
Sharon Akidi, 20 anni, è fuggita dalla guerra civile quando aveva appena 5 anni e oggi vive a Kireka, baraccopoli della capitale Kampala. Il conflitto ha costretto 1,8 milioni di persone in tutto l'Uganda ad abbandonare le proprie case. E ha lasciato una scia di donne ammalate di Hiv e bambini senza futuro. [Foto di Stefano Schirato, nello Slum di Kireka (Kampala, Uganda) – Osservatorio Diritti]
Nei 20 anni di guerra civile in nord Uganda, 1,8 milioni di persone hanno lasciato le loro case. La maggior parte è tornata o si è rifugiata nell’area della capitale Kampala, ma spesso non è servito a molto. Tante donne sono arrivate a sud con l’Aids/Hiv a causa degli stupri subiti da guerriglieri.
Secondo il programma UnAids delle Nazioni Unite, in Uganda quasi l’8% delle donne tra i 15 e i 49 è affetto da Hiv. Quando sono riuscite a mandare i figli a scuola, questi hanno dovuto subire discriminazioni perché poveri e malati e per molte di loro l’unico lavoro è stato spaccare pietre nella cava a ridosso dello slum di Kireka, dove vivono circa 8 mila persone (su questo argomento puoi leggere “Benin, bambini spaccapietre sfruttati nell’edilizia“).
Sharon Akidi, 20 anni, è arrivata qui da piccola con la madre e i fratelli. Alla fine dell’estate inizierà l’università con i soldi che sta mettendo da parte, ma alle spalle ha i maltrattamenti a scuola e la perdita dello zio, trucidato dai ribelli nel nord, di cui ha appreso solo dai giornali.
«Quando siamo arrivate allo slum in questa parte c’erano solo cespugli e arbusti, non avevamo niente. Adesso è affollatissimo: tante persone in fuga dalla guerra nel nord sono si sono rifugiate qui».
La donna parla durante gli European Development Days, l’iniziativa annuale sulla cooperazione internazionale promossa dalla Commissione europea di cui Osservatorio Diritti è media partner. È venuta a Bruxelles per raccontare la sua esperienza di rinascita grazie anche a Meeting Point, ong ugandese partner della fondazione Avsi.
Uganda: una guerra civile lunga due decenni
Nell’Uganda del nord, la guerriglia dell’Esercito di resistenza del Signore è iniziata nel 1987 con l’obiettivo di rovesciare il presidente Yoweri Museveni, tutt’ora al potere, e instaurare uno stato teocratico basato sui Dieci comandamenti. Le violenze sono durate almeno 20 anni, causando 1,8 milioni di profughi e 30 mila morti. I bambino soldato sono 60 mila, rapiti per essere arruolati tra le file dell’Esercito di resistenza, mentre sono migliaia le donne stuprate e fatte prigioniere per lavorare nella foresta al servizio dei guerriglieri.
Il capo dell’Esercito di resistenza del Signore, Joseph Kony, forte di una rete di relazioni politiche e diplomatiche a livello internazionale, è ancora libero, nonostante sia stato condannato dalla Corte penale internazionale dell’Aja nel 2005. È invece detenuto presso la Corte uno dei suoi comandanti, Dominic Ongwen, per il quale è iniziato il processo a dicembre 2016. A maggio 2017, però, Usa e Uganda hanno annunciato la decisione di mettere fine alla caccia a Kony.
Sharon, donna nello slum della capitale Kampala
Dalla guerra, Sharon è fuggita con la madre, le due sorelle e il fratello quando aveva 5 anni. I genitori avevano già vissuto le violenze sotto la dittatura di Idi Amin, caduto nel 1979 dopo aver causato la morte di 300 mila oppositori, e poi il regime di Milton Obote, che ha portato alla morte altre 100 mila persone.
«Ricordo che mia madre ci copriva con un lenzuolo tra i cespugli perché non vedessimo le violenze. Le armi per fortuna le ho viste solo sui giornali. Proprio su un giornale, quando ero già qua a Kampala, ho letto che mio zio era stato ucciso, fatto a pezzi e bollito in una pentola. La stessa sorte orribile è toccata ad altri uomini acholi».
Una serie di eventi tragici che fuggendo Sharon e la famiglia si sono lasciati alle spalle, anche se cercare di ricominciare nella baraccopoli non è stato facile. «Non avevamo niente. Per fortuna all’inizio ci ha dato cibo e vestiti Meeting Point». È la ong fondata nel 2003 dall’infermiera Rose Busingye e attiva nel dare cure e futuro alle donne della baraccopoli, molte delle quali affette da Hiv. Oggi sono un migliaio le persone che la ong cura con farmaci anti-retrovirali.
«Oggi mia madre fa collane di carta riciclata e vende mango al mercato, mio padre lavora nella cava vicino allo slum. Nella baraccopoli non si vive bene, le case sono vicinissime, l’elettricità va e viene e le condizioni igieniche sono carenti».
Condizioni comuni a gran parte del Paese, dove l’80% delle persone non ha accesso a sistemi di fognatura e l’85% vive senza elettricità.
Uganda tra povertà, Hiv e discriminazioni
In Uganda il 20% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e secondo UnAids sono 1,4 milioni le persone affette da Hiv, di cui 130 mila minori di 14 anni. Per chi, come molti bambini della baraccopoli di Kampala, soffre di entrambe queste condizioni, l’istruzione rappresenta l’unica occasione per una vita diversa.
Eppure, anche imparare a leggere e scrivere può avere un prezzo alto in termini di violazione dei diritti umani:
«A scuola eravamo ridotti alla malattia o alla condizione di povertà dello slum. Bastava fare un errore perché compagni e insegnanti ti ricordassero da dove venivi. Se sbagliavi, il bastone era la risposta».
Sharon ha iniziato la scuola primaria nel 2005 e ha poi frequentato le superiori nel nuovo istituto costruito dalle stesse donne dello slum mettendo insieme donazioni e i soldi ricavati dalla vendita di collane artigianali attraverso Avsi.
[Osservatorio Diritti]