Due affermazioni pasquali del Vangelo di Giovanni ci introducono nella Festa odierna: “Vogliamo vedere Gesù!” e “Abbiamo visto il Signore!”

Non cercate tra i morti colui che è vivo

At 10,34.37-43; Salmo 117; Col 3,1-4; Gv 20,1-9

Domenica di Pasqua! Il sepolcro è vuoto. La Vita ha vinto! Sì, il fine di tutte le cose è la Vita, il cui germe abita già nella nostra natura.
Siamo testimoni di questa Vita e Amore di Gesù Risorto, seminando fraternità, solidarietà e perdono. Buona Pasqua!
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Il cammino quaresimale ci ha accompagnati, attraverso un progressivo itinerario di penitenza e di conversione, ad accogliere l’evento fondante della nostra fede cristiana: la morte-risurrezione di Gesù, il crocifisso. Quest’evento è anzitutto annuncio esultante, ma è pure un invito rivolto ai credenti perché vivano “da risorti”. Con la tradizione veterotestamentaria, il memoriale della Pasqua, celebrato con il rituale dell’agnello pasquale, era il ricordo attualizzato della liberazione attuata da Dio a vantaggio del suo popolo. Per i cristiani la Pasqua neotestamentaria rimanda a Cristo, nuovo agnello, che con il dono della sua vita ha definitivamente liberato l’uomo dalla schiavitù del peccato e della morte.

Quindi, una liberazione o evento primordiale di salvezza che ci precede, ci interpella e ci coinvolge. Dobbiamo appropriarcene le virtù. Per arrivarvi, occorre celebrare la Pasqua facendone un atteggiamento esistenziale. È in questo modo che si fa memoria di quanto ci ha preceduto. Un’autentica memoria del pane spezzato e del vino condiviso deve portare a una vita vissuta per i fratelli.

Nella Pasqua si rivela anzitutto la fedeltà e la solidarietà di Dio all’uomo. Ed ogni esistenza vissuta in questa prospettiva diventa segno e volto della Pasqua. La Pasqua è quindi la festa che celebra la nascita di un mondo nuovo, il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo. La Pasqua di Risurrezione di Cristo è il gran giorno che ha fatto il Signore, perché ci rallegriamo ed esultiamo in esso. È il giorno che segna l’inizio della primavera cristiana, giorno in cui la morte è vinta, il peccato distrutto, ed è ristabilita la nuova alleanza tra Dio e gli uomini. Con la Pasqua noi siamo diventati “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che ci ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1Pr2,9). È questa l’assoluta novità della Pasqua.

Dentro di noi, mediante il battesimo, è stato posto il principio, il seme della risurrezione e dell’immortalità. Questa energia di vita soprannaturale costituisce per noi una grossa responsabilità. Possiamo coltivarla e fecondarla, ma possiamo anche farla morire. Col peccato la vita divina in noi si spegne.

Il filo conduttore delle letture bibliche sembra suggerito da un versetto della sequenza che commenta in modo poetico la proclamazione della fede in Cristo risorto: “Cristo nostra speranza è risorto”. Tuttavia non è l’ispezione di una tomba aperta e vuota che sta alla base di questa convinzione della fede pasquale. I discepoli infatti diventano i testimoni della Risurrezione solo grazie all’incontro col Signore risorto. Egli, con la vittoria sulla morte, porta a compimento quello che i profeti hanno testimoniato nelle sacre Scritture. Gesù vive, ma della vita di prima, vive di una vita diversa, in maniera nuova e definitiva. Il secondo itinerario di fede pasquale è proposto dal racconto lucano della prima lettura, nel discorso missionario di Pietro, tenuto nella casa dell’ufficiale pagano, Cornelio, a Cesarea. Pietro fa una sintesi dell’annuncio cristiano che ripercorre le tappe importanti della missione di Gesù dalla Galilea, fino alla sua morte e risurrezione in Giudea, a Gerusalemme. Infatti l’azione divina che ha risuscitato Gesù dai morti corrisponde alla sua consacrazione iniziale mediante la potenza dello Spirito, dopo il battesimo da l Battista. Il più autorevole interprete della predicazione apostolica dichiara inoltre che gli apostoli, che hanno mangiato e bevuto con Gesù dopo la sua risurrezione, hanno ricevuto dal Risorto il comando di annunciare al popolo che Egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Il salmo responsoriale invita l’assemblea a celebrare il Signore perché ha dato prova della sua misericordia. Chi ha sperimentato l’amore di Dio non può tacere.

Nella seconda lettura, dopo la riflessione sul mistero di Cristo. Paolo dà istruzioni concrete per la vita della comunità: esse derivano dal battesimo, fonte della vita cristiana. Il suo invito a “Cercare le cose di lassù” non significa evadere dalla storia, ma mantenere lo sguardo fisso al Regno dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Le conseguenze di queste affermazioni e della salvezza recata dal Risorto possono essere riassunte in quanto S. Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, ha tracciato come programma per i suoi e per tutti: “Nelle intenzioni, Gesù sia il nostro fine; negli affetti, il nostro amore; nelle parole, il nostro argomento; nelle azioni, il nostro modello”. Infatti, Cristo non vuole ammiratori, ma discepoli.
Don Joseph Ndoum

Pasqua e Missione:
dalla passione di Cristo alla risurrezione dell'uomo

At 10,34.37-43; Sl 117; Col 3,1-4; 1Cor 5,6-8; Gv 20,1–9

Riflessioni
Il messaggio universale e missionario delle feste pasquali è evidente: Pasqua è il passaggio dell’uomo-Dio dalla morte alla vita; è l’annuncio di un Dio che muore in croce e che risorge, perché tutti i popoli abbiano vita in abbondanza (cfr. Gv 10,10)! Pasqua è la chiave di lettura del mistero più drammatico e sublime: il mistero della morte e della vita. L’avventura del Dio-in-carne-umana culmina sul Calvario e trova luce nel sepolcro vuoto: perché Cristo è risorto! Una vita nuova è cominciata in Lui; un nuovo modo di vivere, sperare e amare è iniziato anche in tutti coloro che credono in Lui. Da allora, è nato un nuovo modo di rapportarsi: con Dio, con gli esseri umani, con il cosmo, con le forze del bene e quelle del male. Nuovi rapporti, nuovo stile di vita, nuove certezze, nuovi metodi e strategie. Il mondo non può essere lo stesso, come se Cristo non fosse risorto. Che cosa è cambiato? Cosa può, anzi, cosa deve cambiare? E chi sarà l’operatore di queste trasformazioni? Con quale forza? Su quali basi? Con quali criteri? Tutte queste domande, aggravate dalle attuali situazioni di pandemia e di guerra, hanno una sola risposta: una vita migliore è possibile per colui che crede in Cristo, morto e risorto.

Dall’esperienza di vita nuova in Cristo nasce anche l’impegno missionario dell’annuncio e della condivisione. La missione universale a tutti i popoli nasce dalla Pasqua. Infatti, nelle apparizioni dopo la risurrezione Gesù fa l’invio degli apostoli alle genti e al mondo intero: Mt 28, Mc 16, Lc 24, Gv 20. (*) Dall’esperienza gioiosa di adesione al Risorto nasce il gioioso servizio ai fratelli; nasce e si rafforza l’impegno della missione. Credere nella risurrezione di Cristo esige impegnarsi per la risurrezione dell'uomo.

Mi ha colpito in questi giorni rileggere il dialogo tra due rinomati cristiani del nostro tempo: il patriarca Atenagora e Olivier Clément, due membri eminenti delle Chiese ortodosse, ambedue impegnati sul fronte della fraternità e dell’ecumenismo, in dialogo sul senso e le conseguenze della fede nella risurrezione di Gesù per la vita del mondo e per la Missione della Chiesa. Il testo che segue raccoglie alcune battute dei loro intensi dialoghi, che illuminano bene il momento presente che viviamo.

« - I grandi problemi, i problemi tragici che si pongono all'umanità odierna, come collegarli al miracolo della risurrezione?

- Un terzo dell'umanità ha fame. Alla fame dei corpi si unisce quella delle anime: due terzi della popolazione del globo non hanno ancora imparato a conoscere il nome di Cristo. Nei paesi che si dicono cristiani, regna una massima divergenza tra il Vangelo da una parte, e il modo di vivere dei cristiani dall'altra.

Come collegare tutto ciò alla risurrezione? Ma è di un'evidenza lampante! I sedicenti cristiani non vivono la risurrezione, non sono dei risorti! Hanno perduto lo Spirito del Vangelo. Hanno fatto della Chiesa una macchina, della teologia una pseudo-scienza, del cristianesimo una vaga morale. Ritroviamo, riviviamo la teologia rovente di san Paolo: «Come Cristo è risorto dai morti, così noi, i battezzati, dobbiamo condurre una vita nuova» (cfr. Rom 6,4). Se coloro che credono nel Risorto portano in sé questa potenza di vita, allora si potranno trovare soluzioni ai problemi che angosciano oggi gli uomini...

Si tratta innanzitutto di formare l'uomo interiore, di renderlo capace di un'adorazione creatrice. Abbiamo bisogno di persone che facciano l'esperienza, nello Spirito Santo, della risurrezione di Cristo come illuminazione del cosmo e senso della storia. Da quella forza interiore scaturirà uno slancio che darà senso ai valori umanitari, alle grandi idee sociali... È tutto qui: inaugurare in sé una vita nuova, rivestirsi l'anima di un abito di festa. Allora avremo le mani colme di doni fraterni per chi soffre sia la fame del corpo che quella dell'anima».

« - Ma dove trovarlo, il Risorto, per entrare in comunione con Lui in modo che fiumi d’acqua viva possano scaturire da noi, come dice il Vangelo?

- Cristo è dappertutto. Dalla risurrezione in poi, tutta la vicenda umana si svolge in Lui, lo cerca, lo celebra, lo combatte, lo nega, lo ritrova. La sua presenza segreta, la rivelazione che ci porta, sono diventate il fermento dell'intera esistenza umana. Ricordate il cap. 25 di Matteo: “Ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare... Ogni qualvolta avete fatto questo a uno di questi minimi tra i miei fratelli, lo avete fatto a me”? San Giovanni Crisostomo ci dice che il povero è il sacramento del Cristo, che Cristo s’incarna nel povero. Cristo è presente ogni volta che si verifica un vero incontro, ogni volta che un po' d'amore si manifesta, ogni volta che la giustizia o la verità sono servite con disinteresse, ogni volta che la bellezza dilata il cuore dell'uomo».
(ATENAGORA, patriarca di Costantinopoli, in O. Clément.
Dialoghi con Atenagora, Brescia 1995, pp. 151-155)

Parola del Papa

(*) «“Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete” (cfr. Mc 16,7). La Galilea era la regione più lontana da Gerusalemme. E non solo geograficamente: la Galilea era il luogo più distante dalla sacralità della Città santa. Era una zona popolata da genti diverse che praticavano vari culti: era la «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Gesù invia lì, chiede di ripartire da lì. Che cosa ci dice questo? Che l’annuncio di speranza non va confinato nei nostri recinti sacri, ma va portato a tutti. Perché tutti hanno bisogno di essere rincuorati e, se non lo facciamo noi, che abbiamo toccato con mano «il Verbo della vita» (1 Gv 1,1), chi lo farà? Che bello essere cristiani che consolano, che portano i pesi degli altri, che incoraggiano: annunciatori di vita in tempo di morte! In ogni Galilea, in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene, perché tutti siamo fratelli e sorelle, portiamo il canto della vita!».
Papa Francesco
Omelia nella Veglia pasquale, 11.4.2020

P. Romeo Ballan, MCCJ
Buona Pasqua a tutti!

Pasqua
Maria di Magdala, Pietro e “l’altro discepolo”

Commentario a Gv 20, 1-10

In questa Domenica di Pasque, leggiamo la prima parte del capitolo 20 del vangelo di Giovanni, in cui troviamo una comunità di discepoli formata da tre protagonisti: Maria di Magdala, Pietro e Giovanni (Chiamiamolo così, secondo la tradizione, questo “altro discepolo”). I tre, oltre a essere se stessi, rappresentano noi e tanti altri discepoli che volgiamo imparare dal nostro Maestro come avere la vera vita. V’invito a leggere questo vangelo con calma, meditando lentamente, per cercare di scoprire il suo messaggio più profondo a partire dalla vita. Da parte mia mi trattengo brevemente in ognuno di questi “personaggi”:

1. Maria di Magdala: amore fedele e incondizionato

Maria di Magdala (secondo il paese da dove proveniva) era sicuramente una dona straordinaria, con una grande forza interiore. Non conosciamo la sua storia previa, ma sappiamo che aveva incontrato in Gesù un Amico fedele, un Maestro indiscutibile, un Signore di cui fidarsi… Lei l’ha seguito dalla Galilea fino a Gerusalemme, nelle buone e nelle cattive, e è rimasto fedele fino alla fine, e anche aldilà della morte.

Precisamente, nel vangelo di oggi, la vediamo andando al sepolcro, mossa da un’assoluta fedeltà, anche se non sapeva come farebbe con la grande pietra che chiudeva il sepolcro, anche se pensava che il suo Signore ormai fosse morto. Niente di questo era importante per lei, il cui amore era senza condizioni e assoluto. E quell’amore senza confini ebbe il premio di vedere la pietra rimossa e la grazia di vedere Gesù com’era realmente, nella sua realtà più autentica, non più come un uomo morto, ma come i Figlio del Padre, per sempre vivo.

Contemplando questa dona, ci viene la voglia di imitarla nella radicalità del suo amore e di consegnarci totalmente a Gesù nelle buone e nelle cattive, senza condizioni, senza paura delle “pietre” – peccati, fallimenti-contradizioni – che s’interpongono nel nostro cammino, con una fedeltà totale, sapendo, come lei e come S. Paolo, di chi ci siamo fidati, avendo la fiducia anche noi di avere la “rivelazione” di un Gesù che si fa vivo e presente nella nostra vita, nella Chiesa, nel mondo. Ed è solo a partire di questa esperienza di Gesù vivo che noi diventiamo missionari, testimoni davanti a un mondo incredulo.

2. Pietro: un peccatore, che si lascia guidare

Pietro era senz’altro il capo di quel piccolo gruppo di discepoli, ma non sembra che fosse il più credente, né il più lucido, né il più veloce a capire le cose. Infatti, lui non fu il primo ad andare al sepolcro; non fu neanche il primo ad arrivare: era il più lento, coli a chi era più difficile capire le cose di Dio… Ma era umile, sapeva riconoscere i suoi errori; sapeva imparare, aprirsi ad altri e approfittare la loro lucidità.

Contemplando Pietro, molti di noi ci sentiamo rappresentati in lui. Anche noi abbiamo la nostra storia di peccato e d’infedeltà; anche noi facciamo fatica a capire le vie di Dio per la nostra vita; anche noi fatichiamo a credere che Dio sia vivo oggi nel mondo, che Gesù è vivo nella sua Chiesa e nel mondo; anche noi perdiamo fiducia e abbiamo paura di essere ingannati e cadere nella delusione… Ma come Pietro dobbiamo saper aprirci ad altri, farci accompagnare, lasciarci conquistare ancora una volta da Gesù e, come Pietro, dire: “Signore, tu sai che ti amo”.

3. “L’ altro discepolo”

Tra i discepoli c’era uno (chiamiamolo Giovanni) che sembra il più veloce, il più intuitivo, il più capace di percepire la novità di Dio, di credere e vedere quello che è aldilà della superficie. Certe cose, infatti, solo si capiscono con gli occhi dell’amore che ci permette di andare oltre le apparenze.

Anche tra di noi ci sono alcuni che sembrano più veloci e più capaci di vedere i segni dei tempi, di percepire prima il “vento” di Dio che spinge la storia dell’umanità. Questi discepoli sono un dono per tutti, con una condizione però: che sappiano rimanere nella comunità, che non tentino di andare avanti da soli, che sappiano adattarsi ai ritmi degli altri… Soltanto così si costruisce la comunità, soltanto così il Signore si rivela veramente come centro del nuovo progetto di umanità, la nuova creazione, iniziata in questa “nuova settimana”.

In effetti, come Dio ha creato il mondo in una “settimana” simbolica, secondo la Genesi, così adesso Dio sta re-creando il mondo, re-generando l’umanità in questa nova settimana, il cui “agente attivo” è Gesù Cristo, eternamente vivo. Come Maria, Pietro e Giovanni, anche noi crediamo in questa nuova creazione, in questo nuovo giorno che spunta, perché l’amore di Dio è più forte della morte e del peccato.
P. Antonio Villarino
Bogotà

Quel seme di Risurrezione che si scorge in un sorriso
Ermes Ronchi

Maria di Magdala, in quell’ora tra il buio e la luce, tra la notte e il giorno, quando le cose non si vedono ma supplisce il cuore, va’ sola, e non ha paura. Come la sposa del Cantico: lungo la notte cerco l’amato del mio cuore. L’alba di Pasqua è piena di coloro che più forte hanno fatto l’esperienza dell’amore di Gesù: Maria di Magdala, il discepolo amato, Pietro, le donne. Il primo segno è così umile: non un’apparizione gloriosa, ma un sepolcro vuoto nel fresco dell’alba. È poco e non è facile da capire. E Maria non capisce, corre da Pietro non per annunciare la risurrezione del Maestro ma per denunciare una manovra dei nemici, un ulteriore dolore: hanno portato via il Signore. Non abbiamo più neanche un corpo su cui piangere.

Tutti corrono in quel primo mattino: Maria, Pietro, Giovanni… Non si corre così per una perdita o per un lutto. Ma perché spunta qualcosa di immenso, fa capolino, urge il parto di una cosa enorme, confusa e grandiosa.

Arrivano al sepolcro e li aiuta un altro piccolo segno: i teli posati, il sudario avvolto con cura. Se qualcuno avesse portato via il corpo, non l’avrebbe liberato dai teli o dal sudario. È stato altro a liberare la carne e la bellezza di Gesù dal velo oscuro della morte.

La nostra fede inizia da un corpo assente. Nella storia umana manca un corpo per chiudere in pareggio il conto delle vittime, manca un corpo alla contabilità della morte. I suoi conti sono in perdita. E questo apre una breccia, uno spazio di rivolta, un tuffo oltre la vita uccisa: la morte non vincerà per sempre.

Anche se adesso sembra vincente: il male del mondo mi fa dubitare della Pasqua, è troppo; il terrorismo, il cancro, la corruzione, il moltiplicarsi di muri, barriere e naufragi; bambini che non hanno cibo, acqua, casa, amore; la finanza padrona dell’uomo mi fanno dubitare. Ma poi vedo immense energie di bene, donne e uomini che trasmettono vita e la custodiscono con divino amore; vedo giovani forti prendersi cura dei deboli; anziani creatori di giustizia e di bellezza; gente onesta fin nelle piccole cose; vedo occhi di luce e sorrisi più belli di quanto la vita non lo permetta.

Questi uomini e queste donne sono nati il mattino di Pasqua, hanno dentro il seme di Pasqua, il cromosoma del Risorto. Perché Cristo non è semplicemente il Risorto. Egli è la Risurrezione stessa, è l’azione, l’atto, la linfa continua del risorgere, che fa ripartire da capo la vita, la conduce di inizio in inizio, trascinandola in alto con sé: forza ascensionale del cosmo verso più luminosa vita. E non riposerà finché non sia spezzata la tomba dell’ultima anima, e le sue forze non arrivino a far fiorire «l’ultimo ramo della creazione» (M. Luzi).
Avvenire 2016

Amami, risorto
Paolo Curtaz

Non c’è più nulla da vedere, tutto è finito, concluso, compiuto.

È l’epilogo più tragico, inatteso, che i discepoli potessero anche solo immaginare. Il peggiore degli incubi.

Tutto si è svolto in fretta, come un’onda gigantesca che ha travolto ogni cosa in poche ore: Gesù è stato arrestato, processato e crocefisso in una notte. I discepoli non hanno fatto in tempo nemmeno a capire cosa stesse accadendo.

Fine della storia. Ora, storditi, vagano nella città cercando rifugio, spaventati, vedono soldati dietro ogni angolo, la paura li divora. La giornata, dopo la lunga notte insonne e di violenza, scivola lenta.

Un’alba livida li ha svegliati dal sonno irrequieto. Alcuni fra loro cercano gli altri, come possono, con prudenza, col timore di essere riconosciuti, salgono verso la collina di Sion, in quella casa che li ha accolti per l’ultima volta, in cui avrebbero dovuto riposare dopo la preghiera al Cedron se Gesù non fosse stato arrestato. È sabato, il sabato di Pesah. Sentono in lontananza i rumori della festa, le risate e le chiacchiere, i canti che celebrano la vittoria sulla schiavitù.

Ma loro sono legati a pensanti catene.

Il senso di colpa, la paura che mozza il fiato, la follia che si è materializzata e che ha sbranato, insieme al loro inerme Maestro, la speranza. Illusi. Idioti. Vigliacchi.

Nessuno parla. Qualcuno fra loro piange in silenzio.

Il clima è cupo, rabbioso, disperato.

Bussano alla porta.

Corse

Giovanni racconta la corsa delle donne tornate dal sepolcro per avvisare i discepoli.

Hanno rubato il corpo di Gesù! Non sanno cosa fare, passano fra le bancarelle dei mercanti che iniziano la giornata, corrono sul selciato della città ricostruita da Erode, giungono, affannate, alla casa. Chiedono aiuto.

Ora sono Pietro e un altro discepolo a correre.

Il discepolo che Gesù amava, presente nei momenti cruciali nella vita del Signore. Un discepolo che, tardivamente, la comunità cristiana ha identificato con lo stesso evangelista Giovanni. Più probabilmente, invece, quel discepolo è un personaggio collettivo: tutti noi siamo chiamati ad essere quel discepolo amato. Tutti noi siamo chiamati a correre per raggiungere il Signore, tutti siamo chiamati ad andare a vedere.

Corrono, Pietro e il discepolo. Corriamo anche noi con Pietro dopo l’annuncio delle donne.

Giungono al sepolcro: la tomba è davvero vuota, il sudario, la sindone, le bende, come svuotati e riposti con ordine. Vedono solo segni di morte, solo cose che hanno a che fare con la morte. Nulla di vitale, nulla di decisivo.

Segni di morte, non c’è nessuna evidenza.

Pietro di ferma. Il discepolo amato no. Vede e crede.

Evidenze

Non è evidente la fede. Non è evidente la presenza del Signore. Non è evidente la gioia che invade il cuore del discepolo amato. Non hanno ancora capito la Scrittura. Dai segni devono risalire al significato, risalire alla luce nascosta dietro gli eventi. Ogni evento.

Capiranno, certo, ci vorrà lo Spirito per spalancare la loro capacità di capire e leggere al di là dell’apparenza. Ma capiranno.

È ancora lì quella tomba vuota.

I romani l’hanno prima nascosta sotto un terrapieno. Poi è stata messa al centro di un’immensa basilica più volte distrutta. Akim il folle decise di raderla al suolo, scalpellandola. Oggi è meta di centinaia di migliaia di pellegrini che varcano la porta consumata dai secoli per accedere per qualche istante in quel che resta della tomba scavata nella roccia, inginocchiandosi davanti alla pietra che accolse il corpo del Maestro.

Solo pietre. Solo una tomba, vuota, per giunta.

Segni di morte che vanno interpretati, se vogliamo.

Risorti

Gesù è risorto, smettetela di fargli il funerale, di chiuderlo dentro le teche, di stordirlo di incensi e canti lamentosi. La croce era solo un passaggio, una collocazione provvisoria. È altrove, fidatevi.

Non rianimato o presente nei nostri ricordi. È il per sempre vivente, risorto da morte.

Vedrete sempre e solo dei segni, nella Chiesa, nel mondo. Sarà la fede a dar loro vita. Sarà quella corsa ad osare, a smuovere, a convertire i cuori ancora pesanti.

È lo sguardo che determina l’ottimismo cristiano che sa vedere oltre il mondo che implode, oltre l’incomprensione, oltre la violenza.

Lo sguardo.

Amami, Signore risorto. Amami come hai amato i tuoi discepoli, al di là delle mie incongruenze, dentro i miei limiti, oltre i miei tradimenti, amami. Perché tu mi ami come nessuna ama e come io stesso non riesco ad amarmi. Amami, splendido Dio, perché tu sei l’Amore e non puoi che amare. Che Pietro mi porti fino al sepolcro. Che io veda che quella tomba è vuota. Che io senta che quel dono totale di te era la misura dell’amore che hai per me.

Amami, Signore risorto.

Gli occhi della fede 
Antonio Savone

Ciascuno di noi porta nel cuore la segreta convinzione che alcune situazioni debbano andare necessariamente in un certo modo. Sembra quasi che nulla possa di fronte alla ineluttabilità di certi eventi. Forse che possiamo impedire alla morte di mietere vittime pur desiderando farlo?

Eppure, il mattino di Pasqua, qualcosa interruppe questo meccanismo secondo il quale non si poteva fare altro che imbalsamare un morto.

Le donne, pur essendosi affrettate per compiere ciò che non erano riuscite ad ultimare il giorno prima, “non trovano il corpo di Gesù”.

Lo stesso per la Maddalena: va a cercare il corpo di chi le aveva ridato la dignità di poter ricominciare a vivere, ma invano, il sepolcro è vuoto. Così Pietro, così Giovanni. Si misurano con qualcosa che ha preso tutt’altro corso rispetto al dovuto.

Chi ha portato via il corpo dell’uomo crocifisso? Come ha potuto rimuovere un masso così pesante il cui spostamento faceva problema alle donne? E quelle bende? E il sudario?

Se leggiamo le cose solo con gli occhi del nostro corpo, non riusciamo a darcene una spiegazione. Abbiamo bisogno, invece, di guardarle aiutati dalla luce di ciò che Gesù aveva promesso: “Il Figlio dell’ uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risusciterà” (Mt.17,2). Come a dire: è vero, i fatti sono andati in un certo modo ma la potenza del Signore ha fatto che sì che essi conoscessero un altro sbocco che va oltre quello che voi riuscite a registrare.

Gli apostoli hanno rimosso quella parola, proprio come accade a noi quando un evento luttuoso finisce per ottundere la mente e raggelare il cuore. Fosse dipeso da loro – fosse dipeso da noi – le cose avrebbero dovuto avere tutt’altro corso perché quel Gesù potesse ancora risultare credibile. Per loro come per noi è incomprensibile una fine come quella.

Proprio la loro cecità e la loro tristezza sono lì a ricordare che la vita non può essere letta solo come una cronaca di eventi contraddittori e scomposti.

Gli occhi della fede sono gli unici in grado di riconoscere che certi macigni possono essere rimossi.

Gli occhi della fede sono quelli capaci di intravedere Dio stesso all’opera nella vita di tante persone.

Senza questi occhi continuiamo ad usare soltanto pietre sepolcrali dietro le quali seppellire persone, speranze, futuro e forse anche noi stessi.

Senza gli occhi della fede, le relazioni si nutrono di discordie, di egoismi, di incomunicabilità, di barriere e divisioni di ogni genere.

Senza gli occhi della fede, la vita è un lento e progressivo irrigidimento verso tutti.

Sta a noi scegliere se vogliamo continuare a vivere nel sepolcro e a tenere vivo soltanto il culto delle cose morte perché passate.

Perché sia Pasqua non basta celebrare in una chiesa questa solenne liturgia mentre continuiamo, per scelta, a restare appesi alla croce del nostro immobilismo o a tenervi appeso coloro dai quali abbiamo distolto lo sguardo e il cuore.

Spetta a noi, abitati dalla luce e dalla forza della Pasqua, far sì che gli eventi prendano un altro corso.

Stupito, Fabrizio De Andrè cantava: “Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”.

Abbiamo tutti bisogno di rimodellare la vita e i nostri rapporti alla luce della Pasqua. Nel giorno della Risurrezione dai morti saremo accomunati a quanti oggi, forse, disprezziamo o non consideriamo. Come vorremo comparire davanti al Signore, perpetuando conflitti o provando a lavare le vesti della nostra discordia nel sangue di chi “ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia”?

Siamo figli della Pasqua se già ora, già qui anticipiamo qualcosa di ciò che vivremo in pienezza alla fine della storia.

Se un uomo e una donna sono in grado di camminare nella fedeltà del dialogo e del perdono reciproco, Cristo risorto è in mezzo a loro.

Se siamo disposti a ridare speranza a chi l’ha perduta, si rinnova il miracolo della risurrezione e della pietra rimossa dal sepolcro.

Se siamo in grado di operare un servizio generoso e senza interessi di parte per il bene della famiglia, della comunità civile ed ecclesiale, noi diffondiamo la luce e la novità di una vita nuova, redenta e pacificata: la vita nuova che viene dal Vangelo e che attesta la forza della Risurrezione di Cristo.

Il Risorto è all’opera ogni volta che qualcuno di noi scegliere di alimentare la fiamma tremula di una vita in pericolo.

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