Mercoledì 29 gennaio 2025
Da qualche mese la Caritas del Vicariato Apostolico di Mongo, nel nord-est del Ciad, interviene nei campi dei profughi sudanesi che hanno potuto raggiungere il paese, fuggendo da una guerra fratricida tuttora in corso. Il governo ciadiano, sin dall’inizio di questa crisi, ha avuto una politica di apertura, di accoglienza del circa mezzo milione di profughi che vivono in questa zona semidesertica del paese. Le ragioni di questa politica della “porta aperta” sono molteplici: vicinanza etnico-religiosa (i sudanesi sono tutti musulmani), legami familiari ed economici (le miniere d’oro e altri metalli preziosi che fanno gola a tutti).
Questi campi di profughi si trovano sul territorio della parrocchia “Santa Teresa del Bambino Gesù”, affidata ai Missionari Comboniani che, tra le altre comunità sparse sul territorio, seguono le piccole comunità cristiane in due cittadine a nord della città di Abéché. Da una fase iniziale di accoglienza ed emergenza (fornendo loro il necessario per sopravvivere) – la Caritas e altre ONG internazionali operanti in zona – si sta passando ad una di autosostentamento, autosviluppo, favorendo interventi di miglioramento della pastorizia e dell’agricoltura.
È a questo proposito che vorremmo riferire quanto segue. La Caritas, come d’altronde gli altri agenti presenti sul territorio, ha favorito un insieme d’iniziative dove la popolazione locale (spesso proprietaria dei terreni dove si interviene) e gruppi di donne sudanesi insieme coltivano, seguono e raccolgono in appezzamenti trasformati in giardini (irrigati grazie a pozzi utilizzati a questo fine così come al consumo di acqua potabile da parte della popolazione locale/profughi) la verdura, le cipolle, i pomodori e una varietà di altri prodotti agricoli destinati al consumo e al mercato sia locale che della non troppo lontana Abéché (soprattutto le cipolle!).
La signora della foto si chiama Khaltouma Gibril, è una delle animatrici di queste equipe miste (donne locali/donne sudanesi) che, grazie al loro lavoro, hanno trasformato questi appezzamenti, un tempo aridi, in verdeggianti giardini produttivi, sia dal punto di vista economico che da quello della salvaguardia della dignità delle donne che si coinvolgono nella gestione dei giardini. Khaltouma, in quanto animatrice di uno di questi gruppi, svolge un ruolo di “ponte”: conoscendo la lingua locale e i costumi sociali, è per lei facile relazionarsi con le sue sorelle sudanesi.
È una piccola storia positiva in una situazione, umanamente parlando, molto difficile (ambiente geografico ostile, carenza d’acqua, povertà diffusa della popolazione locale). È significativo che sia la Caritas che le ONG ivi presenti favoriscano una serie d’interventi comuni per la popolazione locale e i profughi. La sinergia così praticata sembra essere positiva, favorendo la conoscenza reciproca, la dignità delle donne (spesso marginalizzate o peggio), un lavoro che letteralmente dà buoni frutti.
Fino a quando si andrà avanti così? Fino a quando i profughi sudanesi rimarranno in questa zona del Ciad? La storia ci dice che finché non si ripresenteranno le condizioni di un ritorno pacifico al paese, queste persone rimarranno dove sono.
Piccola testimonianza personale: ho incontrato ad Abéché figli e nipoti di sudanesi che erano fuggiti a seguito della guerra degli anni Novanta. La Caritas è impegnata in questo processo di sviluppo e sostegno delle popolazioni locali/profughi sudanesi: può farlo grazie alla solidarietà del movimento Caritas internazionale; Khaltouma e le sue sorelle sudanesi sono lì a testimoniare – lavorando sodo – che è possibile far fiorire il deserto e la speranza di una vita dignitosamente vissuta.
Fr. Enrico Gonzales, mccj