In Pace Christi

Castelletti Giuseppe

Castelletti Giuseppe
Data urodzenia : 04/10/1911
Miejsce urodzenia : Torre Boldone
Śluby tymczasowe : 07/10/1930
Śluby wieczyste : 07/10/1935
Data święceń : 06/06/1936
Data śmierci : 16/07/2003
Miejsce śmierci : Milano/I
Il 16 luglio 2003, festa della Madonna del Carmine, un vascello tutto d’oro ha attraccato alla banchina sulla quale attendeva P. Giuseppe Castelletti. Il nocchiero, nella sua uniforme delle grandi circostanze, si è affacciato alla scaletta e ha detto: “Marinaio Castelletti, a bordo!”. Scattando sull’attenti e portandosi la mano alla fronte in segno di saluto, P. Giuseppe ha risposto: “Agli ordini, signor comandante!”. Il vascello si è staccato dal molo ed è partito percorrendo una scia luminosa che portava verso il sole.
Chi ha conosciuto P. Castelletti, e sono tanti nell’Istituto, non si meraviglia di una simile apertura per il suo necrologio. I cinque anni trascorsi sugli incrociatori italiani durante la seconda guerra mondiale (1941-1946), hanno inciso sulla sua anima così profondamente e in maniera così esaltante da diventare l’argomento preferito delle sue conversazioni con gli amici e i confratelli. Anzi, ad un certo punto la sua “vita di mare” è entrata nella leggenda, per cui si sentivano cose veramente mirabolanti, degne dei miglior romanzi di avventura. Ciò che stupiva maggiormente, era il fatto che P. Castelletti raccontava quelle cose con una convinzione tale da dare l’impressione che lui stesso ci credesse. Ecco un piccolo saggio: “Quando ero stanco, per dormire senza sentire il rullio o il beccheggio dell’incrociatore, andavo a riposarmi infilandomi nella canna del cannone il quale conserva sempre la stessa posizione anche nei movimenti della nave...”. “Un giorno ci siamo trovati scarsi di viveri a bordo. Niente paura. Vedendo passare un banco di pesci, abbiamo lasciato cadere in acqua due cavi elettrici da 10.000 volt e cinque tonnellate di pesce sono rimaste fulminate all’istante”. A questo punto qualcuno degli ascoltatori insinuava che, probabilmente, quei pesci erano anche cotti e pronti da mettere in tavola… “Il telegrafista ci comunicò che la Marina doveva andare urgentemente in aiuto agli alpini che si trovavano a Valona, in Albania. Cosa succedeva? Le ragazze albanesi attiravano nelle loro reti gli alpini e, quando li avevano accalappiati, facevano cavare loro gli occhi. Siamo arrivati, abbiamo installato le mitragliatrici sulla piazza centrale e abbiamo fatto una retata di uomini che abbiamo messo al muro e poi… ad ogni alpino cui erano stati cavati gli occhi, venivano cavati gli occhi a dieci albanesi. Ma siccome noi eravamo cristiani e portatori di civiltà, invece di due occhi, ne cavavamo uno a testa. Hanno smesso subito di disturbare i nostri alpini…”.
Quando era a Gozzano illustrò, durante tuta una cena, il modo in cui la granata esce dalla canna del cannone, si avvita nell’aria e va a colpire il bersaglio. E poi concluse dicendo: “Questa è una scienza, cari miei, si chiama balistica”. A questo punto P. Giuseppe Simonelli, che non parlava mai perché diceva di essere sordo, commentò: “Io di balistica non me ne intendo, ma credo che, quanto a balle, qui dentro non ti batte nessuno”.

Vita di mare e struttura spirituale
“Della sua vita di marina - scrive P. Antonino Orlando - conobbi molte cose dalla sua viva voce. Sembrava un fiume, non si stancava mai. Alcuni confratelli, appena toccava quell’argomento, si eclissavano; altri, in compenso, insistevano per farlo parlare ancora di più. Io ero uno di questi e me la godevo a sentirlo raccontare le sue eroiche imprese che rivelavano un carattere forte e generoso. Castelletti accettava anche gli scherzi. Una volta un confratello, stanco di sentirlo raccontare le sue avventure su Montecuccoli, gli disse: ‘Ho sentito che una granata inglese ha portato via dalla sua nave le ultime due C e la O e così siete rimasti con le vergogne al sole’. Sorrisero entrambi”.
L’esperienza in marina incise anche sulla sua struttura spirituale. Se è vero che della guerra raccontava volentieri le battaglie e le avventure, ricordava soprattutto gli uomini al di fuori del quadro epico: “la guerra è bella solo in bocca ai generali, gli uomini hanno un’umanità che cerca pace e le ragioni della speranza”. È sua l’unica foto che mostra la corazzata Roma che sta inabissandosi. Quando l’ammiraglio italiano firmò la resa davanti al generale Montgomery, P. Castelletti fungeva da interprete.
In una lettera del 22 febbraio 1972 (ne erano passati di anni, dalla fine della guerra!) scritta al Superiore Generale, P. Tarcisio Agostoni, dopo aver dichiarato la sua disponibilità a ripartire per la missione dopo l’operazione di “ernia recidiva”, scrive: “Eccomi, dunque, a completa disposizione dei superiori per qualunque posto ed attività, restando io fedele al mio vecchio motto di marina: ‘Il cane non chiede mancia per la sua fedeltà’. Intanto nei ritagli di tempo libero dal ministero ripasserò le lingue inglese, francese e arabo, pronto però a studiare la nuova lingua indigena del posto che mi verrà assegnato, od anche pronto a ripassare le matematiche. Rigido sull’attenti (perdonatemi il mio stile di marina), in attesa di ordini per la missione, chiedo la Vostra benedizione che convalidi ogni mio obbediente apostolato. Mi conservi la mano paterna sul capo, come nell’ultima sua benedizione, tirandomi anche le orecchie, quando lo crede necessario”.

Una vocazione precoce
P. Castelletti era nato a Torre Boldone, Bergamo, nel 1911. Aveva cinque anni quando papà Ferdinando fu chiamato sotto le armi, sul Carso. Una settimana dopo la sua partenza, una granata gli staccò di netto la testa. Aveva accanto il cognato. Giuseppe non seppe niente di questa tragedia, e quando la mamma gli diceva di pregare per il papà, egli sapeva che era “in guerra” e sperava di vederselo arrivare a casa da un momento all’altro come succedeva, di tanto in tanto, per altri papà dei suoi compagni, che erano al fronte.
Un giorno del 1918 si udì in paese un gran scampanio, tutte le campane suonavano a distesa. La mamma chiese cosa stesse succedendo. Giuseppe, che ormai si era fatto grandicello, corse giù per il paese e poco dopo tornò tutto trafelato e contento:
“Mamma, mamma, è finita la guerra. Ora torna il papà!”. La mamma se lo strinse al petto insieme alla sorellina più piccola e, con le lacrime agli occhi, disse: “Papà non tornerà più”. Giuseppe, del periodo della guerra e dei suoi anni infantili, ricorderà con commozione i sacrifici affrontati dalla mamma per tirar su lui e la sorellina. Aggiungiamo subito che anche la sorella Irene si fece suora della Nigrizia. Lavorò con incredibile dedizione nel reparto radiologia dell’ospedale italiano del Cairo, riportando ustioni sulle mani e sulle braccia causa le radiazioni che la portarono a una dolorosa morte. E la mamma, Elisa Moretti, dopo aver dato i suoi due figli al Signore, chiese di entrare in un monastero per terminare i suoi giorni nel silenzio, nella preghiera e nel lavoro.

Nell’Istituto Comboni
Aveva 9 anni il piccolo Giuseppe quando oltrepassò la porta dell’Istituto Comboni di Brescia, accompagnato dal suo parroco, dalla mamma e dalla sorellina. Era un giorno del settembre del 1920. Portava con sé “l’attestato di compimento del corso elementare inferiore (cioè fino alla terza elementare), ed era candidato al compimento del corso elementare inferiore nella prima sessione dell’anno 1920-21” con punti sessanta su ottanta (cioè tre “7” e cinque “8”). Il nuovo superiore, P. Giocondo Bombieri, lo accolse con notevole esitazione.
“È così piccolo, signora - disse alla mamma – non so se ce la farà!”. A dire la verità, la mamma era così attaccata a quel bambino, che avrebbe preferito che “non ce la facesse”, ma non disse niente per timore di opporsi alla volontà del Signore. Anche per Giuseppe lo strappo fu traumatico, tuttavia volle fare il coraggioso e rimase.
Pochi giorni dopo, però, la mamma era di nuovo all’Istituto Comboni per riportarselo a casa. Quando P. Giuseppe raccontava questo episodio (a P. Lorenzo Gaiga ha lasciato sette cassette di memorie) diceva che il superiore era pervenuto a quella decisione appunto perché era troppo piccolo e mingherlino. Probabilmente il motivo vero era la nostalgia della mamma alla quale P. Giuseppe è sempre stato molto attaccato.
“È meglio che faccia la quinta al paese e poi, se sarà ancora del parere, potrà rientrare”, concluse il superiore. Giuseppe tornò al paese, e rientrò nell’Istituto Comboni nel 1923 per iniziare la prima media (che allora si chiamava prima ginnasio). Subito il nostro giovinetto brillò per l’intelligenza, specialmente in matematica e in greco. Gli anni trascorsi a Brescia prima di entrare in noviziato sono una costellazione di avventure: P. Bombieri concedeva ai ragazzi di visitare le città italiana usufruendo delle facilitazioni delle Ferrovie dello Stato per gli studenti e Giuseppe era sempre il capogruppo e l’organizzatore di quelle spedizioni. Di questo periodo, ricordiamo solo alcuni episodi. Quando, nel 1926, si trattò di issare la grande pala sull’abside del santuario del Sacro Cuore (oggi parrocchia del Buon Pastore), fu proprio Castelletti a farlo, riuscendo a penetrare tra la volta e il tetto per infilare le funi nel foro del soffitto. Nel 1927, 19 marzo, si diede il primo colpo di vanga per la costruzione della nuova ala dell’Istituto Comboni (dalla torretta centrale verso est) e il 26 maggio ci fu la posa della prima pietra. Ebbene, P. Castelletti era presente accanto al vescovo Mons. Gaggia, al Prefetto di Brescia e al Podestà. E ancora: P. Bombieri chiese a P. Castelletti di tenere alcune lezioni di matematica ad un giovinetto, Armido Gasparini, che non era aggiornato sul programma e, cosa incredibile!, Gasparini imparò così presto e così bene che i registri dei suoi voti, ancora conservati a Brescia, mostrano tutti 8 in matematica, anche se P. Castelletti, però, aveva sempre 10. Riportiamo questo fatto perché è un segno giovanile della vocazione di insegnante di P. Castelletti che però si distinse anche in pietà, diligenza e condotta, tanto che il superiore lo incaricò di fare catechismo ai ragazzi che facevano capo al santuario.

Educatore perfetto e originale
Il 1° settembre 1928 Castelletti entrò nel noviziato di Venegono Superiore accompagnato dal suo superiore P. Bombieri che sarebbe diventato suo padre maestro. A proposito del suo padre maestro, P. Castelletti aveva detto: “Tanto si era mostrato largo, moderno e aperto quando era superiore a Brescia, altrettanto divenne stretto, scrupoloso ed esigente in noviziato. Non lo riconoscevamo più”.
Non abbiamo le note del padre maestro sul novizio Castelletti, ma il fatto di aver emesso i voti il 7 ottobre 1930 dimostra che si era comportato in maniera esemplare. Nella domanda di ammissione dà le motivazioni del suo voler essere missionario: “Desideroso di attendere sempre più alla mia perfezione e santificazione e di consacrarmi tutto alla conversione della Nigrizia…”. Dopo la professione andò a Verona per il liceo, dove si perfezionò in musica, diventando un ottimo suonatore di organo e di piano e anche compositore. Di lui ci restano solo due composizioni dedicate alla Madonna perché molte altre finirono nel cestino per sua volontà.
Nel 1933, quando era già in teologia, fu mandato a Brescia dove avrebbe frequentato le scuole del seminario diocesano al mattino e, al pomeriggio, avrebbe assistito i ragazzi. Qui si sprigionarono tutta l’inventiva e la fantasia di Giuseppe: passeggiate, operette, canti, musica, giochi di prestigio… era diventato l’idolo dei ragazzi. Così, ne approfittava per inculcare in quei giovinetti l’amore alla vocazione, alle Regole e alla preghiera. Nel diario della casa di Riccione si legge: “Estate 1932. Lo scolastico Castelletti è a Riccione per allietare i 30 ragazzi con musiche e canti”. Segno che la sua fama si era diffusa. Scrive P. Antonino Orlando che fu uno di quei ragazzi: “Gli volevo proprio bene. Mentre ero al ginnasio, dal 1933 al 1935, è stato mio assistente. Là ebbi modo di apprezzare la sua vena musicale. In seguito, spesse volte, pensai a quale altezza sarebbe giunto se avesse frequentato il conservatorio. Era, però, anche troppo ardito da cambiare persino i pezzi di Perosi”.

Insegnante fantasioso
P. Cesare Gambaretto, superiore a Brescia, scrisse: “È un giovane conscio del proprio dovere, obbediente fino all’eroismo, grande lavoratore”. Il 6 giugno 1936 venne ordinato sacerdote a Brescia da Mons. Tredici, insieme a P. Paolo Adamini. La mamma era presente alla sua prima messa. Il suo ritmo di vita, tuttavia, non cambiò molto perché i superiori lo fermarono a Brescia come insegnante di matematica, greco e inglese. “L’insegnamento è stata la prima grande croce che il Signore mi ha messo sulle spalle, però sono contento di aver obbedito, perché chi obbedisce vince sempre”, ha detto.
Tutti sono concordi nel riconoscere che P. Castelletti aveva un metodo di insegnamento perfetto per cui riusciva a far apprendere le sue materie con facilità, quasi si trattasse di un gioco, e i suoi alunni furono sempre promossi con i massimi voti. Questo si verificò a Brescia e, ancora di più, in Africa.
Un’altra cosa va sottolineata, di P. Castelletti: il suo zelo sacerdotale, soprattutto per il ministero delle confessioni. Tutte le domeniche andava nelle parrocchie per la messa, la predicazione (era molto bravo e convincente) e le confessioni. Confessava per ore e ore. “Se la gente non vive in grazia di Dio è inutile che vada a Messa”, diceva. Qualche volta era perfino esagerato perché arrivava a confessare qualcuno mentre il coro cantava il Gloria o il Credo della messa che lui stesso celebrava.
Nel 1940, avendo avuto qualche difficoltà col superiore, P. Giambattista Cesana, chiese di essere esonerato dall’incarico a Brescia e andò a Troia, sempre come insegnante e animatore missionario. Un giorno proiettò delle filmine sulla missione a Monte Aguto, Avellino. Era presente anche Guglielmina Schiavone, sorella del nostro Fr. Nicola, che rimase così colpita dallo zelo esplosivo del missionario, che entrò tra le Pie Madri della Nigrizia.

Cappellano di Marina
Si trovava a Faeto, vicino Troia, per la Giornata Missionaria, quando lo raggiunse un telegramma che lo chiamava a Roma come cappellano militare sulla nave “Toscana”. E poi, finì sugli incrociatori. Ne aveva dodici sotto la sua giurisdizione. P. Antonio Vignato, al quale l’esercito italiano aveva richiesto un sacerdote che conoscesse la matematica e l’inglese, aveva indicato P. Castelletti. Un’altra decina di missionari furono impiegati in altri Corpi. Il bene che P. Castelletti fece ai soldati e alle loro famiglie è incredibile. E non solo: Panfilo Marino, militare in Sicilia, un giorno incontrò il cappellano militare Castelletti e rimase così colpito da quell’uomo, che, finita la guerra, entrò in noviziato. Divenne Fratello, specialista meccanico, e lavorò per molti anni a Khartoum come direttore dell’officina meccanica della diocesi.
Lo stile marinaresco fu una dote che P. Castelletti si portò dietro per tutta la vita. Al Comboni College di Khartoum riusciva a “mettere nei ranghi” mille ragazzi a suon di tromba. E come scattavano! Eppure non era severo, tuttavia otteneva ciò che voleva.

La lunga giornata sudanese
La guerra finì. P. Castelletti, che aveva collezionato un cumulo di benemerenze (aveva visto affondare la nave Roma con i suoi 3.000 marinai, tra i quali c’era anche il fratello di P. Lorenzo Piazza; aveva visto l’aereo di Italo Balbo dopo l’abbattimento “per errore” da parte degli italiani, ecc.), ottenne un incrociatore dalla Marina per trasportare i primi missionari in Africa.
Nel 1946 salpò finalmente per l’Africa, portando con sé una grande statua della Madonna, dono di sua madre, che fu poi intronizzata nella chiesa di Ondurman, proprio dove i missionari erano stati tenuti prigionieri dal Mahdi.
Dal 1946 al 1962 fu insegnante di matematica al Comboni College. I compiti d’esame erano corretti dall’Università di Oxford, in Inghilterra, e si poteva star sicuri che i ragazzi di P. Castelletti erano sempre tutti promossi a pieni voti. “Le lezioni di matematica - scrive P. Giovanni Vantini - le cantava così bene che i vicini di casa, al di là della strada, sentivano le sue impennate”. Dal 1962 al 1963 fu ad Atbara; dal 1963 al 1967 a Port Sudan, sempre come insegnante. Oltre all’insegnamento c’era l’assistenza ai ragazzi, di giorno e di notte, e nei momenti liberi nutriva il suo spirito con tutto il ministero che gli era possibile fare.
Appena arrivato in missione consegnò una tavoletta al fratello sacrestano pregandolo di appenderla in sagrestia. Sulla tavoletta erano scritte queste parole: “Celebra la messa come fosse la prima, l’unica, l’ultima”. L’ambiente di Khartoum non era dei più confortevoli: un clima torrido per 365 giorni all’anno, polvere, sudore, zanzare… lingue diverse e il fondamentalismo islamico… “Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri fratelli, specie per coloro che ancora non conoscono Cristo…”. “Non siamo venuti in Africa per fare i turisti”, ripeteva di tanto in tanto. A questo punto l’attività missionaria di P. Castelletti s’interruppe bruscamente perché dovette essere portato a Roma per sottoporsi all’asportazione di parte dello stomaco. Da allora, cominciò a versare grandi quantità di aceto nei cibi poiché, diceva, ciò gli favoriva la digestione.

Sulle orme di Comboni
“A Port Sudan dovevamo bere acqua salmastra che ci bruciava il fegato e lo stomaco, vivevamo in baracche costruite su palafitte, mal riparati dal caldo e dalla sabbia, in preda a nugoli di zanzare che ci succhiavano il sangue”, raccontò.
Il florilegio di avventure nella scuola e nel ministero si accrebbe enormemente. E, nella sua predicazione, raccontava quei fatti riuscendo sempre a ricavarne un insegnamento morale per gli ascoltatori.
Dopo l’operazione tornò ancora in missione, a El Obeid, questa volta, sempre con il solito entusiasmo e dinamismo. “Fu un educatore eccelso - scrive P. Antonino Orlando - pur insegnando scienze matematiche. Anche senza diplomi, le insegnava così bene e così spassosamente che i suoi ragazzi andavano a scuola come ad una partita di calcio. Era un lavoratore instancabile; per anni ebbe sette lezioni al giorno per sei giorni alla settimana, con tutti i compiti da correggere (spesso settimanali) e le classi erano di 35-40 alunni”.
In Sudan P. Castelletti ha camminato sulle orme di Comboni, fedele al piano “Salvare l’Africa con l’Africa”. Tra i vari Comboni College che i missionari hanno iniziato per preparare i giovani a diventare i protagonisti della storia d’Africa, spicca quello di Khartoum. P. Castelletti è stato ben più che un professore: la sua autorevolezza culturale e morale ispirava un vero fascino tra gli studenti.
Cito due giudizi dei suoi superiori in Sudan: “P. Castelletti è considerato da tutti molto buono, caritatevole, fervente, anche se un po’ originale in qualche suo atteggiamento” (P. Ottorino Filippo Sina).
“Benché un po’ originale è un ottimo religioso, un lavoratore instancabile e pieno di zelo. Eccelle in tutte le virtù, è gioviale, buono, generoso, sempre pronto ad aiutare gli altri. Obbediente al sommo” (P. Roberto Zanini).

Fare la volontà del Signore
Nel 1969 scoccò l’ora di un po’ di vacanza in Italia. Andò nel seminario comboniano di Crema e a Napoli come addetto al ministero: giornate missionarie, tridui, novene, confessioni. Ancora oggi i sacerdoti ricordano lo zelo di questo missionario che non era mai stanco, si accontentava di una tazza di acqua calda e pane per cena e poi andava a letto presto per svegliarsi al mattino prima che si facesse giorno. Quegli anni in Italia fecero sì che si ristabilisse pienamente. Infatti, nel febbraio del 1972, scrisse al Superiore Generale manifestando la sua disponibilità ad andare in missione. È di questo periodo la lettera che abbiamo riportato sopra. In altri scritti afferma: “Non propongo nulla, solo prego il Signore di far conoscere la sua Volontà ai miei Superiori, e di farmela eseguire perfettamente”.
Fu mandato ad Asmara, in Eritrea, ad insegnare matematica. Ricevuta l’obbedienza, P. Castelletti rispose: “Grazie della sua delicatezza nell’informarmi di tutto, grazie del gaudium cordium dei confratelli di Asmara, benemeriti. Ieri sono andato a Pompei in pellegrinaggio. Voglia la cara Madonna del Rosario gradire e benedire la mia nuova missione, ultima per la mia età. Nel lunedì dell’Angelo, tre aprile, liberato da ogni impegno, sarò a Roma pronto per il volo in Vigna Domini Asmariana”. Asmara con il seminario, Gondar e, di nuovo, Asmara lo assorbirono dal 1972 al 1978. Il 18 giugno 1978, scrisse una lettera al Superiore Generale che suona come un’umile confessione: “Col prossimo anno entro nel 68° anno di età e 45° di insegnamento. Le mie dimissioni sono doverose. I metodi nuovi e i programmi fluttuanti nel campo scolastico mi trovano sfasato, sorpassato, matusa. Il direttore del Comboni College trova che sono facilmente rimpiazzabile dai laici. Mi pare di restare idoneo nel campo della predicazione, confessioni, cooperazione missionaria in Italia. Prego indicarmi chiaramente il volere divino a mio riguardo. Rectores videant”.

Nove anni a Brescia
Nel 1978 lo mandarono a Brescia come addetto al ministero. Con la sua moto rossa, una Gilera di piccola cilindrata, percorreva centinaia, migliaia di chilometri per passare da una parrocchia all’altra. Essendo, la moto, oggetto del desiderio di qualche altro confratello, quando rientrava dal ministero la portava nella sua stanza trascinandola su per le scale (allora non c’era l’ascensore). Nel novembre del 1978 i superiori gli fecero la proposta di tornare in Sudan dove c’era tanto bisogno di personale: “So quanto lei ha sofferto ad Asmara, ma conosco anche la sua virtù e disponibilità”.
“Confermo la mia piena disponibilità per il Sudan, anche per impegni sacerdotali”. A questo punto però, il superiore di Brescia, P. Ernesto Berto, scrisse al Superiore Generale che non era disposto a privarsi di un missionario così valido come P. Castelletti e lo pregava di lasciarglielo, data anche l’età e gli acciacchi. Allora P. Tarcisio Agostoni, Superiore Generale, cambiò idea e assegnò P. Castelletti alla provincia d’Italia dal 1° giugno 1979.
Di recente, il parroco di Gottolengo, e la stessa cosa è successa in altri paesi, si è ricordato di questo missionario instancabile, zelantissimo che, poverissimo, con una spolverina nera a mezza gamba rattoppata in più parti, il colletto ricavato dal manico dei fustini del detersivo, il fazzoletto che era una straccio senza orlo, quando cominciava a predicare incantava la gente.
Trascorsero nove anni e P. Castelletti era come il vino buono che, più invecchia, più migliora. Alla bella età di 76 anni scrisse ai superiori dichiarandosi pronto a partire per la missione. P. Francesco Pierli, nuovo Superiore Generale, gli rispose: “Ho ricevuto con grande gioia la tua domanda di poter ripartire per la missione, dando così un grande esempio di spirito missionario. Ho visto nel tuo cuore i riflessi del Cuore di Cristo e di Comboni che fino all’ultimo momento è stato sulla breccia… Perciò ti assegno alla provincia di Khartoum dal 1° luglio 1987”. Ecco la risposta di P. Castelletti: “Già fischia, e l’ancora leva il battello: divisa è l’onda, spumeggia il mar… Il comandante fa manovra; nostromo, spara la vozza; marò sgancia le bitte; pressione vapore al massimo; telegrafista e segnalatori all’erta; si parte!… Vero regalo pasquale mio ritorno in Sudan, riconoscenza debbo a lei, Superiore Generale, che ho chiamato ammiraglio buono”.

Come creta nelle mani di Dio
Ecco un brano che dimostra un’apertura di cuore che non possiamo ignorare: “Ora permetta che mi sbottoni. Giovane ero creta su forgia divina, diventato vaso, piatto, statuetta o che so io. Maturo, fui anche colorato, pitturato, abbellito da Dio e superiori. Vecchio, eccomi ritornare al forno per cuocere, diventare porcellana stabile. È ora di cantare: ‘Avrò piedi stanchi, avrò frutti da portare…’. Se Dio sia contento di me, non saprò mai. Ma io sono arcicontento di Lui. Non farò mai il prete a mezz’asta. Un orologio a Lourdes cammina senza lancette: non è uno scherzo: ha la scritta: ‘La Charité n’à pas d’heures’. Piacciono anche a me i programmi vasti per 300 anni, ma preferisco questo: il distacco da me stesso poiché la chiave del cielo è quella che sacrifica le cose di quaggiù… Il tabernacolo è come la fontana della piazza, sempre aperta a chi ci va assetato… Ringrazio i superiori e P. Silvio Greggio per il Corso di rinnovamento. Ho ravvivato la preghiera personale, ho capito tanti problemi di altri, ma ho sentito tante critiche che parevano tante baionette dai mille usi…”. Ecco una cosa di P. Castelletti: non ha mai criticato nessuno. “Ognuno usi la propria baionetta contro se stesso, se proprio la vuole usare”.

Finalmente solo prete
A Wad Medani, dove andò nel marzo del 1987, poté finalmente dedicarsi totalmente al ministero sacerdotale “a fare bocca al mio sacco sacerdotale”. “Mentre mi trovavo a Kosti - scrive P. Orlando - avevo sentito dai confratelli ch’era tornato per morire in Africa, dopo aver esercitato il ministero di prete, mentre prima aveva sempre fatto l’insegnante di matematica. Così decisi di andarlo a trovare col pulmino pubblico, dopo il Natale del 1988, per un ultimo incontro. Invece ci saremmo rivisti ancora a Gozzano”.
Nel dicembre del 1990 un tremendo attacco di malaria con meningite lo ridusse in fin di vita. Fu ricoverato a Villa Gilda, a Khartoum, poi passò ad Ondurman per un po’ di convalescenza, ma siccome era in uno stato quasi di coma, si decise di trasferirlo in Italia, a Negrar, vicino Verona, dove c’è un reparto di malattie tropicali. Ed ecco il miracolo: “Per più giorni ero rimasto come una larva, senza nemmeno conoscenza. Un giorno riesco ad alzarmi e camminare. Lentamente arrivo in cappella e vedo una cosa che mi pare di conoscere... Siedo all’organo e le mani partono da sole… comincio a suonare Bach. Tanta musica attira malati, infermieri e dottori. Arriva il primario e resta lungamente ad ascoltare”. Finito di suonare, P. Giuseppe era lucido e sereno: la musica aveva riportato la sua mente a recuperare tutto il vissuto. Il primario, professor Marsiay, lo abbracciò e disse: “Padre, lei è guarito”.

A Gozzano a perdonar peccati
Dopo aver predicato le Quarant’ore al suo paese, Torre Boldone, andò a Venegono Superiore per fare gli esercizi spirituali. Stava terminandoli, quando il provinciale lo assegnò alla casa di Gozzano. Chi scrive andò a prenderlo per portarlo a destinazione. La prima visita fu alla cappella. Con gesto un po’ teatrale, P. Castelletti s’inginocchiò, alzò entrambe le braccia e pregò ad alta voce: “Grazie, Signore, grazie di avermi portato in questa santa casa a terminare i miei giorni e a prepararmi all’incontro con te. Fa’ che io sia degno di questi confratelli e concedi loro la pazienza di sopportarmi…”. Poi rivolse altre parole alla Madonna e a San Giuseppe che lo guardavano dalla parete.
Entrò in pieno nella vita di comunità, riuscì a recuperare un harmonium per accompagnare i canti e rendere così più solenni le funzioni. Si prestava anche per le Giornate Missionarie. In una grande chiesa di Novara si trovò di fronte centinaia di ragazzi (era la messa per loro) e riuscì a inchiodarli ai banchi con i suoi racconti. Alla fine della messa, le catechiste si avvicinarono al sacerdote che era con lui chiedendogli: “Ma chi è, uno stregone, quel missionario? Pensi che questa messa si trasforma in una gazzarra incredibile, e oggi non si sentiva volare una mosca!”.
A Gozzano, P. Castelletti ha ricoperto il ruolo che era stato di P. Uberto Vitti per 30 anni, e, prima di lui, di P. Giuseppe Picco, gesuita, oggi sulla via degli altari. Visitava gli ammalati, li confessava e li nutriva con il Corpo di Cristo. Nei primi tempi, creò un po’ di sconcerto quando, dopo aver confessato e comunicato un anziano o una vecchietta, s’inginocchiava per terra e gli chiedeva la benedizione pregandoli di mettergli la mano sulla testa.
A questo ministero si aggiunse quello di confessore nel santuario del Divin Crocifisso di Boca. Partiva alle due del pomeriggio del sabato e tornava alla domenica sera, dopo aver confessato per 18-20 ore. Dove trovasse tanta resistenza nessuno lo ha mai saputo. Rincasava sfinito, si nutriva con la solita tazza d’acqua con il pane e poi andava a letto. Inutile consigliargli di moderarsi, di riguardarsi. “Sono le mie ultime battute, lasciamele fare. Non hai mai visto come si svolge un’opera? Le ultime battute sono le più solenni. Io sono alle ultime battute”. Quelle battute si protrassero per più di dieci anni e furono tutte solenni.

La tromba del Giudizio
Allietava la comunità con i suoi racconti di eroiche battaglie sui mari e il superiore lo sollecitava a raccontare ancora e lui era molto contento di essere capito e valutato. Parlava spesso della banda musicale che aveva messo in piedi a Khartoum, della sua tromba che “parlava” fino a far uscire le lacrime. Un giorno, il superiore gli disse: “Salga in macchina e venga con me”. Andarono a Quarna, in un paese dove si fabbricano le trombe. C’era con loro una benefattrice che, dopo aver tanto sentito parlare della tromba, voleva sentirla suonare sembrandole quella del Giudizio. “Padre, qui ci sono tutte le trombe che vuole, scelga quella che le va bene”. “Davvero mi fa questo regalo?”. Portò a casa una tromba con la quale suonava bellissime melodie. Così scrive P. Orlando, riferendosi all’Africa: “Che dire della sua tromba? L’aveva sempre con sé, e la suonava bene. Molti confratelli lo prendevano in giro, eppure come era bello per un nuovo arrivato sentirsi accolto nella nuova comunità a suon di tromba!”.
Col passare degli anni dovette farsi accompagnare da una persona per assistere gli ammalati e la tromba fu messa da parte: “Sai che ci vogliono polmoni e ormai i miei sono frusti”.
Avrebbe voluto tornare in Africa per morirvi, invece la malattia intaccò la sua forte fibra. Dovette essere ricoverato al Centro Ambrosoli di Milano, ma appena poteva, faceva una scappata a Gozzano perché, i suoi malati e il Divin Crocifisso di Boca, se li sognava di notte. Anche a Milano, nonostante la malattia (carcinoma) fu sempre un animatore della comunità, capace di distribuire ottimismo e allegria. “Ora devo ricordare a me stesso le parole che dicevo agli ammalati. Ma sono tranquillo. È ora di ammainare le vele, il porto d’arrivo è il Signore”, diceva.
È spirato il giorno della Madonna del Carmine: Lei, l’Ammiraglia, è venuta a prenderlo ed egli ha intonato la vecchia canzone “Già fischia, e l’ancora leva il battello…” ed è partito.
Conclude P. Orlando: “Grazie P. Giuseppe per l’amore alla missione, ai confratelli e al Crocifisso che mi hai istillato. Quel tuo mottetto che insegnavi ai ragazzi di Brescia ‘O Crux, ave spes unica’ mi risuona sempre nel cuore. Grazie per il tuo slancio affettuoso verso la ‘Vergine Diva Immacolata’ che hai voluto comporre e cantare con armonie di Cielo e che m’insegnasti a gustare sulla tastiera dell’organo e l’altro: ‘Bimbi innocenti e peccatori, tutti invocano il tuo amor, o Maria’. Nel Cielo dove ti trovi spero di vederti anch’io”.
Il vice provinciale, P. Teresino Serra, ha scritto alla notizia della morte di questo confratello: “Ringraziamo insieme il Signore per le virtù, la vita e la missione di P. Castelletti. Ringraziamo Dio per questo nostro confratello che ha seminato bene nel cammino di molti. Il suo entusiasmo giovanile ed il suo amore alla missione ci siano di esempio”.
Dopo i funerali a Milano, nel santuario della Madonna di Fatima, la salma è stata traslata al suo paese dove c’è stato un secondo funerale che ha visto radunati tanti sacerdoti e fedeli. P. Castelletti era diventato un simbolo, una bandiera, soprattutto un esempio e un modello di sacerdote integerrimo e di missionario convinto. (P. Lorenzo Gaiga, mccj)