In Pace Christi

Mazzoldi Sisto

Mazzoldi Sisto
Data urodzenia : 13/01/1898
Miejsce urodzenia : Nago TN/I
Śluby tymczasowe : 11/02/1930
Śluby wieczyste : 11/02/1933
Data święceń : 29/06/1922
Data ślubów : 24/06/1951
Data śmierci : 27/07/1987
Miejsce śmierci : Nairobi/KE

Massiccio, tarchiato... trentino. Bastava guardarlo in faccia, Sisto Mazzoldi, per rendersi conto che era un uomo di idee estremamente chiare e di principi sodi. Non molti, ma abbastanza "quadrati" per dare un'impronta determinante nel difficile campo dell'evangelizzazione missionaria africana, portata avanti per quasi 60 anni e sempre in prima linea.

         Dai suoi occhi luminosi e schietti traspariva il cuore generoso e sufficientemente grande per abbracciare il continente nero. Il battito del ciglio sottolineava una volontà a prova di deserti e di savane.

         Quest'uomo, nato a Nago di Trento il 13 gennaio 1898, proviene da una famiglia di 9 fratelli "ai quali tutto viene procurato dai genitori con gioia ed allegrezza grandi, perché i figli sono visti come un dono di Dio".

         A dodici anni entra nel seminario di Trento mosso dal desiderio di diventare sacerdote. Cinque anni dopo scoppia la prima guerra mondiale ed egli deve piantare tutto per andarsene profugo in Moravia con la famiglia. L'anno seguente, 1916, è chiamato a servire l'Austria con la divisa militare. Per evitare "spiacevoli compromessi" con le truppe italiane, viene inviato a Enns, nell'Austria Superiore. La vita è abbastanza tranquilla per cui si attacca ai libri e, a Vienna, supera gli esami di liceo. Quando Trento diventa città italiana, ritorna nel suo vecchio seminario e riprende gli studi interrotti. Il 29 luglio 1922 sale l'altare per la prima messa. E subito 6 anni come cappellano a Lavis, un grosso paese quasi alla periferia di Trento. Qui ci sono i giovani, tanti giovani che da don Sisto sono animati in molteplici iniziative. Tra essi si nasconde anche Cristo con i suoi ... tranelli.

"Nel 1928 stavo parlando delle missioni con un ragazzo davanti alla porta della canonica. Sentivo la vocazione missionaria, ma non riuscivo a superare l'amore per la mamma. Improvvisamente una luce alla mente, chiarissima, mi illuminò e mi fece capire che io ero chiamato a diventare missionario. Pronunciato in spirito il mio sì provai una pace profondissima che mi inondò fino alle più intime fibre. Pieno di questa soavità inesprimibile, lasciai il giovane, entrai in canonica, salii nella mia stanza e mi inginocchiai davanti al letto. Ripetei a Dio che ero pronto" (dal diario di Mons. Mazzoldi).

 

Con licenza di partire

         "Desiderosi di cooperare costantemente all'adempimento della volontà di Dio e alla sua gloria, dovendo ritenere per la lunga prova che la vocazione religiosa e missionaria che la chiama tra i Figli del Sacro Cuore di Gesù proviene appunto dal Supremo Reggitore delle cose umane, siamo lieti di concederle, colla presente, la licenza prescritta dal canone 542 n°2.

         La ricompensi la divina Bontà della zelante opera spesa nella cura delle anime di questa diocesi, e la ricolmi dell'abbondanza dei celesti carismi, auspice della quale le impartiamo di cuore la pastorale benedizione.

Celestino Vescovo".

         È questa, la lettera, che in data 15 settembre 1928 il vescovo di Trento inviava al parroco di Lavis, don Sisto Mazzoldi, che da anni scalpitava dal desiderio di entrare tra i missionari comboniani.

         Papà Giovan Battista e mamma Mazzoldi Antonia avevano troppa fede per protestare di fronte ad una decisione simile. E poi, avessero anche protestato, con quel carattere che aveva don Sisto, sarebbe stato fiato sprecato.

         La gente di Lavis ricevette la notizia con calma tutta trentina. C'era da aspettarselo. Il loro parroco parlava sempre delle missioni come se tutta la faccenda dipendesse da lui. E intanto gli episodi di generosità di don Sisto passavano di  bocca in bocca, e anche quelli di zelo per portare i sacramenti agli ammalati dei paesi lontani, e i gesti di carità fatti sottobanco, quasi che neanche l'interessato se ne accorgesse, e anche le arrabbiature (rare ma solenni) quando le cose non andavano per il verso giusto. Egli le chiamava "gesti di zelo" ... Tutto era finito, o forse tutto cominciava, anche per il paese?

         In quello stesso 1928 don Sisto lasciò la parrocchia, la famiglia, il paese ed entrò in noviziato a Venegono Superiore.

 

Hic sunt leones

         Il tirocinio nel noviziato per prepararsi alla vita missionaria fu uno scherzo per don Sisto che teneva costantemente gli occhi puntati su quell'Africa che gli bruciava l'anima e che gli faceva palpitare il cuore.

         Il 2 agosto 1931 era a Khartoum con puntatine ad Atbara e a Port Sudan, sul Mar Rosso. "Il fatto di non poter evangelizzare gli Arabi musulmani, perché proibito dalla loro legislazione, mi rendeva consapevole che quello non era il mio posto"... Uno di quei pochi ma sodi principi che guidavano la vita del giovane missionario era questo: "Andate ed evangelizzate". Se non si può evangelizzare ...      Alla fine di novembre p. Sisto Mazzoldi era a Juba, nel cuore del Bahr-el-Gebel, con destinazione Rejaf, un posto adatto ai novellini, per farsi le ossa. Insieme a p. Patroni, l'ex cappellano di Lavis tirò fuori un secondo "principio": per evangelizzare non bisogna aspettare che la gente venga da noi, ma noi dobbiamo andare da essa, grandi e piccoli, vecchi e giovani, uomini e donne, stregoni e capi... Tutti perché tutti sono amati da Dio". E si scatenò in continui safari (visite ai villaggi) logoranti, estenuanti, che non provocarono l'esaurimento solo perché l'amore con cui venivano fatti era più grande della fame, della sete, delle notti passate in capanne improvvisate o in balia delle zanzare col rischio di trovare il serpente sotto la stuoia che fungeva da materasso.    Insieme alle visite, i missionari si adoperarono a creare una fitta ragnatela di catechisti, autentici parroci senza facoltà di celebrare la messa e di confessare. Sì, perché questo rispondeva ad un altro principio basilare dell'evangelizzazione secondo Mazzoldi, il terzo: "L'Africa deve salvarsi da sé", appunto come aveva detto il Comboni, fondatore dell'Istituto nel quale don Sisto era entrato.

         Quando nel 1934 p. Mazzoldi fu invitato a trasferirsi in un'altra zona, quella di hic sunt leones, tutto il territorio abitato dalla tribù Bari, che si estende lungo il Nilo per 130 chilometri al Nord e 140 al sud di Rejaf, aveva sentito parlare del Vangelo. Dappertutto si pregava Dio ed il popolo era orientato verso la Chiesa.

         Ma il bocconcino prelibato per uno dai gusti forti come p. Sisto stava per arrivare: Kapoeta, nel cuore della tribù Topossa, a 360 chilometri ad est di Rejaf. L'unico bianco che, a quella data, era stato visto in zona era il commissario distrettuale inglese, capitano King.

         Quattro capanne di paglia e fango sono la prima abitazione dei missionari. Fr. Faustino innalza la croce sopra una collinetta come per dire: "D'ora in avanti qui comanda lui". Ma la gente gira al largo. Finalmente dopo 10 giorni ecco farsi avanti il Capo accompagnato da due sottocapi e da due guardie armate di lancia. Il Capo prende posto sulla sua sedia davanti all'abitazione del padre.

         "Vorremmo parlarti", comincia il Capo. Un giovane cattolico della tribù Bari, che conosce il Topossa, fa da interprete. "Eccoci qua" rispondono i missionari. "Chi siete? Perché siete venuti? Volete il musoro (tassa governativa) anche voi? Volete il nostro bestiame? Le nostre donne?". "Niente di tutto questo. Noi vogliamo portarvi la Parola di Dio che è nostro padre e che vi vuole bene".

         Il colloquio dura tre ore. Alla fine il Capo sentenzia: "Tu hai parlato bene; puoi restare qui, e puoi venire nei nostri villaggi a parlare con tutti". Dopo 12 anni di lavoro non c'era villaggio in quella tribù di 200.000 abitanti che non avesse un nutrito gruppo di cristiani. Le cappelle disseminate nel territorio erano una cinquantina e i catechisti un piccolo esercito ben preparato.

         P. Mazzoldi aveva lavorato bene. I superiori sapevano che nella sua poderosa testa c'era anche un altro dei suoi famosi principi: l'impellente necessità di formare sacerdoti africani. A Okaru esisteva già un seminario. P. Mazzoldi fu nominato rettore. "Nel 1946 venni trasferito a Okaru. Fu una scossa ed uno strappo partire da quella tribù. Con tutti ero ormai un 'cor unum et anima una' ma i frutti di bene si colgono solo mediante l'obbedienza".

         P. Sisto diede un buon impulso al seminario, alla scuola primaria e a quella secondaria. L'anno dopo, però, dovette abbandonare la postazione perché inviato in Italia a rappresentare i missionari del Sudan meridionale al Capitolo generale della Congregazione.

         Questo fatto la dice lunga sulla fama che il padre si era fatto come missionario.

 

Vescovo dei tribolati

         Nessuna meraviglia, dunque, se al suo ritorno dall'Italia nel dicembre del 1947 si trovò sulle spalle la responsabilità di Superiore regionale, cioè responsabile dei missionari del Bahr-cl-Gebel. Sua nuova sede fu Torit, tra la tribù Lotuho. Altra lingua, altri usi, solo le tribolazioni erano quelle di sempre. E anche l'impegno missionario era della lega che già conosciamo.

         A Juba, intanto, occorreva un vescovo, perché l'attività missionaria creava nuove chiese, nuove missioni e una massa sempre più grande di cristiani. Roma mise gli occhi su quel missionario trentino che parlava poco e lavorava sodo. Per ricevere la croce degli apostoli, Mons. Mazzoldi volle andare a Trento nella stessa cattedrale di San Vigilio che l'aveva visto novello sacerdote.

         Il Sudan intanto s'avviava ad essere una nazione indipendente dal potere anglo-egiziano. Con i fermenti patriottici cominciarono i problemi che divennero vere e proprie tribolazioni dopo l'indipendenza (1° gennaio 1956). Il motivo principale di tante sofferenze va ricercato nella fondamentale incompatibilità tra il Nord arabo e di religione musulmana ed il Sud africano e di religione cristiana o animista. Il ricordo della schiavitù esercitata dagli arabi nei confronti degli africani non si era ancora cancellato. Le incomprensioni diventarono ben presto persecuzione. Le scuole di missione furono nazionalizzate, i missionari divennero oggetto di restrizioni di ogni genere: non potevano costruire nuove cappelle, non potevano distribuire medicine, non potevano spostarsi da un luogo all'altro, non potevano battezzare i minorenni... I martiri tra i catechisti e perfino tra i ragazzi della scuola e i semplici cristiani diventarono dati di fatto. Alcuni missionari furono imprigionati, altri espulsi. E Mons. Mazzoldi era il capitano di questa barca che faceva acqua, per non dire sangue, da tutte le parti.

         Per dare consistenza alla Chiesa sudanese, giacché una Chiesa non è completamente fondata se non ha anche i suoi religiosi, nel 1951 monsignore fondò la Congregazione delle suore africane "Sorelle del Sacro Cuore" e nel 1953 quella dei "Fratelli di San Martino de Porres" che aveva lo scopo di formare maestri e catechisti qualificati sia per le scuole di religione, sia per le altre scuole, fino a livello universitario.       Ma bisognava dare anche quantità alla Chiesa per arginare la spinta musulmana. Per questo ordinò ai suoi missionari di battezzare appena ci fosse il minimo di preparazione e di buona volontà. Egli stesso, nei momenti liberi, si sedeva sotto una pianta e dava lezione di catechismo a gruppi di ragazzi. E quando un missionario di ritorno da un safari gli diceva di aver battezzato 1000 catecumeni, egli rispondeva: "Solo?". Ma lo si vedeva: dentro era felice. Così i Lotuho, al ritmo di 20.000 l'anno entravano nella Chiesa. La sete di anime lo bruciava. Una volta andò in un villaggio che confinava con i Denka. Il missionario aveva dato alle bambine degli straccetti ricavati dai paramenti sacri perché si coprissero un po'. Quando arrivò Mazzoldi le neobattezzate erano tornate come il buon Dio le aveva create. "Che mi dirà monsignore? pensò il povero missionario. Questi, come se nulla fosse, si mise a confessarle con una tenerezza che commuoveva.

         Il 24 febbraio 1964 tutti i missionari furono espulsi dal Sudan Meridionale. Mazzoldi non fece tragedie, non si disperò. Sapeva di aver compiuto il suo dovere e ora rimetteva le cose nelle mani di Dio.

         La persecuzione che si scatenò in tutta la sua virulenza dopo la cacciata dei missionari dimostrò che sia le Congregazioni religiose, sia i Cristiani erano di ottima fattura.

 

Tra i bevitori di sangue

         I trecento missionari espulsi dal Sudan arrivarono a Roma con un aereo dell'Alitalia il 4 marzo 1964. "Mi sentivo privo di tutto, fortemente scosso, anche se la fede era forte - scriverà Mons. Mazzoldi -. Il Signore, nella sua bontà, mi venne presto in aiuto. Appena fuori dall'areoporto, il Vicario generale dei comboniani mi disse che c'era la possibilità per me di andare in Uganda, tra i Karimojong. Questo territorio in diocesi di Gulu stava per essere separato e per diventare la diocesi di Moroto".

         Una volta in Uganda, Mons. Mazzoldi cercò di trascinarsi dietro tutti i missionari e suore che aveva in Sudan. Ma non era egoista. Quando seppe che alcuni erano andati in altre parti del mondo disse: "Bene, bene, anche quella gente ha diritto di conoscere il Signore".

         Mons. Mazzoldi fondò subito un seminario. Anche da quel popolo di pastori e razziatori, sarebbero venuti ottimi sacerdoti. E il futuro gli diede ragione. Nell'aprile del 1979 il primo sacerdote karimojong salì l'altare. Gesù ha detto: "Evangelizzate e curate gli infermi". A Matany sorse un ospedale in piena regola. E poi missioni e piccoli dispensari e centri per lebbrosi e l'orfanotrofio e le opere sociali e scuole di ogni tipo e centri catechistici e altre due Congregazioni religiose: una di missionari africani gli "Apostoli di Gesù", una seconda di suore missionarie africane "Le Suore evangelizzatrici di Maria". Incoraggiò p. G. Marengoni, suo braccio destro in queste fondazioni, ad iniziarne un'altra, quella dei "Missionari contemplativi del Cuore di Gesù".

         A 83 anni Mons. Sisto Mazzoldi passava l'incarico ad un vescovo africano, Mons. Paul Kalanda. Lasciava l'incarico e 155.600 karimojong cattolici, il 42% della tribù.

         Per non essere di intoppo al nuovo pastore si ritirò in Kenya, in una casa degli Apostoli di Gesù e continuò a catechizzare chiunque avvicinava.

         Nei momenti liberi, era in fondo alla chiesa in preghiera. Di tanto in tanto, con la sua voce pacata diceva: "Signore, ti amo! Venga il tuo Regno!".

         Quando gli dissero che un tumore gli aveva intaccato il fegato ringraziò Dio di morire in Africa e chiese di essere sepolto in quella terra che era diventata la sua terra. Un altro principio della sua filosofia missionaria diceva così: "Il missionario è un seme anche da morto. Per portare frutto deve essere sepolto dove muore".    P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 156, gennaio 1988, pp. 106-111