Mons. Cesare Mazzolari era nato a Brescia il 9 febbraio 1937, secondo di sette fratelli, da una famiglia profondamente religiosa. Abitando vicino alla casa dei Comboniani, Cesare trascorse la sua infanzia all’ombra dell’Istituto, poté conoscere molti missionari e ammirarne lo zelo e la passione per l’Africa. In particolare, il piccolo Cesare guardava con ammirazione quel centinaio di ragazzi che si preparavano a diventare missionari. Studiavano, giocavano e pregavano... e, ad un certo punto, manifestò il desiderio di diventare uno di loro. Così, andò a Crema per le medie e a Brescia per il ginnasio.
Nel 1953, con un buon numero di compagni, andò a Gozzano, in provincia di Novara, per iniziare il noviziato che lo avrebbe preparato alla vita missionaria, ma nel 1954 fu mandato nel noviziato di Monroe, Stati Uniti, per completare la formazione e imparare l’inglese.
Il distacco dalla famiglia fu particolarmente doloroso, specie per il papà che non voleva rassegnarsi a lasciarlo partire. Sembrava quasi che avesse il presentimento di non rivederlo più su questa terra come, di fatto, avvenne. Quando giunse il momento dell’addio, i genitori lo accompagnarono fino a Napoli, dove s’imbarcò. Cesare aveva diciotto anni.
Emise i primi voti a Monroe il 9 settembre 1955. Proseguì poi gli studi liceali e teologici a Cincinnati (1955-1961) e a San Diego, nella California statunitense (1961-1962). Fu ordinato sacerdote a San Diego il 17 marzo 1962.
P. Cesare rimase negli Stati Uniti fino al 1981 come direttore spirituale del seminario di Cincinnati e occupandosi degli afroamericani e dei messicani impegnati nelle miniere. In quegli anni poté rendersi conto di quanta povertà e sofferenza ci fossero anche nel Paese più ricco del mondo. E divenne, per tanti poveri, un fratello, un amico, un consolatore.
Nel 1981 fu destinato all’Africa, in Sud Sudan, inizialmente come curato nella cittadina di Nzara, diocesi di Tombura-Yambio. La sua prima esperienza africana, dunque, si svolse in terra zande, una zona fertile ed evangelizzata da più di due generazioni di Comboniani. Qui P. Cesare lavorò come assistente nel centro catechistico diocesano e come padre spirituale nel seminario minore della diocesi.
Nel 1984 fu eletto superiore provinciale dei quaranta padri e fratelli comboniani che lavoravano in ben sei diocesi del Sud Sudan. Allo stesso tempo era presidente dell’Associazione dei Superiori Maggiori (incarico che mantenne fino alla fine del 1989) e superiore generale delle suore indigene del Sacro Cuore. Nel 1990 la Santa Sede lo nominò amministratore apostolico della diocesi di Rumbek; scelse, come suo motto, la frase: per reconciliationem et crucem ad unitatem et pacem (mediante la riconciliazione e la sofferenza verso l’unità e la pace).
Nello stesso anno, P. Cesare liberò 150 giovanissimi schiavi. Nel 1991, riaprì Yrol, la prima di una lunga serie di parrocchie, alcune delle quali subito abbandonate sotto l’incalzare dei combattimenti. Aspro censore del regime islamista di Khartoum, non risparmiò forti critiche anche ai leader dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla), accusandoli di appropriarsi degli aiuti umanitari. Nel 1994, venne catturato dai soldati dello Spla e tenuto in ostaggio per 24 ore; per i sei mesi successivi gli fu impedito di mettere piede nel distretto. Il 6 gennaio 1999 fu ordinato vescovo da Giovanni Paolo II, in San Pietro.
Il racconto di P. Luciano Perina
La prima cosa che mi è venuta in mente alla notizia della morte di Mons. Cesare Mazzolari è stato un nostro incontro avvenuto nel lontano 1990. Mi trovavo a Khartoum in convalescenza e lui, a quel tempo provinciale dei comboniani in Sud Sudan, era di passaggio al Collegio Comboni. Era una mattina molto calda e, dopo colazione, mi stavo riposando all’ombra del grande ficus che si trova di fronte alla nostra casa. Padre Cesare venne a sedersi vicino a me e, dopo i primi convenevoli, mi chiese timidamente se avessi la bontà di ascoltarlo.
Gli era stato chiesto di diventare amministratore apostolico della diocesi di Rumbek, e lui era incerto se accettare. La sua esitazione era data dal fatto che non era mai stato a contatto diretto con l’etnia denka e non ne conosceva la lingua. Arrivato in Sud Sudan nel 1981, aveva lavorato nella diocesi di Tombura-Yambio e poi nell’arcidiocesi di Juba. “Non sono mai stato tra i denka. Mi hanno detto che è un popolo fiero e forte, che in battaglia non si arrende mai e combatte fino all’ultima goccia di sangue”. Non aveva torto, erano stati i denka a scatenare e portare avanti la prima rivolta sud-sudanese (1956-1972) contro il governo di Khartoum. E lui si domandava come avrebbe potuto vivere con un popolo con un carattere tanto diverso dal suo.
Aggiunse un secondo motivo di apprensione: “La regione di Rumbek è sempre stata una zona protestante, per volontà del governo coloniale, e la Chiesa cattolica non è mai riuscita a mettervi radici stabili, nonostante i vari tentativi compiuti dai missionari fin dal 1950”. Cosa avrebbe potuto fare lui, uomo mite e gentile, in una Chiesa disastrata e pressoché inesistente, com’era il Vicariato apostolico di Rumbek nel 1990?
Credo avesse voluto parlare con me perché sapeva che conoscevo i denka abbastanza bene, dal momento che avevo trascorso diversi anni nella missione di Abyei. Gli risposi: “Sono veramente un popolo di guerrieri fieri e forti. Io, però, li ho trovati anche estremamente generosi, ospitali, secondi a nessuno in fatto di fedeltà agli impegni presi. Se riuscirai a non contrariarli e a non farli sentire inferiori, ti porteranno sempre in palmo di mano”.
Non so se quel mio parere positivo sui denka abbia in quel momento influito sulla sua decisione di accettare la proposta del nunzio apostolico. Posso affermare, però, con assoluta certezza, che per 21 lunghi anni i denka hanno trovato in lui un vero padre e la comunità cristiana un pastore capace. Tutti si sono sentiti orgogliosi e riconoscenti della sua presenza in mezzo a loro.
Quando arrivò a Rumbek come amministratore apostolico, padre Cesare trovò che, dal punto di vista organizzativo, la Chiesa cattolica era una realtà alquanto informe. Il personale era scarso e mancava un preciso piano pastorale. Le più varie istituzioni ecclesiali erano poco più che nomi scritti sulla carta. “Sono arrivato in una landa desolata”, mi scrisse.
Una capra in dono
Non so quale angelo abbia protetto e benedetto l’opera di Mons. Cesare. In situazioni disperate, infatti, egli è riuscito ad aprire nuove missioni: Yirol (1991) Mapuordit (1992), Marial Lou (1994), Agang Rial (1995) e perfino una “parrocchia itinerante”.
Nel 2001, quando dal Nord Sudan fui destinato alla diocesi di Rumbek, nella missione di Agang Rial, trovai 12 parrocchie, in ognuna delle quali c’erano una scuola, con migliaia di alunni, e un dispensario con personale medico specializzato nella cura della lebbra e della tubercolosi. Il solo commento che potei fare fu: “Questo vescovo ha fatto, e sta facendo, miracoli”.
Impossibile elencare tutti i nomi delle scuole e delle cliniche mediche aperte e sostenute da Mons. Mazzolari. Da ogni “scuola di missione” dipendevano – e tuttora dipendono – decine di scuolette nel bosco circostante. Noi le chiamiamo “scuole satellite”. In alcune di queste, le aule sono costruite con mattoni di fango cotti al sole e hanno un tetto di paglia. In altre, invece, gli alunni si siedono per terra all’ombra di un grande albero. Nella parrocchia di Mapuordit, per esempio, se ne contano 20, con 7.000 alunni. Il totale degli scolari presenti nelle scuole della diocesi si aggira attorno ai 60mila.
Due anni or sono – ero al termine del mio secondo incarico di provinciale dei comboniani in Sud Sudan – mi recai con Mons. Mazzolari in visita alla “scuola satellite” di Agany, nella parrocchia di Mapuordit. Sembrava una scuola vera e propria: c’erano il direttore, il suo assistente, 15 insegnanti e 750 alunni. Il vescovo volle incontrare tutte le classi, dalla prima elementare alla terza media. Per tutti ebbe una parola di incoraggiamento. Durante l’assemblea generale con tutti gli alunni e i maestri, un ragazzo di quinta elementare chiese la parola: “Gli alunni di questa scuola hanno deciso di mettere assieme le monete che avevano in tasca e farti un regalo”. Ed ecco spuntare dal folto gruppo un ragazzino che si trascinava dietro una capra. Ci fu un urlo di gioia e un battimani che non finiva più. Ho visto il vescovo profondamente commosso.
L’alunno continuò: “Questa capra è per te, vescovo, perché sei venuto a visitarci e a parlare con noi. Quando torni a Rumbek, mangiala, così diventerai più forte e potrai ancora venire a visitarci”. Mandando giù il grosso nodo che gli bloccava la gola, Mons. Mazzolari rispose: “È bello ricevere una capra in regalo. Sarà bello anche mangiarla, perché io rimanga forte. Ma sarà bello per me venire a visitarvi di nuovo. Sarà, infine, bellissimo se tutti voi riuscirete a essere promossi, così che possiate prepararvi a essere persone capaci di aiutare i vostri fratelli e le vostre sorelle che non possono frequentare la scuola come voi”. In parole semplici, il vescovo aveva reso chiara la visione che aveva della scuola: un mezzo indispensabile per rendere le persone finalmente protagoniste del proprio destino e attive nella ricostruzione del loro paese.
Ciò che resta di una vita
Il 9 luglio scorso, Mons. Mazzolari festeggia nella cattedrale di Rumbek l’indipendenza del Sud Sudan, orgoglioso, come tutti i “suoi” denka, del raggiungimento della tanto agognata libertà dal regime islamista di Khartoum. Una settimana dopo, il giorno 16, mentre celebra l’Eucaristia, è colto da un malore. Immediato il trasporto all’ospedale, ma i medici non possono fare altro che constatarne il decesso per infarto cardiaco. Aveva 74 anni.
Non lascia una “landa desolata”. Oggi la diocesi è piena di speranze e di promesse. Le scuole cattoliche sono, più che mai, gremite di alunni e studenti, che si stanno preparando a dare una mano a ricostruire il Sud Sudan. Il coraggio, le fatiche e soprattutto la visione di Mons. Mazzolari sono diventate l’inizio di una vita nuova per loro stessi e per il loro paese.
Tantissimi, i soldi passati per le mani di Mons. Mazzolari. Grazie alla generosità di amici europei e americani, ha potuto costruire scuole, dispensari, cliniche per la lebbra, centri per malati di tubercolosi... Terminata un’opera, ne iniziava un’altra. Per sé, niente. Lascia al suo successore un episcopio che è poco più di una catapecchia: senza elettricità, senza acqua corrente e senza servizi igienici; la latrina è in fondo al cortile.
Noi, suoi confratelli, che giocosamente lo chiamavamo “il vescovo dei dollari”, sapevamo che il suo pensiero era costantemente rivolto alla sua gente. Facevamo spesso battute su di lui. Se uno chiedeva: “Come sta il vescovo?”, la risposta era: “È senza soldi”. Ne riceveva tanti, sì, ma non ne aveva mai. Appena arrivavano, li spendeva tutti per la gente: “Dio ha voluto che io fossi vescovo di gente povera, di giovani abbandonati a se stessi, di centinaia di migliaia di persone che hanno perso tutto – anche la voglia di vivere – a causa della guerra. Come posso non darmi da fare per aiutarli?”. A chi lo invitava a sistemare un pochino la sua casa (“Ne va della tua salute”), rispondeva: “C’è sempre tempo per quello. Ora devo fare altro. Se la mia casa è povera, è pur sempre una ricchezza rispetto alla miseria che la circonda”. Nel 2006, giunse a Rumbek da Roma un alto prelato per visitare la diocesi. Entrato nella casa di Mons. Mazzolari, ne rimase allibito. “Qui non si può vivere”, si lasciò sfuggire. Giunta la sera, si dovette cercare per lui una camera presso un’organizzazione internazionale. Che differenza! Lui, padre Cesare, in quella topaia ci visse 21 anni, senza mai lamentarsi!
Penso che sia stato provvidenziale che, nel 1990, padre Cesare abbia accettato la sfida di amministrare la diocesi di Rumbek. E se il mio parere positivo servì a qualcosa, ne vado fiero. Uomo mite e gentile, egli è diventato la guida spirituale di un popolo forte, fiero e combattivo, come i denka. Perché l’amore umile e disinteressato ha una sua forza particolare che sa far breccia presso ogni popolo.
Trovo, infine, molto significativo che sia morto mentre diceva la Messa. Cristo, nella prima Eucaristia celebrata su questa terra, completò il dono di se stesso ai suoi discepoli. Mons. Cesare Mazzolari, nella sua ultima celebrazione della stessa Eucaristia, ha suggellato la totale consegna di sé al grande popolo denka e alla Chiesa del Sud Sudan. Oggi, per sua espressa volontà, riposa nella cattedrale di Rumbek, presso la gente che ha amato più di sé stesso. Fino all’ultimo respiro.
Nella persecuzione religiosa
In un’intervista a P. Lorenzo Gaiga, Mons. Cesare ebbe modo di spiegare come il governo musulmano e fondamentalista di Khartoum avesse ingaggiato una subdola persecuzione religiosa contro i cristiani. Chi non accettava il Corano non trovava lavoro, casa o medicine e non veniva iscritto a scuola. Appena i cristiani costruivano una tettoia per radunarsi a pregare, arrivavano i soldati governativi e distruggevano tutto.
In questa situazione, Mons. Cesare rimase costantemente in contatto con la gente e con i sacerdoti che conducevano una vita da fuggiaschi. I rischi per spostarsi da una parte all’altra della diocesi erano altissimi. Se si usavano i piccoli aerei, c’era il pericolo di essere abbattuti, se ci si muoveva in auto, ci si poteva imbattere nelle mine o nei posti di blocco militari.
La gente in fuga non poteva coltivare la terra, seminare, raccogliere. I villaggi erano incendiati e gli uomini dovevano entrare nell’esercito. Donne, vecchi e bambini vagavano come spettri in uno scenario di terrore. Nel 1993 fu nominato Prefetto Apostolico ma, a causa della guerra in Sud Sudan, dovette risiedere ad Arua-Ediofe (Uganda) e poi a Nairobi (Kenya).
Scriveva, in quel tempo, Mons. Cesare: “Sono le fabbriche di armi europee che armano tante mani e le rendono capaci di terribili carneficine. Stranamente le armi entrano in paese con facilità estrema, cosa che non succede per gli aiuti umanitari che trovano intoppi da tutte le parti”.
Testimonianza di P. Fernando Colombo
È indispensabile tentare almeno di individuare alcuni tratti personali dello stile di Mons. Mazzolari e cercare di capirne i moventi.
a) Il suo cuore. Il suo cuore era in pericolo da anni. Già prima del 2000 aveva trascorso un lungo periodo in ospedale per “fibrillazione cardiaca”, sotto osservazione, e alla fine gli fu applicato un pacemaker. Questo, però, non fu di ostacolo alla sua attività, anzi non presentò il minimo condizionamento alle sue iniziative. Molti dei suoi più vicini collaboratori non hanno mai neppure sospettato di questa sua condizione cardiaca, che non era palesata dal ritmo di attività dell’interessato. Ma per chi ne era a conoscenza, non è stato una sorpresa il suo fatale attacco cardiaco dopo giorni di viaggi e di attività, particolarmente intensi, in un clima equatoriale e su strade disastrate.
Inoltre, un confratello ha giustamente fatto notare la grande sensibilità di Mons. Cesare, che registrava e assorbiva ogni incontro e preoccupazione a livello di cuore. Nessuna meraviglia perciò che un cuore eccessivamente logoro ed esausto si sia definitivamente immobilizzato quella mattina del 16 luglio scorso.
b) Apertura a missionari e missionarie di ogni provenienza. La diocesi di Rumbek è alla pre-evangelizzazione o prima evangelizzazione. Due soli i sacerdoti nativi e nessuna religiosa. Alla sua morte, gli istituti religiosi-missionari presenti e attivi nella diocesi di Rumbek sono 15, ai quali vanno aggiunti tre sacerdoti incardinati dal Kenya e dall’Uganda.
Quando si trattava di personale apostolico (preti e suore), Mons. Mazzolari era sempre disposto a trattare per accoglierli, anche se venivano dall’Asia (coreani e malesi) o dagli Istituti più diversi (Gesuiti, Salesiani, Apostoli di Gesù, Spiritani, Suore di Madre Teresa, di Loreto, Australiane, Evangelising Sisters, ecc.): una vera Pentecoste.
Naturalmente questo richiedeva paziente dialogo ed energie per raggiungere gli accordi, e fondi per gli edifici dove ospitarli e per il loro sostentamento, spesso totale.
c) Visite e contatti pastorali. Mons. Cesare ha dato priorità assoluta ai contatti con le varie comunità parrocchiali e ha sempre risposto personalmente alle chiamate per celebrazioni e programmi pastorali. Ci teneva ad amministrare personalmente il sacramento della cresima, anche quando si trattava di migliaia di candidati, assieme magari a centinaia di battesimi. C’era poi, fino a tre anni fa, il sistema interno di radio distribuite in tutte le località pastorali e collegate anche alla sede di Nairobi. Il telefono è stato un altro mezzo da lui usato instancabilmente: aveva anche fornito di telefono satellitare le missioni prive di telefono cellulare, per assicurare i contatti in ogni evenienza. Fino a qualche anno fa, quando non c’erano ancora strade transitabili, specie nella stagione delle piogge, era sempre pronto a mettere a disposizione voli aerei per il personale pastorale, anche se i costi erano impressionanti. Tutto questo, per mantenere funzionante una pastorale diocesana in un posto dove niente funzionava.
d) Impegno a Rumbek, a Nairobi e in Italia. Mons. Cesare ha potuto sperimentare profondamente la situazione del nostro Fondatore, diviso continuamente tra l’Africa e l’Europa. Se i grandi viaggi di Comboni furono 7, quelli di Mazzolari sono stati 70 volte 7, facilitati ovviamente dai moderni mezzi di trasporto. La residenza intermedia di Nairobi è stata imposta dalla guerra in Sud Sudan e dalla totale mancanza di servizi di comunicazione e di prestazioni sociali a Rumbek. I suoi viaggi in Europa non sono mai stati per vacanze e riposo, ma tutti minuziosamente programmati per un superlavoro di animazione missionaria e di contatti con donatori di risorse per la diocesi. Alla fine, ripeteva spesso che non ce la faceva più ad affrontare i viaggi di lavoro in Europa. La salute glielo proibiva, anche se ha continuato a portarli avanti fino all’ultimo. È vero che il Vescovo di Rumbek ha speso capitali per la sua diocesi popolata da pastori e disastrata dalla guerra, ma forse non tutti hanno presente che li ha raccolti interamente mantenendo contatti personali e una corrispondenza ininterrotta.
e) Aperto a tutto e a tutti. Mons. Cesare non era “clericale”, cioè non tendeva a privilegiare come collaboratori “i cattolici praticanti” o a cercare sostenitori e donatori solo in chiesa. Tutti quelli disposti ad aiutare il Sudan trovavano incoraggiamento presso di lui; le porte erano spalancate a ogni nazionalità, “confessione” e provenienza. Questo valeva per il personale “apostolico-religioso”, dove si trovarono a lavorare assieme europei e sacerdoti dell’America Latina, coreani, indiani, australiani, gesuiti, salesiani e sacerdoti “fidei donum”. Ma era ancora più evidente con i collaboratori: dai giornalisti di ogni colore, che visitavano continuamente la sua diocesi, fino ai collaboratori, non di rado scelti anche fra i musulmani. Ultimamente erano e sono ancora presenti un gruppo di “Memnonites”, con incarichi di progetti diocesani come “giustizia e pace” e “HIV/AIDS”.
f) Raduni di ogni tipo. Mons. Cesare era un esperto “comunicatore” non solo con gli scritti (quante le lettere da lui scritte? Siamo sicuramente sulle diverse migliaia...), la radio e la televisione (sempre pronto per interviste), ma soprattutto negli incontri personali e di gruppo.
Ogni anno organizzava un’assemblea diocesana di due intere settimane, cui erano convocati tutti i membri e collaboratori permanenti della diocesi. E fino a pochi anni fa, le assemblee annuali erano due, una formativa e l’altra amministrativa. Particolarmente impegnative per i trasporti e costose per la convivenza, erano però ritenute indispensabili.
Ogni mese a Nairobi si teneva il meeting amministrativo, dove ogni pratica e problema veniva condiviso tra i membri dell’amministrazione di Bethany House (la casa diocesana a Nairobi) e ognuno presentava il proprio resoconto.
I raduni pastorali a Rumbek e nelle missioni in occasione delle sue visite non si contano; e naturalmente, non c’era limite di tempo: si continuava finché tutti gli argomenti erano stati trattati.
Altre qualità. Anche da Vescovo, Mons. Cesare è rimasto un Comboniano identificato fin nei minimi dettagli della sua vita. A Rumbek, si sapeva della sua presenza dalla partecipazione alla preghiera giornaliera. Era il primo al mattino in chiesa, alle 6.30, per la preparazione alle Lodi delle 7.00 e alla Messa delle 7.30. Teneva molto a tutte le celebrazioni comboniane e non perdeva occasione per incontrare confratelli giovani e anziani, in Africa e in Europa.
È stato un grandissimo lavoratore, interamente dedito al servizio della sua diocesi, senza distrazioni di sorta. Ha raccolto e speso milioni di dollari, ma tutto per la sua gente del Sudan, mai per se stesso. Era difficile stare al suo passo: non bastava camminare, bisognava correre. Impossibile anche fermarsi: si doveva stare in piedi e camminare.
Limiti. Se ne possono rilevare due:
a) un certo paternalismo: nel Sudan del suo tempo, pieno di continue emergenze, si era abituato ad affrontare problemi e situazioni facendo assegnamento sulle proprie risorse. Gli veniva spontaneo affrontare i problemi individuando le soluzioni e procurando i mezzi necessari. Era talmente organizzato e attivo da dare l’impressione di usare, a volte, le persone come strumenti per raggiungere gli obiettivi che si era prefissato. Ma alla base, c’era certamente la buona fede di voler aiutare e di assicurare l’esecuzione delle decisioni, oltre che una generosità nella dedizione che anticipava ogni possibile richiesta di aiuto.
b) L’accogliere collaboratori di ogni bandiera è stato certamente arricchente per una diocesi bisognosa di tutto come Rumbek. Tuttavia, queste persone non sempre erano in grado di integrarsi nel lavoro con le stesse motivazioni e criteri dei missionari per vocazione, che stavano sul posto e, questo, a volte, creava disagi e difficoltà.
La forza segreta di Mons. Cesare. Da un corpo così malandato come poteva venire tanta fede, tanta speranza e un’incessante azione caritativa? Il segreto va ricercato nella sua profonda comunione di vita con Gesù, da lui alimentata con tante iniziative personali. Alcune si potevano anche intravedere esternamente: preghiera personale al tavolo di lavoro davanti ad un’immagine con il lume acceso, prolungato sostare davanti al tabernacolo aperto, lettura di molti autori spirituali (ultimamente preferiva quelli del benedettino Grün), abbondantemente sottolineati con l’evidenziatore giallo, disponibilità sempre pronta e preparata a presiedere la celebrazione eucaristica... Mons. Cesare rivelava una “Presenza” che si teneva dentro continuamente viva e accesa come una fiamma.
“Missione compiuta”
La morte di Mons. Cesare, il 16 luglio 2011, è stata improvvisa e, per chi non era informato della sua situazione di salute, inaspettata. Stava celebrando la Messa e all’inizio del rito della consacrazione è stato colpito da un attacco cardiaco fulminante. Trasportato all’ospedale, i medici ne hanno constatato il decesso. La sepoltura nella “sua” cattedrale, ha avuto luogo a Rumbek lunedì 18 luglio, in anticipo sulla data prevista, a causa del clima torrido. Mons. Cesare aveva sempre espresso il desiderio di essere sepolto in terra africana, terra per la quale si era tanto prodigato, aveva tanto sofferto e che aveva tanto amato.
La celebrazione ufficiale si è svolta giovedì 21 luglio. Il presidente della Repubblica del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, ha voluto ricordare Mons. Cesare inviando un messaggio, di cui riportiamo soltanto una frase: “Un uomo dalla fede profonda, umile e sincero, che ha dedicato la sua vita al servizio della Chiesa cattolica del Sudan e che sarà ricordato per il suo impegno eroico nella lotta per la libertà, la giustizia e la dignità umana, un uomo che si è sempre prodigato per la riconciliazione tra le parti avverse”.
Una settimana prima, Mons. Cesare aveva partecipato alla festa dell’Indipendenza del Sud Sudan. A questo proposito P. Giulio Albanese ha scritto: “Una coincidenza importante. Sembra quasi che abbia aspettato proprio fino all’ultimo per andarsene: ha aspettato che il Sud Sudan diventasse indipendente. E credo che quella festa l’abbia davvero celebrata nella fede, nella consapevolezza che in una maniera o nell’altra il bene prende sempre e comunque il sopravvento sul male”.
Molto ci sarebbe da dire riguardo all’impegno di Mons. Cesare nel campo dell’insegnamento. Possiamo accennare al commovente ricordo di Maker Mayek Riak, laureato in discipline umanistiche e in giurisprudenza (vive a Canberra, Australia), che nel suo messaggio di condoglianze parla degli inizi della scuola di Mapuordit, fatta di canne di bambù coperte di paglia, di cui fu uno dei primi alunni. Oggi, dice l’accademico, Lakes State può vantare il più gran numero di giovani istruiti di tutto il paese: economisti, avvocati, dottori, ingegneri, ecc. Il messaggio si conclude così: “La morte di Mons. Cesare si potrebbe esprimere come missione compiuta: il suo patrimonio spirituale rimarrà sempre vivo in me e in coloro che ha aiutato a essere quello che oggi siamo”.
La Caritas Italiana ha inviato il seguente messaggio: “Carissimi fratelli della Famiglia Comboniana, è con grande dolore che abbiamo appreso dell’improvvisa dipartita del vostro confratello Sua Eccellenza Mons. Cesare Mazzolari. La collaborazione tra Caritas Italiana e Mons. Mazzolari risale ai suoi primi anni in Sudan, relazione contraddistinta sempre da rispetto, fiducia e amicizia reciproca. Insieme è stato possibile realizzare molte delle sue numerose e coraggiose iniziative a favore dei sudanesi. Attraverso l’impegno instancabile e la passione profonda di Mons. Mazzolari per la sua gente, radicata in Cristo e sull’esempio di san Daniele Comboni, Caritas Italiana ha potuto condividere le sofferenze e le gioie di un popolo, fino alla tanto desiderata indipendenza del Sud Sudan. Saldi nella fede nella Risurrezione, ci uniamo a voi nel rendere grazie a Dio per il dono della vita su questa terra di Mons. Cesare Mazzolari nel continuare a coltivare i tanti semi di pace e giustizia da lui seminati, ‘affinché – per usare le sue stesse parole – l’autodeterminazione del popolo sud-sudanese sia piena e matura, nel segno della speranza e di un fondamentale recupero dell’identità’”.
L’ultimo grande progetto lanciato da Mons. Mazzolari, che ha lottato senza sosta per migliorare la situazione della sua gente e denunciare le atrocità dell’interminabile guerra sudanese, era la costruzione di un grande centro di formazione per insegnanti del Sud Sudan, a Cuiebet.
Camminare insieme, per capire la sofferenza del mondo africano
Il 30 maggio scorso, in occasione della presentazione di una sua biografia, scritta dal giornalista Lorenzo Fazzini dal titolo “Un Vangelo per l’Africa. Cesare Mazzolari, Vescovo di una Chiesa crocifissa”, aveva detto: “Come Chiesa abbiamo ancora oggi una grande responsabilità nella costruzione del nuovo Stato. Soprattutto, dobbiamo insegnare l’arte paziente del dialogo, della comunicazione e della riconciliazione, per mettere le basi di una nuova nazione”.
Vorremmo concludere con le parole di Mons. Mazzolari, riprese da una delle tante citazioni contenute in questo libro: “La nostra avidità per quel che gli africani possiedono griderà vendetta; verrà il giorno in cui la gente che stiamo educando qui in Africa farà valere i suoi diritti. I nostri figli e nipoti dovranno dire: ‘Sì, i nostri anziani hanno agito male’. Per questo oso affermare: ‘Correggiamoci e rallentiamo la marcia’. Lo ripeto pure a quanti vengono qua, in Sud Sudan, per fare del bene: spesso camminiamo troppo in fretta, lasciamo indietro le persone proprio perché abbiamo l’ambizione del successo. In realtà dobbiamo cambiare i nostri tempi perché questa gente procede con il suo passo, sebbene ai nostri occhi sembri inefficiente e pigra. È facile dire: è colpa loro. Ma non è la verità. Ritengo che per capire la sofferenza del mondo africano sia necessario avere la volontà di camminare insieme, di comprendere il fatto di non avere sempre la risposta giusta né i mezzi per prevenire il male. E fare propria l’idea che, anche dopo aver visto la sofferenza, non sarà possibile sanarla completamente. Io farò il mio sforzo, chiamerò altri ad aiutarmi, ne verranno di nuovi a continuare il mio lavoro, un impegno a lunga scadenza. Però, già il fatto di camminare con questa gente significa dare loro la speranza che un giorno saranno autosufficienti. Adagio adagio, ce la faremo’”.
Da Mccj Bulletin n. 249 suppl. In Memoriam, ottobre 2011, pp. 100-114.