Padre comboniano Alessio Geraci: “la missione nasce dai battiti del cuore di Gesù”

Immagine

Venerdì 1 novembre 2019
Vi scrivo in questo giorno speciale (10 ottobre), in cui ricordiamo San Daniele Comboni. Come ci ricorda quest’anno la nostra direzione generale comboniana, «la vita di san Daniele Comboni ruota attorno all’urgenza di portare il Vangelo nel cuore dell’Africa.

Carissimi amici, fratelli e sorelle in Cristo Signore, vi scrivo in questo giorno speciale che è il 10 ottobre, giorno in cui ricordiamo in maniera speciale San Daniele Comboni. Come ci ricorda quest’anno la nostra direzione generale comboniana, «la vita di san Daniele Comboni ruota attorno all’urgenza di portare il Vangelo nel cuore dell’Africa. La sua spiritualità e la sua antropologia sono radicate nel cuore di Cristo, da cui scaturisce la profonda convinzione dell’amore di Dio per tutta l’umanità, specialmente per i più bisognosi. San Daniele Comboni ha saputo coniugare spiritualità e missione in modo formidabile: vive ciò in cui crede e riesce a materializzarlo in un progetto che proietta la visione del Regno nel contesto del suo tempo». Per me questa é anche la prima occasione di scrivervi dopo la mia ordinazione sacerdotale, avvenuta lo scorso 14 settembre a Palermo.

Dopo 5 anni di missione in Perù, da maggio sono in missione in Italia, soprattutto con i giovani del GIM (Giovani Impegno Missionario) di Padova. Siamo nel pieno dell’ottobre, mese missionario per eccellenza, un mese dove come chiesa, poter risvegliare la coscienza missionaria di ogni battezzato, perché la missione...riguarda tutti! Ci ricorda infatti papa Francesco che «in tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare» (EG 119). E quest’ottobre 2019, è un mese speciale: papa Francesco infatti l’ha dichiarato mese straordinario della missione, con il tema “battezzati e inviati”. Nel suo messaggio per questa giornata missionaria mondiale che celebreremo domenica 20 ottobre, lo stesso Francesco ci dice che «celebrare questo mese ci aiuterà in primo luogo a ritrovare il senso missionario della nostra adesione di fede a Gesù Cristo, fede gratuitamente ricevuta come dono nel Battesimo. La nostra appartenenza filiale a Dio non è mai un atto individuale ma sempre ecclesiale: dalla comunione con Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, nasce una vita nuova insieme a tanti altri fratelli e sorelle. E questa vita divina non è un prodotto da vendere – noi non facciamo proselitismo – ma una ricchezza da donare, da comunicare, da annunciare: ecco il senso della missione. Gratuitamente abbiamo ricevuto questo dono e gratuitamente lo condividiamo (cfr Mt 10,8), senza escludere nessuno». Possiamo dire allora senza timore di essere smentiti: Se battezzati, allora anche inviati!

La chiesa è per sua natura missionaria (AG 2): «evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (EN 14). Una chiesa, quella di cui tutti i battezzati fanno parte, che deve sentirsi in «stato permanente di missione» (EG 25; Aparecida 551) che «apre le porte perché è in “uscita”» (EG 46) per «uscire dalla propria comodità ed avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (EG 20). In uscita per annunziare a tutto il mondo la Buona Notizia: il nostro Dio non ha pregiudizi, non ci etichetta, non ci inserisce in categorie umane, non ci divide in gruppi separati ma ci unisce tutti nella grande famiglia umana e nell’unica categoria umanamente divinizzata e divinamente umanizzata: figli! Tutti siamo suoi figli, tutti siamo e saremo sempre nel suo cuore perché è per noi un Padre che Ama con Cuore di Madre! E ci ama cosi come siamo, con i nostri sogni e le nostre speranze, con i nostri errori ed orrori, con le nostre illusioni e le nostre ribellioni, con le nostre gioie e i nostri dolori, nella “ buona e nella cattiva sorte ”. Con Lui, non ci sono scarti né scartati, né eliminati, né squalificati, né colpevoli né irrimediabilmente perduti, ma solo e soltanto amati.

Da sempre e per sempre! Questa è la Buona Notizia che è degna di essere annunziata, perché è Amore, e solo l’Amore è degno di fede, ci ricorda la riflessione teologica (in particolare il teologo svizzero H.U. Von Balthasar). È importante ricordare che è Dio che ci chiama e che ci invia; nel verbo chiamare (vocazione deriva dal latino vocare, chiamare appunto) è contenuta la parola amare. Chi è chiamato, è amato! Però, se lo riferiamo a Dio, potrebbe sembrare che Dio ama solo coloro che chiama, che sceglie. In realtà Dio da sempre e per sempre, chiama tutti, ma proprio tutti! Conosciamo le due grandi vocazioni, che è sempre bene ricordare hanno pari importanza e dignità: la vocazione al sacerdozio/vita consacrata e quella al matrimonio. Ma c’è una vocazione primaria, e forse ce ne dimentichiamo spesso, a cui Dio chiama ogni uomo e ogni donna di ogni tempo storico e di ogni latitudine geografica, indipendentemente dalle due grandi vocazioni di cui sopra: la vocazione alla felicità! L’unica preoccupazione di Dio è vederci felici. Tutti, nessuno escluso. Per questo Dio ama, e chiama. Per questo Dio continua ad amare e a chiamare. Per questo Dio invia. Perché questa buona notizia, che il suo amore è per tutti, non rimanga nella sala d’aspetto del nostro cuore ma si espanda, come una macchia d’olio. È l’allegria del vangelo, che riscalda i cuori resi come ghiaccio polare dall’indifferenza, dall’odio, dalla mancanza di amore... è la gioia del Vangelo che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (EG 1).

Ora, se giustamente diciamo che la missione è opera di Dio e da Lui veniamo inviati... occorre capire di quale Dio stiamo parlando. Perché in nome di Dio nel corso dei secoli abbiamo perseguitato, bruciato vive delle persone definendole “streghe” o “eretiche”, abbiamo “strappato” terre ai loro legittimi proprietari, abbiamo giustificato crociate fratricide, abbiamo lanciato anatemi di condanna senza diritto di replica.

Chi è allora il Dio che ci ama, ci chiama e ci invia? Non è il dio “cattivo e noioso” che “come un arbitro severo fischiava tutti i perché” della canzone «Silvia lo sai? » di Luca Carboni...un dio con cui molte generazioni di figli/e di Dio sono cresciuti, un dio da temere ma impossibile da amare perché risultava impiccione, presuntuoso, arrogante, perfettino ed irraggiungibile. Non è il dio violento e castigatore, stile “sceriffo americano” dei telefilm che hanno caratterizzato la nostra infanzia... non è il dio che controlla tutto e muove i fili dall’alto, facendo fare la figura di tanti burattini alle sue amate creature. Non è il dio che fa sentire in colpa a tutti per ogni cosa. Non è il dio con cui si possa giustificare una guerra, un crimine, o una discriminazione razziale. Non è il dio che vuole continuamente sacrifici per calmare la sua ira... non è il dio che rimane insensibile davanti al pianto, alla sofferenza, al “furto” della dignità ai danni di tutti gli “insignificanti” della terra. È il Dio della Vita, che in Gesù di Nazareth, assume carne e fragilità umana (Gv 1, 14), e vive in piena empatia e solidarietà con il mondo, specialmente quello degli impoveriti. Il Dio di Gesù di Nazareth non era e non è un Dio di pochi e un Dio per pochi eletti ma un Dio che tutti possano chiamare Padre, cosi come lo faceva Gesù. È un Dio che irrompe nella storia e nella storia umana e personale di ogni uomo e donna di ogni tempo storico e di ogni latitudine geografica. È un Dio “sovversivo” perché inverte l’ordine di importanza: i suoi preferiti, privilegiati sono i poveri, i piccoli, gli indifesi, gli esclusi, i fragili, coloro che la società e la religione del tempio e del tempo di Gesú aveva con inesorabile ed inappellabile sentenza decretato impuri, coloro che erano considerati da tutti come spazzatura e che dalla spazzatura cercavano qualcosa per poter sopravvivere. È un Dio che dice «misericordia voglio e non sacrifici» (Os 6,6 ; Mt 9, 13); un Dio che è «venuto a salvare e non a condannare il mondo» (Gv 12, 7) perché «il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 10). Un Dio paternamente materno e maternamente paterno, totalmente “in direzione ostinata e contraria” schierandosi sempre dalla parte del più debole, del più bisognoso, un Dio che va continuamente al nostro incontro perché è un Dio appassionato, che ama ed agisce con passione, che sorride ogni qualvolta i suoi figli sorridono e piange lacrime amare ogni qualvolta i suoi figli sono immersi e sommersi nella disperazione e nell’angustia. Un Dio onnipotente nell’Amore e nella Misericordia, capace di perdonare sempre e comunque, causando lo scandalo dei benpensanti e moralisti di turno, che ieri come oggi continuano a chiedere, credere e sperare in un dio violento e vendicativo, giustiziere...un dio a loro immagine e somiglianza. Il nostro Dio allora è il Dio della Vita che ci ama da sempre e per sempre. Che ci chiama per nome e ci invia sulle strade del mondo, in particolare in tutte le “periferie esistenziali e geografiche”, per annunziare ad ogni creatura il Suo Amore.

In una società sempre più frenetica e competitiva, dove vige la cultura dello “scarto” e dell’indifferenza, tutti noi battezzati e quindi missionari, dobbiamo proporre pacificamente la rivoluzione d’amore che Gesù è venuto a insegnarci. Una rivoluzione, che non lascia morti né feriti, che non causa orfani né vedove, che non prevede utilizzo di armi. O meglio, l’unica “arma” a disposizione è l’amore. E quest’arma è così pericolosa, così sovversiva, così temuta....che non si vende né si compra nelle armerie, nei negozi! Viene da Dio, perché Dio è amore (1 Gv 4, 8) e a Dio ci avvicina. É la globalizzazione dell’amore misericordioso, ricevuto e condiviso. Dobbiamo allora fare in modo che «la civiltà dell’amore», come la chiamava San Paolo VI, possa trionfare. E la civiltà dell’amore potrà trionfare solo attraverso parole e gesti quotidiani di tenerezza, di riconciliazione, di perdono, di gratuità, di solidarietà, di accoglienza.

E se apriamo i nostri orizzonti, è impossibile non pensare in quest’ottobre missionario ai tanti fratelli e alle tante sorelle migranti, che in Italia ed in altre parti del mondo sono vittime di pregiudizi, di odio ideologico, di mancanza di carità cristiana. In loro, Gesù continua a dire ad ognuno di noi «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 35-36).

Se dunque l’accoglienza, il rispetto, l’attenzione, l’amore verso questi nostri fratelli e sorelle più bisognosi sarà parte integrante del nostro essere cristiani, allora davvero il Vangelo sarà una Buona Notizia per tutti. I poveri, sono «i destinatari privilegiati del Vangelo» (EG 48), seguendo le parole stesse di Gesù, che si identifica totalmente con loro: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). E davanti alle ennesime tragedie nel canale di Sicilia, davanti a quei sogni infranti nel muro dell'odio, a quelle speranze naufragate nel mare dell'indifferenza, mi viene spontaneo pensare a quella frase di don Lorenzo Milani «I CARE», contrapposta al «me ne frego» fascista, in voga ai suoi tempi e purtroppo rispolverato tristemente in questi ultimi tempi. Si, ci interessa, ciò che è accaduto, accade e che purtroppo accadrà in quelle zone, ci interessa, ci riguarda, ci sta a cuore, non ce ne freghiamo, scegliamo di non fregarcene, scegliamo di aprire il cuore e guardare queste persone che elemosinano sogni e speranze, come fratelli e come sorelle.

Bertolt Brecht (1898-1956), scrittore e poeta tedesco, ci aiuta a non rimanere indifferenti con queste sue magnifiche parole: «E vi preghiamo, quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: è naturale in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile».

E recuperare la nostra umanità sono sicuro ci porti anche ad essere «costruttori di pace», come ci dice il Vangelo di Matteo (Mt 5, 9), riportando il “discorso della montagna” di Gesù. L’evangelista Matteo utilizza qui una parola greca, «eirenopoiói», che in tutta la Bibbia troviamo solo in questo versetto, e che indica appunto l’essere costruttori, facilitatori di pace. Lo esprime in maniera stupenda il documento finale della II Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano riunito nel 1968 a Medellin, in Colombia, quando dice che «la pace non si trova, la si costruisce. Il cristiano è un artigiano di pace». Ecco cosa dovremmo essere come cristiani: artigiani di pace, uomini e donne che modellano la propria vita sulla pace, e che sono portatori di pace e di giustizia. Il beato padre Pino Puglisi (1937-1993) diceva: «Le parole del Cristo sono parole disturbatrici, inquietanti, che mettono dentro un travaglio che conduce a gioia e conversione»; e noi... vogliamo arrivare alla gioia piena? Vogliamo costruire un mondo migliore, un mondo alternativo al sistema e agli imperi dominanti, un mondo “altro”, più umano e fraterno? E allora non possiamo più aspettare che siano gli altri ad agire, non possiamo più delegare nessuno. Il tempo di stare in panchina o peggio ancora di stare in tribuna é finito. Dobbiamo essere noi a “scendere in campo”, a “metterci la faccia”, perché siamo noi gli artigiani a cui è affidato il compito bellissimo e allo stesso tempo impegnativo, di costruire, modellare la pace. Chiediamoci allora: Se non ora, quando? Se non noi, chi? Se non qui, dove?

Concludendo queste riflessioni, la missione nasce dai battiti del cuore di Gesù, un cuore profondamente innamorato, pieno di amore misericordioso e tenerezza infinita. I battiti del suo cuore sono i battiti del cuore del “padre misericordioso” (Lc 15, 11-32) che vede da lontano il suo figlio amato e corre al suo incontro, per esprimergli “fisicamente” davanti a tutti, la sua allegria per il suo ritorno a casa (Lc 15, 20): un’allegria che è sempre condivisa! Sono i battiti del cuore del “Buon Pastore (Gv 10, 11) che “scoppia” di allegria per aver ritrovato la pecorella smarrita (Lc 15, 5-6): un’allegria che è sempre condivisa. La missione nasce dai battiti del cuore trafitto (Gv 19, 34) del Crocifisso che è Risorto, trafitto dalla mancanza di amore tra gli uomini: un cuore che batte forte perché è un cuore compassionevole, capace di entrare con “tecniche non invasive” nella vita degli altri, condividendone gioie tristezze. Missione è anche prendersi cura, rispettare, amare la madre e sorella terra, la “casa comune” (LS 1). Con tutti i popoli della terra, specialmente quelli amazzonici (è in corso a Roma in questo mese di ottobre il Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia) chiediamo al Dio della Vita la grazia di essere buoni e fedeli custodi del creato. Lo facciamo chiedendo l’intercessione della prima discepola missionaria, Maria: «Vergine e Madre Maria, tu che, mossa dallo Spirito, hai accolto il Verbo della vita nella profondità della tua umile fede, totalmente donata all’Eterno, aiutaci a dire il nostro “sì” nell’urgenza, più imperiosa che mai, di far risuonare la Buona Notizia di Gesù» (EG 288).

Il Dio della Vita, che è Padre, Figlio e Spirito Santo, ci benedice, ci chiama per nome e ci invia sulle strade del mondo...rimaniamo nella Sua Pace e portiamola a tutti! Buona festa di San Daniele Comboni e buon ottobre missionario!
Con la gioia della missione nel cuore, fraternamente vostro
Padre Alessio Geraci, mccj
Padova, 10-10-2019, festa di San Daniele Comboni
[
comboniani.org]