In Pace Christi

Laffranchi Pietro

Laffranchi Pietro
Data urodzenia : 15/04/1899
Miejsce urodzenia : Capo di Monte BS/I
Śluby tymczasowe : 24/02/1928
Śluby wieczyste : 24/02/1934
Data śmierci : 13/06/1961
Miejsce śmierci : Khartoum/SD

            Fr. Laffranchi è spirato all'improvviso alle 5 di mattino del giorno in cui doveva tornare in Italia, affetto da leucemia. La Suora che l'assisteva era andata a prendergli un po' d'acqua, e al ritorno lo trovò morto. Niente aveva fatto prevedere questa fine, perché aveva passato la sera precedente con i Fratelli, discutendo piani e disegni.

            I suoi funerali si svolsero in quella cattedrale di Khartoum che egli aveva costruito trent'anni fa, e alla quale aveva nuovamente prestato da poco l'opera sua.

La sua vita è descritta mirabilmente in queste pagine che il M. R. P. Gasparini ha scritto per i lettori di « Nigrizia ».

            Il 13 Giugno scorso moriva a Khartoum Fr. Pietro Laffranchi. Ave­va 62 anni. Ne aveva spesi 29 in Africa; gli ultimi 24 d'un solo fiato, senza mai venire in Italia. Lasciava al suo attivo un numero imprecisato di 25-30 fra Chiese, Seminari, Scuole, asili ed altre costruzioni varie. Volendone sintetizzare la vita, la migliore definizione rimane la seguen­te: Il Costruttore di Dio.

        Questa vocazione l'aveva nel sangue, ed egli l'ha vissuta al cento per cento, perché fino a poche ore prima della sua morte egli parlava delle costruzioni che doveva finire e delle altre che voleva iniziare. Una cosa si deve dire di lui: dalla sua entrata nell'Istituto fino alla morte non volle accettare nessun periodo di vacanza: aveva consacrato la sua vita a Dio e alle Missioni, e non era il tipo da tirarsi indietro: il suo im­pegno lo voleva assolvere in pieno.

        Fr. Laffranchi nacque il 15 Aprile 1899 a Cemmo, frazione del Co­mune di Capo di Ponte (Brescia). Forgiato allo stampo delle anime generose, ancora giovanissimo rispose «presente» alla chiamata della patria, prendendo parte alla 1a Guerra Mondiale nel 39° Reggimento Artiglieria da Campagna, e ricevendo il 26 Agosto 1918 la Croce al Merito, in Zona di Guerra, a firma del Comandante il IX Corpo d'Armata, Emilio De Bono.

La vocazione missionaria

        Con lo stesso slancio egli rispose all'invito del Signore che lo chia­mava al suo servizio nella nostra Congregazione. Semplice ma eloquente è la lettera di presentazione che nel 1925 il suo parroco scrisse al Supe­riore Generale:

        «Sinceramente ho la convinzione che il giovane Laffranchi Pietro abbia le qualità necessarie per riuscire. E' più di un anno che insiste con me perché lo indirizzi a ottenere il suo ideale, che è quello delle Missioni d'Africa. Per un po' di tempo l'ho chiamato un esaltato; ho cer­cato anzi di toglierlo dalla sua fissazione; me quando ho capito che fa­ceva sul serio ho ceduto. Non credo quindi che si tratti di esaltamento; molto più che il giovane stesso potrebbe passare vita tranquilla in fa­miglia, dove è amatissimo, e potrebbe avere ottimi impieghi anche fuori di paese in qualità di casaro».

        Commovente è la domanda che lo stesso Fr. Laffranchi scrisse il 28 Luglio 1925 per essere accettato. Trascriviamola com'è, con le sue sgrammaticature. Essa ci fa comprendere la tempra del suo animo.

       «È più d'un anno che sento una vocazione straordinaria per le sante missioni. Col consiglio del mio buon parroco avanzo rispettosa domanda al Padre Superiore Generale della Congregazione dei Figli del S. Cuore di Verona, per essere accettato come fratello coadiutore, per poter un giorno essere nelle infuocate terre. colle falangi dei Figli del S. Cuore a santificarmi, soffrire e lavorare per la nostra santa religione.

       Io non ho titoli di studio all'infuori delle scuole elementari; ma figlio di onesti lavoratori di campi ho molto amore al lavoro e mi adatto a tutti «i lavori agricoli, più il mio vero mestiere che sarebbe casaro ove sono tuttora impiegato nel caseificio del mio paese...

            Padre, tutto voglio consacrarmi al caro Gesù; mi accetti nelle gloriose sue schiere, e se avrò la grande grazia di essere un giorno aiutante dei suoi grandi missionari, sappia che un forte giovane desideroso solo di fare una vita santa e fare del bene, sarà sempre primo fra i primi al posto del dovere e dell'obbedienza e lo raccomanderà sempre al Signore.

        Nella speranza e nella gioia di essere accettato, le porgo i miei rin­graziamenti e domando perdono del disturbo, invocando la sua santa benedizione».

        Parole preziose: le prime e le ultime che Fr. Laffranchi pronunziò parlando di se stesso. Dal giorno del suo ingresso nell'Istituto egli prefe­rirà tacere, soffrire in silenzio, morire primo fra i primi, nelle sabbie infuocate che aveva sognato da giovane.

        Entrò in Noviziato a Venegono Superiore nel 1925, e vi emise la professione il 24 Febbraio 1928. Fin dal Noviziato mostrò una spiccata adattabilità a ogni genere di lavoro. Da casaro a cuoco della grossa co­munità il passo fu facile; ma ben presto lo videro improvvisarsi mura­tore nella costruzione dell'ala sud-est del Noviziato. Le sue qualità di abile costruttore non passarono inosservate, e i Superiori lo incoraggia­rono a seguire per corrispondenza un regolare corso di edilizia, al ter­mine del quale gli fu rilasciato il diploma di capomastro edile, nel 1930.

        Ed eccolo iniziare la sua straordinaria carriera di costruttore per le Missioni. Nel 1928 fu a Riccione Marina per alcuni lavori di adattamento della casa. La soletta in cemento armato che egli gettò fu una vera no­vità nella zona; e il buon Fr. Laffranchi si divertiva a descrivere lo stu­pore e l'incredulità del locale imprenditore, che, quando la soletta fu disarmata, si rifiutò di passarvi sotto per paura che gli cadesse addosso.

        Anche a Troia, dove fu nel 1929-30 per alcuni lavori di restauro, non mancò la nota esilarante, quando i moderni impianti igienici installati da lui divennero meta di un pellegrinaggio di curiosi, attratti dalla singolare innovazione.

Il primo incontro con l'Africa

        Ma oramai l'Africa reclamava il suo geniale costruttore, che alle missioni africane aveva votato la sua vita. E a Khartoum Fr. Laffranchi non solo collaudò le sue qualità edilizie, ma produsse di primo getto il suo capolavoro: la cattedrale, vero gioiello di architettura romanica, adagiata in un miraggio di palmizi, per l'incanto e la meraviglia del visitatore.

        Il Vicario Apostolico, Mons. Bini, era a corto di finanze, e affidò la costruzione della sua cattedrale a una schiera di Fratelli, sotto la guida di Fr. Laffranchi. «Monsignore, ogni tanto ci venga a dare una bene­dizione, perché tutto finisca bene», risposero i Fratelli, e si misero al lavoro sotto il sole che spaccava la testa.

       Costruire una cattedrale a Khartoum, in quegli anni! ma aveva riflettuto il Vescovo che si trattava di un'impresa pazzesca? Dov'era la mano d'opera addestrata? chi mai aveva udito parlare di cemento arma­to nel Sudan? e che dire poi dei mezzi meccanici in un paese dov'era sconosciuto il più semplice verricello? Vi era invece - malaugurata! - la macchina burocratica, avvezza a pedanti controlli, fossilizzata in vieti sistemi edilizi; e spirava un'aria di malcelata diffidenza e sospetto, da mettere la pelle d'oca! «Caro Fr. Laffranchi, ti sei messo in un bel pa­sticcio; vedremo come te la caverai ».

        Ma egli sa dominare la situazione; sfoggia il suo genio inventivo e sfodera, a una a una, le più impensate risorse. Distribuisce le responsa­bilità fra i suoi collaboratori, organizza le squadre di operai, prevede le difficoltà: i materiali sono pronti; si dà il via ai lavori.

        Il Vescovo, ancora un po' incredulo, sbircia, nascosto, dalla finestra del suo studio. Meraviglia! la macchina è partita e marcia a perfezione. Essa si fermerà solo il 3 Dicembre 1933, a lavoro finito.

        In mezzo ai suoi operai, tutti reclutati sul posto, si arricchisce e s'infiora il vocabolario arabo di Fr. Laffranchi; ma fra tutte le parole se ne odono due con più insistenza : «Gawàm (presto)! - a iniettare energie nelle membra stanche, e - Kuàyyis (bene, bravo)» per incorag­giare e approvare.

       E ai minuziosi e impegnativi calcoli del cemento armato chi ci pensa? - Li faccio di notte - ci risponde il Fratello. È di notte, infatti. che entra in azione il suo cervello elettronico, quel cervello che sembra fatto per calcolare e che non accuserà avarie né guasti fino al giorno della sua morte.

        Neppure davanti ai metodi e calcoli inglesi, così diversi dai nostri, si incaglia la macchina di precisione, che è il cervello di Fr. Laffranchi. Lo confessò l'ingegnere inglese dell'ufficio tecnico di Khartoum. Il buon Mr. Watson, quando vide sul suo tavolo di lavoro il plico dei calcoli della cattedrale e del campanile, eseguiti dal Fratello, aggrottò le ciglia, si compresse le meningi e sudò le sette rituali camicie. Alla fine diede il suo responso: i calcoli sono esatti; non ho trovato nessun errore!

        Per la costruzione del campanile, alto 46 metri, arieggiante quello di S. Marco, Fr. Laffranchi dovette giocare di astuzia. «Dovete accor­ciarlo - osservò l'ufficiale tecnico - perché è più alto di tutti gli edifici di Khartoum, e anche della cattedrale protestante». «Ma non posso tagliarne via un pezzo senza danneggiarne l'architettura», obbiettò il Fratello. L'argomento fu trovato buono, e il campanile non fu accor­ciato.

        Ora si trattava di eludere i noiosi controlli delle fondamenta, che si annunciavano severissimi. A bella posta fu prescelto un Venerdì, giorno di vacanza per gli impiegati. Furono apprestati i 250 metri cubi di cal­cestruzzo, necessari per la gettata, si ingaggiarono 150 operai e si inven­tarono tutte le risorse per facilitare il lavoro. Alle 4 del pomeriggio tutto era finito.

        Il giorno dopo, di buon mattino, venne l'ispettore dei Lavori Pub­blici per dare il via ai lavori e controllare di persona la gettata. Ricevet­te il benvenuto dai quattro fasci di tondini di ferro che si libravano allegramente in corrispondenza dei quattro pilastri, sulle massicce fon­damenta di otto metri di profondità.

            Per essere lasciato in pace durante la costruzione del campanile, Fr. Laffranchi scelse un caldo mese d'estate, quando gli impiegati erano in vacanza, e poi si divertì ad offrire alla popolazione di Khartoum un insolito spettacolo: il campanile che cresceva ogni giorno, come per incanto, senza ponti né impalcature esterne. Si lavorava tutto dall'in­terno; quasi quasi non si vedevano neppure gli operai. L'elegante e snel­la struttura continuò a salire verso il cielo, fino al giorno che si vide svettare, vittoriosa, la Croce.

        Poi venne il concerto delle campane, regalo di Vigevano. Un fremi­to di commozione pervase i Missionari, soprattutto gli eroici Fratelli Coadiutori, artefici di quel miracolo, quando il giorno dell'inaugurazione i solenni rintocchi delle campane echeggiarono sopra la città, dileguan­dosi nell'immenso deserto circostante. La popolazione, cristiana e mu­sulmana, attonita in ascolto, stentava a credere ai propri orecchi. I morti delle antiche Cristianità, che nei tempi anteriori all'invasione musulmana avevano popolato il paese, oramai da secoli dormenti sotto la coltre di sabbie infuocate, trasalirono ai rintocchi dei bronzi, che annunciavano il solenne ingresso della Fede Cristiana.

        Temperato a quella prima fatica, Fr. Laffranchi esegue, uno dopo l'altro, vari lavori, a Khartoum, Atbara e Port Sudan: sempre chiese, scuole e residenze missionarie; e poi il grande edificio delle Scuole Se­condarie del Collegio Comboni a Khartoum.

        Nell'Aprile 1936 è in Italia, ma non per riposo. «Ho bisogno della casa di vacanze per gli studenti - gli dice il Superiore Generale - e vi do due mesi di tempo, Ce la farete a consegnarmela finita?». «Mi dia qualche altro bravo Fratello, e fra due mesi le daremo la casa». Man­tenne la promessa, e due mesi dopo gli studenti si godevano la nuova casa di Fai, con un tutto esaurito.

       A mo' di variante, nell'Ottobre 1936 fa un balzo in Egitto, per la­vori alle chiese, case e scuole di Heluàn e Zamàlek, Cairo. Nel Luglio 1937 è in Italia per... ripartire definitivamente per l'Africa. Non rivedrà più la sua Italia. I 24 anni che gli restano da vivere li ha riservati tutti per l'Africa.

In Etiopia

        Mons. Villa, il nuovo Prefetto Apostolico della Missione di Gondar, affidata al nostro Istituto, ha bisogno di leve fresche: Sacerdoti, Fratelli Coadiutori e Suore. Nella sua Missione c'è tutto da fare. Fr. Laffranchi, che aveva conosciuto e apprezzato a Khartoum, è l'uomo che fa per lui, e se lo porta in Etiopia con la prima spedizione missionaria nel Settembre 1937.

        Caro Fr. Laffranchi, a questo punto il filo della vostra vita e della mia si confondono in un cordone unico: vivremo insieme 22 anni indimenticabili.

        La vostra prima tappa fu Chercher, a cinque chilometri da Gondar. C'era da rifare la Missione. Poi impiantaste la grande fabbrica di laterizi: mattoni semplici, mattoni forati, mattoni pressati; li sfornavate a migliaia, con la voluttà del panettiere che sforna il pane croccante. I vostri mattoni erano sacri. Si dovevano tramutare nella meravigliosa cattedrale di Gondar, nell'Episcopio, nel Seminario, nella casa parrocchiale, nella residenza dei Padri e delle Suore.

        Che importava a voi di rincasare ogni sera a Gondar, sopra una bicicletta scassata, con la faccia screpolata dal sole, nella stagione secca, o bagnato come un pulcino, nella stagione delle piogge? Le vostre energie si centuplicavano alla vista degli edifici che sorgevano.

        Con la collaborazione dei vostri Confratelli, che non posso nominare, perché sono ancora vivi, riusciste a finirli tutti, quegli edifici, meno la cattedrale, che fu interrotta a metà dai bombardamenti aerei e dall'assedio di Gondar. La nostra bella cattedrale, con l'elegante campanile, rimase incompiuta, con le braccia tese verso il cielo, quasi volesse dire: l'Etiopia stende le sue braccia verso il Signore!

        Vi rivedo in un giorno del Novembre 1941, insieme a Mons. Villa, mentre, ritti vicino all'episcopio, contemplavate i vetri infranti da un bombardamento. Poco distante, Fr. Capuzzo, fra una incursione e l'altra, piantava patate dolci. Si avvicinò il vecchio Gen. Nasi, contemplò a lungo la scena e poi chiese a Fr. Capuzzo: «Per chi pianta le patate?». «Generale, noi dobbiamo pensare all'avvenire», fu la risposta. Il generale sostò a lungo, a guardarvi, e sembrava dicesse: Ecco persone che hanno fiducia nell'avvenire!

        Quando il Principe Ereditario, Asfa Wossen, mi concesse di restare a Gondar con un gruppo di Missionari, voi foste fra i primi a dirmi: «Io rimango a finire i lavori!». Purtroppo le autorità d'occupazione ci costrinsero a partire e a ripiegare in Eritrea.

In Eritrea

        In quel primo sbandamento della Missione di Gondar, il Vicario Apostolico d'Asmara, Mons. Marinoni, fu il primo a ripetere il «mors tua vita mea». I suoi edifici esigevano restauri, e Fr. Laffranchì accettò con entusiasmo l'invito ad eseguirli.

        Una ciliegia tira l'altra. Anche l'Esarca Cattolico di Asmara, Monsignor Chidané Mariam, aveva il Seminario di Cheren che richiedeva restauri e ampliamenti. Chi li poteva eseguire? Solo Fr. Laffranchi. Gli dissi di prendersi un po' di riposo; ma egli mi rispose: «Dobbiamo far vedere al Vescovo Eritreo che accettiamo subito l'invito. Noi siamo qui per gli Eritrei, e dobbiamo far capire che vogliamo loro bene; e poi... si tratta di un Seminario!». E partì per Cheren.

        Ultimati i lavori a Cheren è il turno delle Pie Madri. Esse vantano un diritto: non sono esse Suore Comboniane? e bussano alla porta di Fr. Laffranchi. Il buon Fratello mi previene: Le nostre Suore vogliono iniziare opere di assistenza alla gioventù; dobbiamo incoraggiarle e aiutarle. E via, in quarta. Sorsero, una dopo l'altra, la grande casa e scuola di Decameré, la prima ala dell'Istituto S. Famiglia, con annessa chiesa, e le varie opere nella sede della Provinciale, con la grande chiesa.

        Ma i Comboniani non facevano nulla in Eritrea? Trascorsi gli anni della guerra, nel 1946 la S. Congregazione Orientale incoraggiò la costruzione di una scuola per la gioventù eritrea. «Questo è pane per i miei denti», commentò in sordina Fr. Laffranchi. Insieme adocchiammo una collinetta, in una zona ideale della città; una collinetta malfamata, se si vuole, ma rispondente al nostro scopo. Posa della prima pietra nel mese di S. Giuseppe per assicurarne la protezione. Pochi mesi dopo, inizio dei corsi ai primi alunni. Poi venne la bella chiesa del Collegio, in uno stile rispondente al Rito Etiopico.

        Ogni tanto Fr. Laffranchi sfornava qualche geniale trovata per cavarmi d'imbarazzo. Il salone-cinema non conteneva più gli alunni per il catechismo domenicale e l'immancabile film. «Mi è venuta un'idea - mi disse un giorno il Fratello - ho pensato d'inserire una loggia nella parte posteriore del salone». «Ma chi vi sosterrà la loggia, campata per aria?». «Il parapetto, che sarà formato di un trave di cemento armato, ancorato, alle due estremità, sui due muri del salone».

        Finita la loggia, non mi sapevo decidere di farvi salire gli alunni, per paura che crollasse tutto. «Quanti ragazzi deve portare la loggia?» mi chiese il Fratello. «Trecento» gli risposi esagerando il numero. «Le farò un collaudo per togliere ogni dubbio: io caricherò la loggia con 200 quintali di mattoni, e lei vi faccia salir sopra trecento ragazzi».

        A ogni buon conto, feci approntare robusti cavalletti e tavoloni a dieci centimetri di distanza dalla soletta. Rimasi col fiato sospeso quando Fr. Laffranchi disse ai trecento ragazzi in loggia : «Adesso saltate e cantate. I ragazzi non chiedevano di meglio e mi collaudarono la loggia nel modo più eloquente. «Solo Fr. Laffranchi poteva trovare questa geniale soluzione», commentò l'ingegnere a opera finita.

Fr. Laffranchi e il Cuore Immacolato di Maria

        Sotto la scorza dell'infaticabile lavoratore, Fr. Laffranchi nascondeva un'anima delicata, e sentimenti di squisita pietà.

        Come gradì che la Chiesa del Collegio Comboni fosse dedicata al Cuore Immacolato di Maria! «La Madonna ha purificato questa collina - mi disse un giorno. - Vedrà come la gente sarà invogliata a venire a pregare qui». Al termine delle grandi funzioni in chiesa, il suo commento era invariabile: «Ha visto quanti ragazzi c'erano in chiesa?». Quella gioia se l'assaporava tutta: piena la sua chiesa di ragazzi, e pieno il suo cuore di gioia.

        Nel Giugno del 1950 si chiuse in Asmara la «Peregrinatio Mariae» attraverso l'Africa, con il devoto simulacro di Fatima. La statua della Madonna fece il suo ingresso nel Collegio, portata a spalla dai Comboniani e accolta da tutti gli alunni. A nome della comunità e della scuola, lessi la formula di consacrazione a Maria di tutte le nostre opere in Eritrea.

        Fr. Laffranchi era là, ritto, vicino alla statua, con gli occhi bassi, e dava qualche colpo di tosse per dissimulare la commozione. Alla sera, prima di andare a dormire venne a trovarmi e mi disse: «La ringrazio della funzione di oggi; è stato il premio più bello del mio lavoro. Vede: io oggi mi sento, ringiovanito, e sono pronto a iniziare qualsiasi altro lavoro ».

        E vennero i lavori che egli desiderava, uno dietro l'altro, sempre più impegnativi. Primo, l'imponente Seminario dell'Esarcato Cattolico di Rito Etiopico, costruito, in Asmara per ordine della S. Congregazione per la Chiesa Orientale.

        Nella costruzione della Chiesa del Seminario, sormontata da una grande cupola, Fr. Laffranchi sfoggiò un'altra sua trovata geniale, «per risparmiare tempo e danaro», diceva lui. Per gli archi portanti la cupola scartò il solito tipo di ponti ingombranti e usò una leggera armatura di ferri angolari dexion. In brevissimo tempo costruì, uno dopo l'altro, i quattro archi. Ultimato il lavoro, i ferri dexion gli servirono per costruire i grandi scaffali, necessari in Seminario.

        Esperti di Asmara e rappresentanti di ditte straniere ammirarono la geniale armatura e la fotografarono. Le fotografie furono pubblicate, a titolo reclamistico, sopra serie riviste inglesi.

        Mi trovai presente un giorno a una di queste visite. L'esperto ammirò la cupola in costruzione e poi mi chiese: «Vorrei parlare con l'ingegnere che ha ideato questo tipo di armatura». «Eccolo là», gli risposi, additandogli il Fratello che, in tuta da lavoro, era intento a mescolare l'impasto di cemento, in mezzo ai suoi operai eritrei.

        Per l'inaugurazione del grandioso Seminario, fatta dall'Em.mo Cardinal Tisserant nel Gennaio 1959, Fr. Laffranchi volle coronare l'imponente costruzione con un gesto di squisita devozione mariana. A ricordo del centenario delle apparizioni di Lourdes fu eretta nel recinto del Seminario una grotta. A quella sua grotta Fr. Laffranchi riservò il meglio di se stesso.

        Al termine di una giornata massacrante, partiti tutti gli operai, egli saliva sulla collina, sceglieva, a una a una, le pietre; le collocava al loro posto, con un ultimo tocco delle sue mani, quasi dicesse: dove metto io le mani, metterà i suoi piedi la Madonna! Viali, piante, fiori, il bel roseto, curò tutto personalmente; e, prima di rincasare a notte avanzata, accarezzava con un ultimo sguardo compiaciuto la sua grotta.

        «Fratello, è tardi; è già ora di dormire», gli dissi una sera. «Mi lasci qui ancora un po' - mi rispose. - Questa grotta la voglio fare bella e invitante. Chi sa quante vocazioni dei nostri Seminaristi si salveranno qui ai piedi della Madonna!».

        La sera della benedizione della grotta, per mano dell'Em.mo Card. Tisserant, il Fratello era là, vicino alla statua della Vergine, con la testa china, gli occhi rossi rossi, muto come al solito: atteggiamento di chi offre e consacra il proprio lavoro alla Vergine Santissima.

L'uomo completo

        Questo era Fr. Laffranchi intimo, quello che si nascondeva all'occhio indiscreto. Ma ce n'era un altro, quello che tutti conoscevano e amavano, il Fratello gioviale, sorridente, amante della compagnia, il re della conversazione e dello scherzo arguto. Egli la sua vita se la voleva godere tutta. Dio non glielo proibiva. E voleva far godere gli altri. Quante serate trascorse beatamente intorno a un mazzo di carte, nella cerchia dei Confratelli! Ma guai agli incauti! C'era da stare all'erta. Egli aveva un debole: imbrogliava. Le caramelle messe in posta se le voleva guadagnare con tutti i mezzi. Dopo le avrebbe distribuite.

        E che dire della sua vera passione per il calcio? Assistere a una bella partita era il suo passatempo dei pomeriggi domenicali. Voleva rifarsi dalla fatica della settimana, e non dimenticare il gusto della vita. Il lunedì scoppiava dalla gioia quando poteva mostrare ai suoi operai il giornale dove si leggeva a caratteri cubitali: Il Comboni ha sgominato la Giovane Italia per 5 a 1; ovvero: il Comboni ha vinto il torneo.

        C'era il Fratello degli impossibili, del quale io conoscevo il segreto. Si trattava di allestire, dalla sera alla mattina, alcune aule scolastiche? Avevo in mente un saggio finale, di proporzioni colossali? Arrivava S. M. l'Imperatore Hailé Sellassie, in visita al Collegio, con tutta la famiglia imperiale? Sapevo a chi rivolgermi. L'organizzatore e lo sgobbone entravano in azione. Puntualmente, all'ora fissata, tutto era pronto. Ma dove si era ficcato il Fratello al momento degli applausi? S'era dileguato; o meglio, nascosto dietro una finestra assisteva allo spettacolo e godeva della gioia di tutti.

        Vi era il Fratello nemico dei medici. Lo vedevi sfinito e febbricitante? Guai a chiamargli il medico! Si barricava e si nascondeva. Aveva terrore di una parola che certamente il medico avrebbe pronunciato: Fratello, è necessario riposarsi! Riposarsi? La conosceva lui, il Fratello, la sua medicina. Una ferrea volontà, che spremeva tutte le sue energie, come il succo di un limone, e lo faceva guarire... in barba ai medici.

        C'era il Fratello degli operai. Per i suoi operai, cristiani e mussulmani, Fr. Laffranchi era buono come il pane, sacro come una divinità. Li ingaggiava a centinaia e dal nulla cavava operai provetti, specialisti raffinati. Un giorno all'Asmara fui chiamato in foresteria. Un ingegnere mi cercava. Era Ahmed, un bel giovanotto mussulmano, che Fr. Laffranchi aveva ingaggiato, a Khartoum come manovale. Alla sua scuola era divenuto ben presto operaio specializzato, e ora andava a Gedda a dirigere la costruzione di alcuni palazzi. La sua laurea gliel'aveva rilasciata Fr. Laffranchi, e per riconoscenza il buon mussulmano rinunciava al suo nome per chiamarsi Pietro.

        Chi era Fr. Laffranchi per i suoi operai? Me lo disse un giorno il suo fido Zeggài, quello stesso che da zero era diventato provetto muratore: Fr. Laffranchi «Qeddus iyòm» (è un santo!).

Il supremo olocausto

        L'ultimo regalo di Fr. Laffranchi all'Eritrea fu il moderno edificio del Collegio Comboni per le classi medie e secondarie. Il superbo edificio esigette dal Fratello un esoso scotto, che egli pagò di proprio, con la moneta sonante del sacrificio di se stesso. Oramai la sua salute era a brandelli.

        L'8 Dicembre 1959 lo portai a Khartoum, prima tappa verso l'Italia. Sull'aereo si asciugò una lacrima e poi si consolò dicendo: «Meno male che Mons. Baroni mi permette di fare una sosta a Khartoum per restaurare l'esterno della cattedrale, sciupato dal tempo». Quando rivide la sua prima cattedrale, le ultime energie rimastegli rifluirono al comando della sua volontà. Restauri alla cattedrale, poi Club dell'Azione Cattolica, lavori a Port Sudan, lavori ad Atbara; dov'era il tempo per pensare alla stanchezza e al male che lo divorava? Ma ci pensarono i Superiori che, di nascosto, predisposero tutto per la sua partenza per l'Italia.

        Ma ecco la Provvidenza venirgli incontro, in extremis, esaudendo la sua commovente preghiera: Lasciatemi costruire un'altra chiesa, e poi mandatemi pure in vacanza! Non era stata questa l'insaziabile brama di tutta la sua vita: costruire chiese, chiese, chiese? Così nel Di­cembre 1960 iniziò i lavori della cattedrale di El Obeid, bianca cittadina, sperduta nel deserto, settecento chilometri a sud-ovest di Khartoum. In cinque mesi ne costruì più della metà.

        Ecco quanto scrive un suo confratello da El Obeid: « E' rimasto, in piedi sulle armature fino all'ultimo momento. La sua ferrea volontà si trascinava dietro quel corpo, disfatto, agli estremi della resistenza, umana. «Quanto mi dispiace di non potervi dare una lezione!», diceva ai confratelli che giocavano alle bocce, mestamente dondolandosi sullo sdraio. Le mie gambe fanno cilecca, ma sulle armature sono salde come pilastri!».

        Calcoli matematici, progetti e disegni si accavallavano nella sua mente di giorno e di notte, quando il caldo (diceva lui - il male, diciamo noi) non lo lasciava dormire. Il male gli rendeva una fatica d'Ercole anche i lavori più leggeri, ma non si risparmiò sino all'ultimo colui che a stento al mattino riusciva ad ingoiare la santa particola. Più volte lo vedemmo uscire di chiesa per rimediare con un sorso d'acqua alla difficoltà d'ingoiare.

        Oramai era sfinito: pressione sessanta, i globuli rossi in impressionante diminuzione. Più nessun cibo era adatto al suo stomaco. Anche i denti si rifiutavano di aiutarlo, perché guasti e doloranti da chissà quanto tempo. S'era ridotto a cuocersi da solo una polentina sbiadita.

        Qualche giorno prima della fine fu ricoverato in clinica a Khartoum. La Pia Madre della Nigrizia volle scoprirlo e pulirlo. La delicatezza del Fratello ne soffrì un martirio. Ma quello sguardo fugace bastò per far comprendere alla Suora il cumulo di mali che il buon Fratello si era sforzato di nascondere.

        E con tutti quegli acciacchi addosso, il giorno prima di morire, dalla finestra della sua stanzetta aveva ancora qualche consiglio da impartire al Fratello che dirigeva i lavori di una erigenda ala della clinica.

        A contatto col lavoro sembrava risuscitare, e non disperava delle forze che pure sentiva ridotte ai minimi termini. «Voglio andare subito in Italia - diceva - guarire in fretta, ritornare a finire la cattedrale di El Obeid; poi andrò a Port Sudan, poi c'è quell'altra chiesa, poi farò senz'altro un po' di vacanza!».

        Così, preso dall'incessante susseguirsi dei lavori che lo reclamavano, continuò il gioco di rimandare la sua vacanza fino al giorno che il Signore lo chiamò al riposo eterno, proprio là a Khartoum, dove egli Gli aveva eretto la sua più bella chiesa.

        Caro Fr. Pietro, la vostra meravigliosa carriera non può essere contenuta in questa scarna rievocazione. La vostra vera vita l'avete scritta voi stesso, negli edifici che avete disseminato un po' dovunque, nelle chiese dove il popolo prega, nelle case che noi abitiamo.

        Grazie degli edifici; grazie dei buoni esempi; grazie del vostro buon cuore; grazie soprattutto degli amori che vi avete insegnato: l'amore alla Casa di Dio, l'amore alla Madonna e l'amore ai neri.             P. Armido Gasparini, F.S.C.J.

Dal Bollettino n. 59, ottobre 1961, p.425-435

Cf. Nigrizia, Novembre 1961, pp. 32-37