Erano le prime ore del 2 settembre 1912. Col vestito delle feste indosso e il passaporto austriaco in tasca, Uberto Vitti lasciava Cortesano, il suo paesello di 250 abitanti, per iniziare quella che sarebbe stata l'avventura più bella della sua vita: sacerdote missionario.
Nell'aprile del 1906 la morte era venuta a battere alla porta di quella casa piena solo di bocche da sfamare. Il papà, al ritorno dal campo, accusò i brividi della febbre. Si mise a letto e, poco dopo, morì stroncato dalla polmonite.
Fu un colpo durissimo. Mamma Rosa, benché poverissima, non si perse d'animo. Animata da una fede viva nella Provvidenza, si caricò tutto il peso da sola e portò avanti la famiglia. Lavorava di giorno e di notte e faceva pregare i suoi bambini ricordando loro gli episodi evangelici degli uccelli del cielo che vengono nutriti da Dio, e dei gigli del campo che sono vestiti dal Signore. Nessuno dei suoi figli perse un giorno di asilo o di scuola.., e ogni giorno, grazie anche alla carità della gente, riuscì a dar loro il cibo necessario.
La vocazione
Il primo ricordo della mia vocazione - scrisse p. Vitti - risale all'età di 10 anni. La mamma era andata a Trento a trovare mons. Antonio Tait, presso il quale aveva lavorato come domestica fino al matrimonio. Dopo sposata, andava di tanto in tanto per consigli e per portargli le primizie del campo.
Quel giorno dunque, appena rientrata in casa, le fummo tutti attorno per vedere che cosa ci avesse portato di buono.
Aprì il cestello e tirò fuori qualche regaluccio. Cose da poco, perché poveri. Poi, con nostra sorpresa, ci mostrò tre corone del rosario regalatele dal Monsignore proprio per i tre ragazzi più grandi...".
Mons. Tait si era intrattenuto a lungo con mamma Rosa e le aveva chiesto che cosa intendesse fare dei suoi cinque figli.
"Non vorrai che restino tutti contadini! Uno o l'altro potrebbero imparare qualche arte o mestiere. Meglio ancora: non saresti contenta se almeno uno si consacrasse al Signore come sacerdote o missionario?”
"Altro se sarei contenta, anche tutti e cinque!"
"Allora porta a casa queste corone e regalale ai più grandi. La Madonna farà il resto".
Quando la mamma raccontò il fatto e chiese chi di loro voleva farsi missionario, tutti alzarono la mano dicendo: "Io, io!". Ella fissò gli occhi su Uberto e disse: "Tu!" Gli consegnò la corona e gli disse di pregare tanto e di pensarci su.
Come tutti i ragazzi, Uberto era molto vivace e amante del gioco. Prediligeva quello con le palline, di cui era esperto. E di palline aveva sempre piene le tasche tanto che la mamma gli diceva: 'Te me roti tute le scarsele (mi rompi tutte le tasche)'. A scuola otteneva sempre i più bei voti perché era molto diligente e studioso. Quando il maestro diceva alla mamma che il suo bambino era il più bravo di tutti, lei sorrideva di soddisfazione e si divertiva a guardarlo mentre studiava e scriveva. Alla sera era ancora Uberto a ricordare ai fratellini che era il momento di cominciare il rosario".
In base a queste testimonianze possiamo vedere l'origine della grande devozione alla Madonna, che è stata la caratteristica fondamentale della vita sacerdotale di p. Vitti. Egli trasferì nella Madre di Dio l'amore fatto di sacrificio, la dedizione senza risparmio, la costante preoccupazione della sua mamma per i cinque orfani. Ella trasmetteva tutti i giorni ai figli la convinzione che "la Madonna è la più assidua, la più attenta, la più amorosa delle mamme".
La scuola del dolore che segnò l'infanzia di p. Uberto e determinò il suo cammino spirituale, gli insegnò che ogni sofferenza è resa sopportabile dalla presenza della mamma, a sua volta specchio e segno dell'altra Mamma.
Nel seminario comboniano di Brescia
A Brescia, Uberto fu particolarmente fortunato.
Il superiore, p. Angelo Abbà, era un milanese giovanissimo che amava veramente i ragazzi e sapeva ottenere la disciplina senza farla pesare. Scrive p. Vitti: "Ci teneva conferenze di mezz'ora più volte alla settimana; ci insegnava a pregare e come comportarci a scuola, con i superiori e con i compagni. Le sue lezioni di galateo erano perfette. La messa era quotidiana; la comunione, però, facoltativa. Ogni mattina ci dava il pensiero del giorno che chiamavamo meditazione. Ogni settimana veniva un sacerdote dalla città e tutti si andava a 'fare bucato' con una buona confessione.
Il superiore sapeva anche tenerci allegri. Giocava con noi, come uno di noi. Era il nostro amico. D'inverno, alla sera, qualche volta ci portava a teatro presso il Collegio Arici dove andavamo a scuola, ovvero dagli Artigianelli; oppure ci faceva i burattini. Ognuno poteva andare liberamente a trovarlo in stanza e a dirgli tutto ciò che voleva. Egli ascoltava e dialogava proprio come un fratello maggiore".
Il lungo silenzio
Durante i cinque anni di ginnasio i seminaristi comboniani non andavano mai a casa per le vacanze. Queste si facevano nella casa di Solato (Brescia) tutti insieme, e duravano dai primi di luglio a metà settembre. Poi tornavano a Brescia per prepararsi alla scuola. Solo dopo la quinta ginnasio i giovani andavano a trascorrere tutte le vacanze in famiglia. Era una gioia attesa da tanto tempo, ma anche una prova. Infatti, chi era deciso a proseguire doveva fare domanda per essere ammesso al noviziato. C'era sempre qualcuno che dalle vacanze non tornava più.
Per p. Uberto questo piano andò a vuoto. Nel 1915 era scoppiata la guerra tra l'Italia e l'Austria. Il Trentino era territorio dell'impero Austro-Ungarico e le comunicazioni con l'Italia vennero interrotte. Saltarono quindi le vacanze e anche le comunicazioni epistolari. Fu un momento difficile. Solo nel 1917, attraverso la Croce Rossa svizzera che aveva fatto delle ricerche, i familiari vennero a sapere che Uberto si trovava nel noviziato dei Comboniani a Savona. Era in buona salute e continuava regolarmente gli studi.
Novizio
Il 16 settembre 1916 Uberto era partito con alcuni compagni alla volta del noviziato che, a causa della guerra, da Verona era stato trasferito a Savona, di fronte ai mare, in una località chiamata Lavagnola.
Oltre che della bella vista e dell'aria pulita, i novizi potevano usufruire di un vasto appezzamento di terra che una buona signora aveva gratuitamente dato loro in uso .
P. Giuseppe Bernabé, maestro dei novizi, registrò il cammino nella via della perfezione che il giovane faceva di mese in mese. "Mostra un desiderio sempre più intenso e continuo di migliorarsi. È un giovane veramente serio che cerca di dare il massimo in tutto. Non trova grandi difficoltà nella vita religiosa".
Il 25 marzo 1917, festa dell'Annunciazione, Uberto si consacrò alla Madonna con la formula di san Luigi Grignon de Montfort, divenendo 'schiavo d'amore'.
Ad alcuni quella parola 'schiavo' non andava, in quanto la Madonna è una mamma e non una padrona. Vitti dirà: "Se avessi creduto di più al Montfort e mi fossi impegnato più generosamente, avrei fatto voli d'aquila e non da gallina nella vita spirituale".
Il primo novembre 1918 emise i Voti di povertà, castità e obbedienza che lo consacrarono missionario nella Congregazione dei Missionari del Cuore di Gesù.
Il 4 novembre la guerra finì. Tutte le campane di Savona squillarono a festa, e le sirene del porto fecero sentire il loro urlo che, questa volta, era di gioia.
Ma già la terribile 'spagnola' mieteva tante vittime. E questo costituiva un triste contrasto con la voglia di vivere portata dalla pace.
Pochi giorni dopo Uberto partiva per Verona munito di passaporto, perché si era ancora in zona di guerra. Da Verona proseguì per Trento, ormai italiana, e salì a Cortesano ad abbracciare i suoi, dopo tanti anni di ansiosa attesa.
Si recò quindi a Verona, per frequentare nel seminario di quella città la seconda e terza liceo e la prima teologia. Poi, nel settembre del 1921, fu trasferito nel seminario comboniano di Brescia come assistente dei ragazzi che, come lui tanti anni prima, avevano lasciato la famiglia attratti dall'ideale missionario.
Il 14 giugno venne ordinato sacerdote nel Duomo di Brescia da mons. Giacinto Gaggia.
Nel segno della malattia
Dopo le vacanze, tornò a Brescia. Qui una nuova e grandissima croce lo aspettava. Egli stesso scrisse: "Il 30 giugno 1924, durante la predica a chiusura del mese del Sacro Cuore, tenuta da p. Federici, ho avuto uno sbocco di sangue. Finita la predica mi sedetti all’harmonium per il Te Deum e la benedizione. Poi a letto. Il medico, prontamente chiamato, diagnosticò che si trattava di tubercolosi. Dopo una settimana mi portarono a Verona, dove mi sottoposero alle cure del caso.
La febbre era persistente e mi indeboliva ogni giorno di più. Arrivammo intanto alla novena della Madonna Assunta. La pregai con fervore, e con me pregava molto anche la mamma che diceva: 'Non è possibile, Madonna santa, che tu abbia chiamato mio figlio a studiare tanto e a diventare missionario per poi farlo morire così giovane e senza aver compiuto la sua missione'.
Le preghiere della mamma furono efficaci e, proprio la mattina della festa dell'Assunta, mi accorsi che la febbre era completamente scomparsa.
I medici attribuirono la guarigione alle cure (anche se allora la TBC era chiamata il male che non perdona), ma io, invece, sapevo bene da dove era venuta.
Dopo qualche settimana anche le forze cominciarono a tornare. P. Meroni, che era superiore generale, mi disse: 'Visto che ti sei ripreso, ma sei sempre piuttosto gracile, ti mando in Egitto. Il clima mite ti rimetterà in forma molto bene. In seguito potrai proseguire il viaggio nelle missioni tra gli Scilluk, nel cuore dell'Africa'. Insieme ad altri confratelli, il 31 ottobre 1924 mi imbarcai per il Cairo".
P. Vitti non era fatto per l'Africa. Dopo un anno e mezzo la malattia si risvegliò, per cui dovette tornare d'urgenza in Italia. Era l’8 aprile 1926. Dopo un anno di permanenza a Trento, la salute era rifiorita.
"Vedi mamma - diceva quando andava a Cortesano - la Madonna mi vuole guarito, ma non mi vuole in Africa. Mi pare che questa sia una grazia a metà, perché io sono missionario".
"Per me è una grazia giusta - rispondeva la mamma -. Ci sono anche qui tante anime che hanno bisogno del sacerdote... Basta che tu sia un sacerdote santo".
Dopo un anno di permanenza a Trento (1927-1928), i superiori destinarono p. Vitti a Venegono Superiore con l'incarico di vice padre maestro dei novizi e confessore. Vi rimarrà fino al 1936. Generazioni di novizi attingeranno da lui l'amore alla Madonna e vedranno in quel confratello, sempre sereno e sorridente, l'esempio di un uomo che ha capito come l'abbandono totale alla volontà del Signore sia la medicina più sicura per superare gli inevitabili guai della vita.
Mente e cuore
La devozione alla Madonna, abbiamo detto, è stata l'asse portante della spiritualità di p. Vitti. Ma che tipo di devozione era? Esaminandola - nella misura in cui è possibile intravedere dall'esterno il mistero di Dio in ogni singola anima - ci accorgiamo che essa costituiva il limite e la grandezza di p. Vitti.
Egli vedeva la Madonna dappertutto. Credeva ciecamente alle apparizioni senza il minimo spirito critico. Ciò che riguardava la Madonna era tutto e sempre vero... e via di seguito. Qualche teologo, a sentire p. Vitti, avrebbe potuto sentirsi rizzare i capelli.
Eppure i concetti teologici del padre sulla Madonna erano perfetti: nessun errore, nessuna eresia. Tra lui e il teologo c'era una semplice differenza: quest'ultimo ragionava con la mente, p. Vitti con il cuore.
Si potrebbe dire che vedeva la Madonna in modo umano, affettivo, proprio come si rapporta un figlio con la propria mamma. E quando c'è questo rapporto tra due persone, si accettano e si scusano tante cose.
P. Vitti partiva dal dato di fatto che la Madonna è presente nella storia dell'uomo e nella storia della Chiesa, che è madre e mediatrice, che è avvocata e ausiliatrice, che è sempre pronta a soccorrere e che è onnipotente per grazia, che è il vertice massimo, per una creatura, di tutte le virtù, che è l'Immacolata e la Madre di Dio... Cose tutte vere e proclamate solennemente anche nell'ultima Enciclica di Giovanni Paolo II, 'Madre del Redentore'. Di qui la sua conclusione: se la Madonna è presente, perché non può farsi anche vedere? Perché non può parlare? Perché non può mandare i suoi messaggi per dare una mano a questi suoi figli molto spesso discoli o scapestrati? E se può farlo, perché non dovrebbe farlo? Perciò lo fa, come farebbe la più affettuosa delle mamme con un figlio che è nel bisogno. Dopo una breve esperienza a Padova (1937-38) come padre spirituale dei ragazzi, venne invialo a Venegono Superiore come confessore (1938-41), per passare a Thiene come padre spirituale ('41 - '45).
Superiore... fallito
Quando i superiori tentarono di mettere il padre come vice-superiore a Verona (1945-46), fu un disastro. P. Vitti aveva ormai conformato il suo cuore a quello della mamma. Per fare il vice superiore occorre averlo anche da... papà.
P. Longino Urbani racconta un episodio abbastanza ameno a questo proposito. "Nel primo anno che gli studenti di liceo andarono a Segonzano per le vacanze, p. Vitti fu incaricato come superiore 'ad interim', cioè per quei tre mesi. Non ha mai esercitato il suo incarico. Erano alcuni studenti che determinavano l'orario, le gite, i lavori... e, senza alcuna esperienza e buon senso, le vacanze divennero una confusione tremenda che provocò l'esaurimento in più d'uno. Sì, tutti comandavano, eccetto lui!... P. Vitti è sempre stato un ottimo esempio di obbedienza, non di comando".
"Nel 1946 mi fecero superiore anche a Verona al posto di p. Capovilla che era andato in visita alle missioni - scrisse il padre - ma lo fui per modo di dire. In pratica facevano tutto gli altri".
La lunga giornata di Gozzano
II 29 luglio 1948 la sede del noviziato comboniano fu trasferito da Venegono Superiore a Gozzano, in provincia di Novara. P. Vitti vi era già arrivato da qualche mese, giusto in tempo per assistere al passaggio della Madonna Pellegrina (11 -12 - 13 -14 luglio) e per raccomandare alla Madre di Dio la nuova opera che stava per avere il suo inizio.
Non immaginava, il padre, che la sua giornata gozzanese si sarebbe protratta ininterrottamente per 30 lunghissimi anni. Anni fruttuosi e intensi.
Non vi è casa a Gozzano e nei paesi vicini nella quale il padre non sia entrato per asciugare lacrime, per confortare, per dire a coloro che stavano per lasciare questo mondo che lassù, tra poco, si sarebbero incontrati con la Mamma e avrebbero visto lo splendore del volto di Dio.
Dice il parroco di Gozzano, don Carlo Grossini: "P. Vitti è una nuova gloria che si aggiunge alle glorie della tradizione di questa terra. In tutti c'è una grande ammirazione per quest'uomo che ha dedicato molti anni della sua vita alla comunità gozzanese. È ricordato principalmente come l'uomo buono, l'uomo spirituale e di preghiera. In p. Vitti colpiva il costante sorriso e stupiva la capacità di riportare ogni discorso ai temi religiosi. Resta memoria della sua grande capacità di far pregare persino una grande assemblea popolare come quella che, nel 1978, si è riunita in sala consiliare quando le autorità comunali gli hanno conferito il titolo di gozzanese benemerito. Non ha voluto, in quella circostanza, tenere grandi discorsi, ma ha invitato a recitare insieme un'Ave Maria tra la sorpresa e l'imbarazzo di qualcuno che gli era quasi al fianco e forse non ricordava neppure quella preghiera".
II carisma di saper ascoltare
P. Vitti era un uomo attento alle persone, alla singola persona. Possedeva questo dono in modo eminente e lo usava in particolare con le persone sofferenti. Entrava nelle case dei malati, si sedeva e ascoltava senza mai mostrare di avere fretta. Per lui quella persona era tutto, in quel momento, e non c'era altro al mondo. Alla fine, parlava lui. Parole sobrie, semplici, dette sottovoce e piene di amore verso Dio e verso quella persona oggetto dell'amore di Dio.
P. Zagotto, che è stato superiore e padre maestro a Gozzano dal 1963 al 1969, dice: "P. Vitti si è lasciato spremere dalla gente. Era sempre pronto di giorno e di notte, con la pioggia, con la neve e il ghiaccio. Più di una volta è caduto andando a piedi o in bicicletta. Ad un certo punto gli si procurò un motoscooter perché potesse muoversi meglio, ma dopo un'ennesima caduta, lo facevo accompagnare da un novizio con l'auto. Temeva di disturbare; d'altra parte desiderava andare, e subito, dov'era chiamato. Molte volte era cercato più per un capriccio che per vera necessità, eppure non si è mai tirato indietro, anche se certe uscite gli costavano molto quanto a fatica. Sì, alla gente di Gozzano e dei paesi vicini p. Vitti ha dato tutto se stesso senza risparmio e senza distinzioni".
Don Carlo Grossini aggiunge: "P. Vitti ha fatto migliaia di visite nelle case dove c'erano dolore, sofferenza e morte. Egli ha seguito le tappe della vita di coloro che si sono affidati al suo ministero sacerdotale".
La sua attività si estendeva ovunque ci fosse un'anima bisognosa. Il diario annota: "Primo aprile 1960. C'è la prima comunione di un soldato, assistito in presbiterio da p. Vitti che lo ha preparato a quel solenne momento".
L'attenzione alle persone si estendeva anche ai ragazzi. Scrive p. Primo Biolo: "Un pomeriggio, sotto la finestra della mia stanza, c'erano alcuni ragazzini che giocavano rumorosamente al pallone. Mi davano un po' di fastidio. All'improvviso ci fu un silenzio assoluto. Andai a vedere. Trovai p. Vitti seduto con attorno tutti quei ragazzi che ascoltavano le sue parole con molta attenzione. Certamente parlava loro della Madonna".
Il padre si interessò anche per trovare lavoro ai disoccupati che si raccomandavano a lui. Anche in questo si lasciava guidare dal cuore e dalla compassione, per cui prese dei grossi abbagli. Molti dei suoi raccomandati non avevano trovato lavoro perché... non avevano voglia di lavorare. I datori di lavoro, per l'amore che portavano al padre, ricevevano anche quei 'disoccupati' ma, dopo un po', erano costretti a licenziarli. P. Vitti, quando veniva a conoscenza del fatto, si limitava a dire: "Poverini, poverini!" Non si accorse mai che al mondo ci sono anche degli imbroglioni. Altrettanto dicasi per i poveri che venivano a battere alla porta. Non seppe mai distinguere i veri bisognosi dai soliti furbi. Egli, che era stato povero sul serio, non riusciva ad immaginare che qualcuno lo potesse fare per mestiere.
Le sue frequenti uscite, con ogni tempo e in ogni stagione, gli procuravano frequenti tossi, influenze e bronchiti (anche qualche polmonite). Non per questo si risparmiava. 'Le anime - diceva - valgono ben qualche colpo di tosse, dato che a Cristo son costate il sangue!' E se qualcuno gli diceva che in quel modo si accorciava la vita, rispondeva che 'Gesù non ci chiede di vivere a lungo ad ogni costo, ma di amare il prossimo finché abbiamo tempo e vita'. Il Signore gli concesse anche una vita lunga".
Addio a Gozzano
Ad un certo punto la sua salute cominciò a dar segni preoccupanti: tosse insistente, influenze a catena, disturbi circolatori... I missionari di Gozzano si domandavano se era prudente tenere un confratello di una certa età, e di salute così precaria, in una casa che diventava sempre più fatiscente e mancante delle minime comodità.
Ormai il padre faceva fatica a camminare e aveva dovuto rinunciare alle sue uscite da casa, anche perché non si trovava chi potesse portarlo con la macchina, essendo i Padri spesso fuori per ministero.
Il passo appariva doloroso, ma ormai indispensabile e inderogabile. Così p. Vitti venne trasferito nella casa comboniana di Venegono Superiore, dove avrebbe ancora potuto esercitare il ministero delle confessioni ed essere di esempio ai novizi. In data 25 settembre 1978 il diario registra: "Da oggi p. Vitti fa parte della comunità di Venegono. Ci lascia dopo trent'anni di apostolato in favore, particolarmente, della gente di Gozzano alla quale si è donato senza risparmio".
Vivere la vecchiaia
È interessante vedere come ha affrontato la vecchiaia p. Vitti. Una vecchiaia segnata dalla malattia. È un esempio per coloro che stanno entrando in questa fase che Cicerone, nel 'De Senectute', chiama la più bella della vita. Il maestro di eloquenza latina porta le sue brave ragioni. Vitti aveva altre ragioni ancor più convincenti.
In una lettera del 1983 a p. Felice Centis, commenta un articolo apparso sul Bollettino della Congregazione, scritto dai padri Longino Urbani e Giorgio Canestrari.
Dice: "Sì, la vecchiaia per un vero comboniano deve essere tempo di preghiera e di contemplazione. Tempo in cui uno, nella serena consapevolezza del prossimo incontro col Signore, intensifica il suo affinamento spirituale; tempo in cui ci si deve staccare sempre più dalle cose della terra per concentrare tutta l'attenzione verso quelle vere del cielo; tempo di gioia, dunque, tempo di allegrezza spirituale.
E questa allegrezza deve espandersi anche nella comunità, deve contagiare coloro che accostano l'anziano, deve creare un clima di primavera tutto intorno".
Il pensiero della morte che poteva capitare da un momento all'altro non lo angustiava, anzi gli era motivo di gioia.
"Riguardo alla mia morte devo dirle che già dal noviziato ho detto a Dio che l'accetto come piace a lui, compresa l'agonia. Ho rinnovato questo proposito più volte, ma non ci penso e non mi dà preoccupazioni. Mi affido alla Madonna completamente".
Al novizio che lo assisteva disse: "Ricordati che chi è devoto della Madonna è già predestinato al paradiso".
Quattro amori
Se volessimo riassumere in poche parole la vita di p. Vitti, dovremmo dire che essa è caratterizzata da quattro grandi amori.
Il primo è stato l'amore all'Istituto, ai confratelli e alla Chiesa. Tutti coloro che l'hanno conosciuto sono concordi nel testimoniare che non fu mai udito criticare la Congregazione o la Chiesa. Per p. Vitti la carità era superiore a tutto, perfino alla verità. Oggi invece si tende a pensare e dire il contrario; per questo viviamo in un clima di tensioni più acute. P. Vitti soleva dire: "Non c'è verità senza amore".
Il secondo amore fu per i sofferenti. Era portato verso di loro dalla sua natura mite, delicata, sensibile. Egli però ha perfezionato questa inclinazione naturale con tanta preghiera e spirito di sacrificio.
Egli solo, per esempio, riusciva a dare la comunione al confratello p. Luigi Sacco che da 18 anni vive praticamente senza rendersi conto di essere al mondo, causa un incidente stradale che gli ha tolto l'uso dell'intelletto e perciò ha reazioni imprevedibili.
A Gozzano la gente gli ha scaricato addosso montagne di miserie e di sofferenze ed egli si è fatto carico di ogni cosa, sempre col sorriso. Aveva un particolare atteggiamento di umiltà che gli consentiva di accogliere e di convincere gli indisposti, gli irritati... insomma, aveva il cuore misericordioso.
Il terzo amore è stato quello verso la Madonna, del quale già abbiamo parlato.
Il quarto è stato un grande amore a Gesù Eucaristia e alla Santissima Trinità. Se esaminiamo la nostra vita o quella della maggioranza dei buoni cristiani, ci accorgiamo che siamo continuamente immersi nelle faccende umane, nei problemi terreni. Ma siccome ogni tanto ci ricordiamo di essere cristiani, ecco che allora tiriamo dentro Dio in questo guazzabuglio di cose.
Per p. Vitti era esattamente il contrario. Egli viveva costantemente immerso in Dio e, di tanto in tanto, metteva dentro gli affari terreni, dato che la vita è fatta anche di questi. Però li vedeva e li affrontava alla luce di Dio.
Questa convivenza col Signore gli era fonte di serenità e di pace per cui riusciva anche a dire: "Ti ringrazio Dio, perché le cose non vanno a modo mio".
Sempre grazie a questa familiarità, passava molte e molte ore davanti al tabernacolo senza stancarsi, anzi con un gaudio immenso.
In una delle sue ingenue poesie cercò di concentrare il suo amore a Cristo e l'effetto di questo amore che, secondo san Paolo, dovrebbe portarci a dire: 'Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me'. La riportiamo: "Per aver la carità/ vorrei dir la verità/ Vitti Liberto non c'è più/ al suo posto c'è Gesù./ E in chiunque incontrerò/ solo il Cristo io vedrò./ È il comando del Signore/ è la vetta dell'amore./ Mamma cara abbi pietà/ del tuo figlio in povertà/ e se tempo non ho più/ in Te spero e in Gesù". Il suo amore alla Ss. Trinità merita un paragrafo a parte.
Il segno della santità
La vera santità è quella che porta alla Trinità. Maria, Cristo stesso, sono vie che portano al cuore della Trinità. Nelle ultime lettere p. Vitti parla sempre più frequentemente dello Spirito Santo e diffonde libretti e preghiere che ne propagano la conoscenza e il culto.
Tutti coloro che andavano a trovarlo dovevano uscire dalla stanza con una manciata di libretti sullo Spirito Santo da distribuire, da far conoscere . In una lettera al fratello Giacinto dice: "Oggi, festa del Battesimo di Gesù, vediamo il Padre e lo Spirito Santo che danno testimonianza al Figlio Gesù. La Santissima Trinità è il vero paradiso, è il fine ultimo al quale tutti tendiamo, è il riposo definitivo di ogni cuore".
"L'Eucaristia ci introduce nel mistero Trinitario. Se si vedesse Gesù in persona nel fare la comunione, che cosa non faremmo per piacergli? Non si vede niente, non si sente niente, eppure la realtà supera ogni immaginazione" (31 marzo 1985).
Sempre più spesso, specie negli ultimi tempi, dopo l'immancabile Ave Maria alla Madonna c'era il Gloria alla Ss. Trinità. Anche per questo 'mistero principale della nostra fede' non si avventurava in spiegazioni teologiche; lo meditava, lo contemplava e diceva che avrebbe costituito il vero paradiso.
Si va a casa
Sabato 10 ottobre 1987 il padre viene ricoverato d'urgenza all'ospedale di Tradate per occlusione intestinale. Sono le ore 22. I medici sono molto perplessi, considerate le condizioni generali del malato. È un tentativo in extremis. L'operazione riesce e il padre si riprende abbastanza bene.
Lunedì 12 ottobre 1987, p. Lorenzo Gaiga, che dal primo dicembre 1986 è il nuovo superiore (l'undicesimo) della comunità di Gozzano, va con p. Simonelli a far visita all'ammalato. Questi è lucido, sereno, senza febbre. Parla con facilità e disinvoltura. Cosa dice? Cita a memoria brani di vangelo che si riferiscono alla missione degli apostoli 'Andate in tutto il mondo...'; richiama le sofferenze di Cristo iniziando dalla grotta di Betlemme fino al Calvario; nomina una ad una le Beatitudini e invita i presenti a metterle in pratica... Poi parla della vocazione missionaria e del suo anelito perché la Congregazione possa progredire in santità e i suoi membri siano autentici evangelizzatori... Tutti percepiscono che colui che parla è un autentico missionario anche se la sua missione si è realizzata tra i cristiani.
Richiesto finalmente della sua salute, risponde: "In paradiso andrà certamente meglio. Lo aspetto, lo aspetto e spero che sia vicino... Già troppo mi ha fatto attendere il Signore... Sì, sì, ormai sono stanco di stare su questa terra... Vedere il Signore faccia a faccia!... La prima che incontrerò sarà la Madonna... Oh! spero proprio che manchi ancora poco...".
Il padre si riprende tanto da poter lasciare l'ospedale e ritornare a Venegono. Ma poi inizia il crollo. I medici dicono che sarebbe inutile un ulteriore ricovero.
È spirato alle ore 16 e un quarto del 3 novembre 1987.
Ritorno a Gozzano
In un baleno tutta Gozzano seppe che p. Vitti era morto e che sarebbe stato sepolto nel locale cimitero, secondo il suo desiderio. Il parroco, don Carlo Grossini, disse che doveva essere messo nella tomba dei sacerdoti "perché è uno di noi".
Alla mattina seguente i Comboniani, la parrocchia e l'Amministrazione comunale dettarono alla tipografia i testi dei tre manifesti che, tuttavia, vennero esposti solo il giorno dopo verso mezzogiorno, vigilia dei funerali che avrebbero avuto luogo giovedì 5 a Venegono e nello stesso giorno alle ore 16 a Gozzano.
I Comboniani organizzarono un pullman per portare la gente da Gozzano a Venegono e per accompagnare poi la salma nella Basilica di Gozzano, dove sarebbe stata esposta per qualche ora prima dei funerali. Questo particolare era scritto, con l'orario di partenza, sui manifesti murali. Alla sera di mercoledì 4 nella cappella dei Comboniani ci fu il rosario in suffragio del defunto al quale parteciparono una quindicina di persone.
Al mattino dopo, alle ore 8, il pullman era pronto in piazza del Crocifisso per la partenza. Stranamente c'erano solo nove persone, compreso il signor Rocco Fornara, in rappresentanza dell’Amministrazione comunale e mons. Giuliano Ruga, che rappresentava gli altri sacerdoti impossibilitati a lasciare il paese. La ditta Godi, allora, cambiò mezzo prendendone uno più piccolo.
Don Carlo, arrivato al momento della partenza del torpedone, rimase sorpreso nel vedere così poca gente e disse: "Ma è questo l'amore di Gozzano per p. Vitti?”
A Venegono i funerali furono molto solenni per la partecipazione del popolo e dei sacerdoti. Nei nove anni di permanenza in quella sede il padre si era fatto amare.
Alle ore 13 il carro funebre e il pullman entrarono nella piazza della Basilica di Gozzano. Ad attendere c'era solo don Carlo. Gli autisti del carro funebre e del pullman, il signor Fornara Rocco, il parroco e i missionari trasportarono la bara in chiesa.
Alle ore 16 seguirono i funerali. Nella Basilica, tra i gozzanesi, si notava anche la presenza di una quarantina di persone (parenti e amici) arrivati da Cortesano. Durante la messa parlarono p. Gaiga e don Carlo. Questi, dopo aver ricordato quanto il padre aveva fatto per Gozzano, disse: "II bene compiuto dai sacerdoti è facilmente dimenticato".
Si giunse al cimitero che era quasi buio. Qui il Sindaco disse belle parole atte ad illustrare la figura di questo 'cittadino onorario' che aveva distribuito per trent'anni speranza, fiducia e pace in tante famiglie, e si rallegrava che avesse scelto proprio questo paese per il suo riposo eterno.
Il suo grazie era il grazie di tutto il popolo che anche se non immediato nel manifestare i propri sentimenti, li coltiva tuttavia nel profondo.
Essendo la tomba dei sacerdoti in fase di ristrutturazione, la salma fu deposta provvisoriamente accanto al signor Giuseppe Sottini che gli fu in vita grande amico e benefattore.
Il Sindaco aveva ragione: davanti al loculo di p. Vitti ci sono sempre fiori freschi e si vedono persone che pregano. Vanno ancora a chiedere buoni consigli e favori. Ora, che certamente si trova vicino alla Madonna, potrà fare molto di più di quanto ha fatto durante la sua esistenza terrena.
Ai suoi confratelli comboniani il padre lascia l'esempio di un uomo di pietà, di zelo per le anime, di preghiera, di amore profondo alla Madonna e di come si possa essere autentici missionari anche quando la salute impedisce di partire per la terra dei propri desideri. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 158, luglio 1988, pp. 43-54