P. Mario Fioravanti è deceduto all’ospedale di San Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno, il 7 novembre scorso. Era stato ricoverato d’urgenza il giorno prima. Sembrava l’ennesima crisi, che avrebbe superato con qualche giorno di ricovero, come era già successo tante altre volte negli ultimi anni, ma stavolta il cuore non ha retto. Se n’è andato in punta di piedi. Avrebbe compiuto settantadue anni tre settimane dopo. Si trovava in famiglia da un anno. Le difficili condizioni fisiche, accentuate da costanti problemi e dal bisogno anche psicologico di poter contare su un’assistenza costante di persone di fiducia, avevano suggerito che rimanesse in famiglia piuttosto che in una comunità comboniana.
L’inizio della missione in Brasile
Era nato il 27 novembre 1939 a San Benedetto del Tronto (AP). Fu ordinato sacerdote il 26 giugno 1965 e, dopo due anni passati a Roma nell’animazione missionaria, fu destinato al Brasile. Partì nel 1967 e arrivò a Mantenópolis, nello stato di Espírito Santo, in una parrocchia affidata ai comboniani una decina d’anni prima. In quegli anni la diocesi cercava di portare avanti il difficile rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano II. C’era ovunque una duplice spinta: verso una Chiesa più semplice, di comunità e ministeri, come chiedeva l’episcopato latinoamericano, ma anche le resistenze dei gruppi che non capivano il rinnovamento e si opponevano con forza. Le tensioni fra nuovo e vecchio erano difficili da gestire. P. Mario cercò di capire e di dare il suo contributo nel cammino intrapreso dalla diocesi.
Il Brasile, il problema della terra e gli indios
Fu richiamato in Italia dopo pochi anni, nel 1972, per un servizio a Sulmona, dove ebbe l’incarico della promozione vocazionale. Svolse questo lavoro con diligenza, per quattro anni. Nel 1976 tornò in Brasile. Il gruppo comboniano era un gruppo giovane, dinamico, che proprio in quegli anni segnava dei passi importanti. Seguendo l’onda migratoria che, spronata dalle politiche ufficiali di occupazione dell’Amazzonia, spostava decine di migliaia di persone dal sud e dal sudest del Paese verso la grande foresta, un gruppo di comboniani aveva aperto dei nuclei di presenza tra la gente. Lo sviluppo avveniva lungo la grande strada che attraversava nel mezzo, per più di mille chilometri, l’appena delineato stato di Rondonia. Chi arrivava, avrebbe dovuto ricevere proprietà ben definite; era previsto il sorgere di paesi e città. Lo stato si era impegnato a dare il sostegno necessario ed erano previste strutture di appoggio e servizi, ma in realtà l’occupazione avveniva in modo selvaggio e confuso. Il problema della terra, contesa a palmo a palmo, stava diventando esplosivo; il disboscamento veniva fatto al di fuori di ogni controllo, mancavano scuole, ospedali, servizi pubblici… E c’era anche il problema degli indios, completamente indifesi e incapaci di opporsi all’incalzare dei nuovi conquistatori. La comunità comboniana di Porto Velho, la capitale, alla quale P. Mario era stato destinato, divenne in poco tempo un punto di appoggio per molti che andavano lì per cercare di risolvere i loro problemi. Erano vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose, persone legate ai sindacati o alle associazioni. P. Mario, con gli altri della comunità, cercava di fare da ponte. Aiutava, accoglieva, orientava. In molte occasioni si espose in prima persona segnalando fatti gravi che altrimenti sarebbero passati inosservati. Non si tirò indietro nemmeno quando si trattò di sostenere delle denunce, soprattutto contro i latifondisti, in difesa dei contadini e degli indios.
Nel 1982 fu trasferito a San Paolo. Chiese di frequentare un corso universitario di antropologia per approfondire i conflitti e una problematica che gli stava particolarmente a cuore: quella degli indios sradicati dal loro mondo tradizionale. Ne aveva conosciuti molti a Porto Velho. Sapeva di altri che vivevano dispersi nelle principali città dell’Amazzonia. Invitava i suoi confratelli comboniani a occuparsene. Volentieri, avrebbe lui stesso integrato un’eventuale comunità che si dedicasse a questo servizio.
I bambini di strada
Alla fine degli studi, però, fu mandato in una comunità, appena aperta, alla periferia di Rio de Janeiro. Qui conobbe anche la terribile realtà dei bambini di strada. Sottolineava: “sono circa 30 milioni i bambini brasiliani che soffrono a causa della denutrizione e di altre forme di sottosviluppo”. E gli orfani o quelli fuggiti da casa per situazioni difficili, a volte venivano assassinati, eliminati con il pretesto di prevenire il crimine. Scriveva: “Negare ai bambini il diritto di nascere e crescere in una vera famiglia, in un clima di pace, di sicurezza e di affetto significa togliere loro la vita. Lo stesso si può dire quando non si fa il possibile per garantire ai piccoli una degna qualità di vita, per permettere loro di frequentare la scuola e ricevere un’educazione”.
In questa parrocchia P. Mario continuava a interessarsi al mondo afro-brasiliano, un progetto che richiedeva una particolare attenzione. Cercò di dare il suo contributo come poteva, inserendosi nel normale lavoro di accompagnamento delle comunità cristiane affidate ai Comboniani. Lo fece per sei anni, finché gli fu chiesto il servizio di procuratore a Rio de Janeiro. Andò ad abitare in un collegio di suore, occupando la casetta riservata all’assistente spirituale. Oltre a questo incarico, collaborava con la vicina parrocchia e accoglieva chi veniva dalle comunità più lontane, soprattutto del nordest, e aveva bisogno di un appoggio logistico o di un aiuto nelle questioni burocratiche, giuridiche e amministrative.
Quando la casa fu chiusa, all’inizio degli anni 2000, fu trasferito in una comunità vicina, nella diocesi di Duque de Caxias, dove aveva già lavorato anni prima, alla conclusione degli studi. Doveva essere un ritorno per rafforzare un cammino già conosciuto ma cominciarono a manifestarsi i primi sintomi di una malattia che, cominciando dal cuore, un po’ alla volta lo indebolì in tutto il fisico, con ricadute importanti anche a livello psicologico. Iniziò per lui un tempo di grande fragilità. Aveva sempre bisogno di dire a se stesso e agli altri che poteva ancora fare qualcosa e per questo voleva restare a tutti i costi al suo posto, anche se aveva bisogno di tutto; finché accettò di tornare in famiglia dove la morte andò presto a incontrarlo.
Testimonianze
Durante il funerale, queste erano le frasi ricorrenti: amava la missione e lavorava per un mondo diverso. Si faceva sempre presente soprattutto nei momenti difficili, sia per i confratelli che per gli indios. Era un punto di riferimento in situazioni di violenza e di miseria. Era convinto di non poter tacere, perciò proclamava Cristo e il suo Vangelo sempre e ovunque. Aveva un’umanità ricca e profonda. Ha saputo confrontarsi con la sua malattia e la sua fragilità.
Riportiamo un breve stralcio dalla lettera di un amico: “Ricordo con gioia l’incontro di quando io, allievo sottufficiale dei carabinieri a Firenze, venni a trovarti al seminario, sulla strada che da Firenze conduce a Fiesole. E poi la tua partenza per il Brasile ove hai toccato con mano la vera povertà nelle favelas di Rio de Janeiro e dove hai dedicato tutta la tua vita di sacerdote e di uomo. Però non hai mai perso i contatti con la tua terra d’origine, la tua cara Ragnola, e Porto d’Ascoli con le sue parrocchie che da una erano diventate quattro. Un legame particolare e, per noi, un privilegio, l’amore per la nostra parrocchia alla quale ti sei legato sin dalla sua costruzione, perché era la tua parrocchia! Nonostante la lontananza, il Signore ha voluto che nei momenti particolari della nostra comunità tu fossi presente in mezzo a noi per confortarci e guidarci”.
Da Mccj Bulletin n. 251 suppl. In Memoriam, aprile 2012, pp. 25-30.