Sabato 15 febbraio 2025
Angola e Mozambico sono tra i cinque paesi africani più esposti agli shock economici derivanti dalle variazioni del commercio mondiale, dato l’elevato livello di debito pubblico. È quanto si evince dal Rapporto 2024 sullo sviluppo economico in Africa, redatto dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad). [P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano]
Nel documento — presentato lunedì scorso ad Abidjan dal segretario generale dell’Unctad, Rebeca Grynspan, e dal ministro del Commercio, dell’Industria e della Promozione della Costa d’Avorio, Souleymane Diarrassouba — si sottolinea che «un’inflazione più elevata, come quella registrata a livello mondiale nel 2022, aumenta inevitabilmente lo spettro di tassi di interesse più elevati, che possono creare uno shock nei paesi con un elevato onere del debito, aumentando il costo del servizio del debito».
Come abbiamo scritto ripetutamente sulle pagine di questo giornale, negli ultimi dieci anni il debito pubblico dell’Africa è quasi raddoppiato, con una quota crescente che è diventata a breve termine e non agevolata. Ciò significa che gli obblighi di rimborso stanno scadendo più rapidamente, aumentando le esigenze di rifinanziamento. Tuttavia, l’accesso alla liquidità rimane costoso e limitato. A differenza di altre regioni, il continente africano non dispone di un meccanismo di stabilità finanziaria dedicato al rifinanziamento del debito su larga scala, lasciando molte nazioni dipendenti dai mercati finanziari internazionali, spesso a costi insostenibili. Questa dipendenza, unita a un sistema finanziario globale non in grado di garantire un alleggerimento del debito tempestivo e sufficiente, ha reso la sostenibilità del debito sovrano una preoccupazione crescente in tutto il continente.
Ma andiamo per ordine. Il debito estero dei paesi in via di sviluppo, e dunque quello africano, è uno dei temi più roventi nel dibattito Nord-Sud. Stiamo parlando di una forma riveduta e “scorretta” (è un eufemismo s’intende) di moderna schiavitù che, alla prova dei fatti, è stata già corrisposta, e viene tuttora pagata, in termini di vite umane, nelle periferie del mondo. Per vite umane ci si riferisce a quella umanità dolente relegata nei bassifondi della storia, vale a dire: persone che, se fossero state nelle condizioni di poterlo fare, si sarebbero curate, nutrite, istruite con il denaro destinato ogni anno al pagamento degli interessi. Sia chiaro, nessuno mette minimamente in discussione il principio secondo cui i debiti vanno onorati. Come abbiamo già scritto, il problema di fondo è che la de-regulation, imposta dalla dottrina liberista, ha determinato una perniciosa mutazione delle condizioni sottoscritte inizialmente da debitori e creditori. In questi anni, i paesi come quelli della macroregione subsahariana hanno sborsato per i soli interessi dovuti ai creditori somme superiori a quelle destinate al welfare, se si considera che le cifre in gioco sono smisurate per i debitori (in condizioni sociali penose) e trascurabili per i creditori.
È evidente che siamo di fronte a un’anomalia sistemica che è urgente risolvere. In passato, è bene rammentarlo, in coincidenza con il Giubileo del 2000, grazie al progetto Highly Indebted Poor Countries, a opera del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, e successivamente in forza della Multilateral Debt Relief Initiative, a seguito del 31° summit del G8, tenutosi a Gleneagles, in Scozia, molti governi africani ripresero fiato grazie a una riduzione e in alcuni casi cancellazione del debito, accedendo a prestiti insperati. Purtroppo si verificò ben presto la tendenza, da parte dei governi africani, di sostituire il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati (assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity) molto più oneroso e a breve termine. Ecco che allora il debito di cui sopra è stato letteralmente finanziarizzato con il risultato che il pagamento degli interessi è stato inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali.
Alla luce di quanto detto, sono diverse le ragioni per argomentare la necessità di trovare una soluzione alla questione debitoria. Tra esse, oltre al precetto evangelico della carità che dovrebbe tradursi in solidarietà fattiva, ve ne sono almeno due. La prima, espressa ripetutamente dai governi africani in sede internazionale, ha una valenza storica. Durante l’epopea coloniale, il Sud del mondo, e in particolare l’Africa, è stato defraudato delle proprie ricchezze naturali. Sebbene nessuno abbia tenuto una contabilità di quanto è stato sottratto, le potenze coloniali hanno disposto a proprio piacere delle ricchezze minerarie, agricole e persino umane dei popoli da loro sottomessi. Come ha osservato l’economista Riccardo Moro, «quando il pagamento degli interessi sul debito in un paese africano oggi supera in media di quattro volte la spesa sanitaria annuale (a fronte di tassi di mortalità infantile entro il quinto anno di vita anche superiori al 20 per cento), qualunque cittadino africano ha diritto di dire che gli interessi non vanno più pagati e che, anzi, il debito va azzerato, per ridurre di un’inezia il credito di cui egli è titolare verso di noi, a causa delle spoliazioni dei secoli scorsi. Questa posizione ovviamente esula da ogni inquadramento tecnico del problema, ponendolo su un piano prettamente politico, ma è, ovviamente, autenticamente fondata».
Detto questo, vi è un’altra ragione che fa leva sulla giustizia e che è riconducibile alle dinamiche macroeconomiche che abbiamo esaminato. Se si ricalcolano le somme dovute e le somme restituite sotto forma di interessi, commodity, lavoro sottopagato e le frequenti svalutazioni delle divise locali, si ottiene che per quasi tutti i paesi africani e non il debito è stato già restituito completamente, e in qualche caso anche più volte, dunque nulla più è dovuto. Peraltro, il debito di queste nazioni è davvero, dal punto di vista quantitativo, di gran lunga inferiore a quello dei paesi industrializzati. Emblematico è il caso del Kenya che nel 2023 ha raggiunto il 70 per cento del pil (67 miliardi di dollari). Motivo per cui il governo di Nairobi ha proposto una serie di interventi di aggiustamento che sono stati la causa ultima delle proteste popolari del 2024. Proviamo a confrontare questa cifra con il debito italiano che nel novembre 2023 ha sfondato il muro dei 3 trilioni di euro. Se da una parte è vero che la cifra assoluta del pil kenyano nel 2023 era di soli 107 miliardi rispetto a quello italiano di 2250 miliardi, è evidente che oggi a pagare il prezzo più alto sono i poveri. Considerando poi che l’uomo più ricco del mondo, con una passione smodata per lo spazio, dispone di una fortuna superiore ai 400 miliardi di dollari, è evidente che in termini di giustizia distributiva siamo ancora in alto mare.
A questo proposito Papa Francesco è stato molto chiaro: «Il debito estero è diventato uno strumento di controllo, attraverso il quale alcuni governi e istituzioni finanziarie private dei Paesi più ricchi non si fanno scrupolo di sfruttare in modo indiscriminato le risorse umane e naturali dei Paesi più poveri, pur di soddisfare le esigenze dei propri mercati. A ciò si aggiunga che diverse popolazioni, già gravate dal debito internazionale, si trovano costrette a portare anche il peso del debito ecologico dei Paesi più sviluppati. Il debito ecologico e il debito estero sono due facce di una stessa medaglia, di questa logica di sfruttamento, che culmina nella crisi del debito. Prendendo spunto da quest’anno giubilare, invito la comunità internazionale a intraprendere azioni di condono del debito estero, riconoscendo l’esistenza di un debito ecologico tra il Nord e il Sud del mondo. È un appello alla solidarietà, ma soprattutto alla giustizia».
La posta in gioco è alta perché, stando alla Carta di Sant’Agata dei Goti su Usura e debito internazionale, redatta da eminenti giuristi di fama internazionale nel 1997, le annose questioni del debito internazionale e dei contratti di carattere finanziario concernenti i paesi in via di sviluppo rendono necessaria una nuova ricognizione dei principi giuridici enunciati nella Carta. Principi come “l’autodeterminazione dei popoli”, “l’inviolabilità dei diritti umani” o “l’eccessiva onerosità sopravvenuta” e che sono altresì fonte del diritto internazionale, come riconosce l’articolo 38, 1c, dello statuto della Corte internazionale di giustizia. Raccogliendo l’eredità culturale, teologica, giuridica e morale di matrice cattolica, questi giuristi hanno dimostrato che alla prova dei fatti il sistema economico-finanziario ha bisogno di redenzione. Il Giubileo, da questo punto di vista, deve essere per i creditori (o presunti tali) un tempo di conversione.
P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano