Lunedì 17 febbraio 2025
Caporalato, camorra, mafia nigeriana. I lavoratori migranti di Castel Volturno e l’impegno di padre Daniele Moschetti [a sinistra, nella foto] e dei comboniani per la difesa della loro dignità. [Giada Aquilino – L’Osservatore Romano]
«Vengo dall’inferno, il futuro non mi fa più paura». È una frase che il comboniano padre Daniele Moschetti trovò scritta sui muri di una casa che ospitava migranti, appena arrivò a Castel Volturno. Il missionario originario di Varese, per oltre vent’anni in Africa e dal 2019 nel comune del Casertano, è il presidente dell’associazione di volontariato Black and White, onlus nata nel 2001 per volontà dei missionari comboniani della zona con l’obiettivo di promuovere l’integrazione e l’inclusione degli immigrati, per far sì che non rischiassero appunto di passare da un inferno all’altro.
In sintesi, per evitare che finissero — e finiscano anche oggi, quando si sente ripetere, constata, «migranti uguale criminali» — per essere etichettati come «invisibili». In una conversazione con i media vaticani, padre Moschetti inquadra la realtà di Castel Volturno. «Ha un territorio lungo 27 chilometri, sul litorale campano, con 30.000 persone registrate regolarmente, di cui 5.000 migranti: ma ne sono stimati — riferisce il missionario — almeno altri 15-20.000, qui domiciliati o senza documenti. Ultimamente sono peraltro in crescita, stanno arrivando da altre parti della Campania, da Scampia, Secondigliano, Caivano, molti sono rom che provengono dai campi di Giugliano e Napoli. Ciò crea certamente una situazione difficile da gestire, soprattutto nelle zone più depresse, andando verso Mondragone e Pescopagano».
A Castel Volturno «ci sono 91 nazionalità diverse, quindi c’è metà mondo che vive qui»: già nel 2010 l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) individuava nigeriani, ghanesi, ivoriani, burkinabé, subsahariani in generale. Oggi a prevalere sono nigeriani e ghanesi, oltre che ucraini. In un territorio di campi agricoli, perlopiù destinati alla coltivazione e alla raccolta di ortaggi e frutta — «siamo nella cosiddetta “Campania felix”, la zona più fertile della provincia di Caserta e della Campania», ricorda padre Moschetti — Castel Volturno è stato considerato per molto tempo la “capitale” del circuito stagionale del lavoro agricolo svolto da mani straniere sul territorio italiano, come si legge nella ricerca “Made in Immigritaly. Terre, colture, culture”, report su lavoratrici e lavoratori immigrati nell’agroalimentare italiano commissionato dalla Fai-Cisl, realizzato dal centro studi Confronti e presentato al Cnel la primavera scorsa: dallo studio emergono ancora oggi condizioni di lavoro inique, alloggi inadeguati, nuove e vecchie forme di sfruttamento lavorativo. Perché una cospicua parte di questo bacino di manodopera risulta ingaggiata irregolarmente, attraverso il cosiddetto sistema del caporalato.
Parliamo di un territorio, prosegue padre Daniele, «in cui non si riescono a creare servizi — il Comune è stato commissariato tre volte negli ultimi 15-20 anni — e dove c’è una presenza di camorra che sappiamo essere territoriale». «C’è poi la mafia nigeriana», che in queste zone ha la propria “sede operativa” e che gestisce traffici illegali milionari legati alla cocaina e alla prostituzione. Da circa vent’anni inquirenti, analisti, giornalisti stanno cercando di capire meglio come funzioni. «Quando si fa riferimento alla mafia nigeriana si parla di confraternite, Black Axe o Vikings, gruppi violenti che hanno la tratta di esseri umani e la droga come punti di riferimento. Ma quando sei su un territorio “che è di un altro”, in questo caso la camorra, è immaginabile poi che si debbano avere anche degli accordi per “poter operare”».
Ma quando si parla di caporalato e di sfruttamento lavorativo dei migranti, sottolinea il missionario, il riferimento va soprattutto «agli italiani, che hanno bisogno di manodopera e vanno a trovarla negli immigrati», senza dimenticare comunque che «ci sono anche altri passaggi precedenti, come gli scafisti o coloro che fanno business» nell’illegalità. È un fenomeno, quello del caporalato, che a Castel Volturno riguarda soprattutto l’agricoltura, l’edilizia e «tutta la filiera casearia», delle mozzarelle di bufala.
I migranti, soprattutto i più giovani, si ritrovano alle varie rotonde, i cosiddetti Kalifoo ground. «Arrivano lì la mattina presto, anche alle 4, alle 5, e aspettano il furgone del caporale, quello che li raccoglie prima di portarli a lavorare, che può essere anche uno di loro, pure se poi c’è sempre qualcuno che ha un posto più in alto e che è generalmente italiano». La paga varia. «Se sei fortunato a trovare chi ha almeno un po’ di onestà, riesci ad avere anche 15, 20, 30€ al giorno, per almeno 12 ore di lavoro. Però se ti danno una bottiglia d’acqua o un panino o c’è da pagare pure il viaggio, sono tutte spese che ti scalano e, facendo i calcoli, alla fine rimane molto poco». Il quadro delle condizioni lavorative rimane critico: mancata tutela della sicurezza e della salute, difficoltà nell’accesso alle cure, situazioni igienico-sanitarie disastrose, continuo clima di minacce, fisiche e psicologiche. «Soprattutto d’estate il rischio è ancora più alto, perché quando lavori nei campi e per più di 10 ore rischi la disidratazione. Oppure c’è chi è malato e va a lavorare lo stesso, perché non può farne a meno. Una delle cose più importanti per i migranti che lavorano, specialmente nei campi, è il loro corpo. Se sono sani, riescono ad andare avanti, a mandare i soldi a casa, a pagare l’affitto, ma se cominciano ad ammalarsi, tutto questo viene a mancare. Nei cimiteri, per esempio a Villa Literno, in una zona dove si produce il 40% del pomodoro italiano, ci sono delle tombe bianche, su cui non c'è scritto nulla: sono migranti morti nei campi, di cui nessuno sapeva né il nome né il cognome. E questo non è dignitoso, né in vita né nella morte».
È proprio sulla capacità a non rimanere indifferenti di fronte «a una dignità umana che viene persa, a persone che si trovano in una situazione in cui vengono calpestati e umiliati i loro diritti» che lavora l’associazione Black and White, per «restituire dignità, un senso alla vita non soltanto ai tanti italiani che sono qui, in grande povertà, ma anche ai migranti». Lo fa — spiega padre Moschetti, che è anche viceparroco della locale parrocchia dei migranti, intitolata a Santa Maria dell’Aiuto, nel centro Fernandes dell’arcidiocesi di Capua — rimanendo per esempio accanto ai figli dei migranti, «che sono nati qui e non sono mai stati né in Africa né in America Latina né in Asia: sono anche loro italiani ma, non essendoci lo ius soli, arriveranno ai diciott’anni e forse potranno presentare i documenti della loro scuola, che hanno frequentato qui, per poi fare la richiesta di cittadinanza italiana»: a tal proposito il missionario richiama il prossimo appuntamento in primavera con il referendum che punta a dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di cittadinanza. Alla onlus, con cui collaborano 12 volontari, fa capo inoltre un servizio di doposcuola con 90 bambini, dalla prima elementare alla terza media, e una scuola di italiano per gli adulti, con 100 studenti. Lì le storie s’intrecciano, come quella di Eddie, nigeriano, che ha finito di studiare ed ora è diventato cuoco, tra Ischia e Sorrento. «È indipendente, ogni tanto torna, ci lascia anche un’offerta: non ce n’è bisogno però per lui, come per gli altri, è importante, è un senso di riconoscenza». E di appartenenza.
Giada Aquilino – L’Osservatore Romano