Fratel Enrico Gonzales, responsabile della «Tenda d’Abramo» a N’Djamena in Ciad

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Mercoledì 21 aprile 2021
A partire dagli anni 2000, Boko Haram ha sconvolto la vita delle regioni sul Lago Ciad Insicurezza alimentare: la mancanza di cibo, la malaria e le malattie gastroenteriche sono ancora molto diffuse. 
In tempi di pandemia, è molto difficile far rispettare le regole sanitarie, c’è una specie di fatalismo, ma i morti causati dalla pandemia sono ancora molti. [Fratel Enrico Gonzales, missionario comboniano, responsabile della «Tenda d’Abramo» a N’Djamena in Ciad]

Ciad, un Paese stretto
fra terrorismo, Covid e povertà

Due lettere «i» e «n» prefiggono da un anno a questa parte la parola «sicurezza» trasformandola in «insicurezza»: la pandemia del Covid-19 ha sconvolto il nostro modo di vivere e comprendere la realtà. Da una presuntuosa sicurezza, che garantiva il «benessere» dell’Occidente, facendo aumentare le ineguaglianze, il Covid-19 con il suo carico di sofferenze e morti ci sta obbligando ad una seria riflessione sul nostro modo di vita: sicurezza oggigiorno assume paradossalmente significati del tutto inaspettati e nuovi.

Dal punto di vista del Sud del mondo, per esempio di un Paese quale il Ciad, cosa significa questa parola? Per parlare di sicurezza in riferimento al Ciad penso che sia significativo dare alcuni esempi concreti di come essa si articola nel quotidiano. È necessario articolarla da due punti di vista, che non si escludono l’un l’altro, al contrario, sono complementari. Quello che sottolinea la sicurezza dal punto di vista militare, e quello che evidenzia una pluralità di significati a partire dal rispetto della dignità della persona.

Se volgiamo l’attenzione all’aspetto militare della sicurezza, il Ciad, a partire dagli anni 2000, si è trovato ad affrontare un fenomeno terroristico – Boko Haram – che ha sconvolto, con il suo carico di morte, la vita delle regioni sul Lago Ciad, terreno preferito delle azioni terroristiche. È tutta la vasta regione dell’Africa centro-occidentale a pagare un prezzo altissimo alle azioni militari di lotta al terrorismo con gravi conseguenze anche in termini sociali, culturali, economici. Mi soffermerò su due situazioni di mia diretta conoscenza.

Gli sfollati interni

Una mia cara amica, lavorando per la Caritas Ciad, è stata nella regione del Lago per lavorare in uno dei campi di sfollati interni messi su dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Ha lavorato in uno di questi campi con della gente che fino a poco tempo prima viveva dignitosamente nei villaggi della sponda ciadiana del lago. Non sono popolazioni ricche, sono pescatori e vivono anche di piccolo commercio: sradicati dal loro villaggio, ramazzando le poche cose da mettere su un camion che li ha portati nel campo dell’Alto Commissariato, sono stati, secondo l’Armé e lo stesso Commissariato, messi in «sicurezza» dagli attacchi di Boko Haram.

Un secondo esempio ci viene dall’azione della Chiesa cattolica, che cerca di essere presente nei villaggi dove una sparuta minoranza di cristiani vive accanto ai loro connazionali musulmani.

Ho il piacere di conoscere – ed apprezzare – due sacerdoti della diocesi di N’Djamena incaricati della «diaspora», cioè seguire pastoralmente una volta ogni due mesi queste comunità. Non è facile viaggiare nel deserto pietroso del Ciad nord-occidentale, finché non è stagione delle piogge va ancora bene, ma quando piove allora bisogna che San Cristoforo faccia gli straordinari!

La difficile vita quotidiana

Passiamo ora ad alcuni esempi di (in) sicurezza vissuti quotidianamente dalla gente. Il primo è quello dell’accesso all’acqua, alla sanità di base nei quartieri popolari della capitale N’Djamena. A causa dell’urbanizzazione sfrenata, le aree periferiche della città soffrono di una carenza grave di questi servizi primari. L’acqua viene acquistata a caro prezzo da venditori ambulanti, senza alcuna garanzia sanitaria con il suo carico di malattie varie. L’insicurezza alimentare – carenza di cibo, accesso ad una alimentazione corretta – è un problema ricorrente perché, almeno nella capitale, i prezzi dei generi alimentari sono alti, così come anche in Ciad sono in vendita alimenti contraffatti e dannosi alla salute.

Durante la stagione delle piogge, malaria e malattie gastroenteriche sono diffusissime. In questi tempi di pandemia, nonostante gli sforzi di vari attori, resta molto difficile far rispettare in pieno le consegne di salvaguardia della salute, vuoi perché c’è una specie di fatalismo (ma i morti da Covid ci sono, eccome), sia perché carenze strutturali (quali l’affollamento abitativo, la carenza di servizi igienici e d’acqua) complicano il quadro.

L’elenco delle insicurezze, della precarietà è lungo. Quello che colpisce – in bene – è la capacità di resistenza, di trovare soluzioni a problemi di varia natura che fanno sì che la precarietà sia la norma e una seppur debole sicurezza è garantita grazie alla rete informale della famiglia.

Queste brevi riflessioni ci hanno portato lontani geograficamente, verso un Paese, il Ciad, che non ha molta pubblicità sulla stampa occidentale. La lontananza geografica non deve impedirci nell’avere un atteggiamento almeno di curiosità verso chi vive in situazioni completamente diverse dalle nostre. La sicurezza ha bisogno d’essere declinata tenendo conto di un valore fondamentale e, oserei dire, imprescindibile: la dignità della persona.

Se l’affermazione di papa Francesco «Fratelli tutti» ha senso, essa ci offre l’orizzonte, la rotta verso cui viaggiare, perché la sicurezza è un bene da condividere, un qualcosa non di astratto, ma che ci rende tutti fratelli perché, in definitiva, tutti noi viviamo la primordiale condizione umana e ciò ci obbliga a immaginare, proporre, vivere percorsi di vita perché che questa parola – sicurezza – diventi sempre più vera.

«Tenda d’Abramo» a N’Djamena in Ciad.

La «Tenda di Abramo»

Spiegare cos’è «La Tenda d’Abramo», significa prestare attenzione a come il dialogo interreligioso è praticato in un Paese, il Ciad, dove metà della popolazione professa l’Islam. Quanto segue non è un’analisi dettagliata della pratica del dialogo in Ciad, bensì un modesto contributo, grazie alle attività della «Tenda d’Abramo», della pratica del dialogo nel contesto della capitale ciadiana, perché il dialogo è problematico, è una sfida, è un uscire da se stessi per incontrare l’altro.

Una risposta

La «Tenda d’Abramo» è un centro fondato nel 2006 dai Missionari Comboniani. È un’organizzazione della Chiesa cattolica dell’arcidiocesi di N’Djamena, che opera nel quadro del dialogo interreligioso. Negli anni Novanta, dietro richiesta dell’allora arcivescovo di N’Djamena, mons. Vandam, i comboniani risposero aprendo una comunità finalizzata al dialogo e alla pastorale urbana nel quartiere di Amr Riguebe, un quartiere a Nord della capitale ciadiana a maggioranza musulmana.

La scelta del quartiere non è stata casuale: il Ciad usciva, con grande difficoltà, da una sanguinosa guerra civile, che aveva polarizzato le due comunità di credenti. La presenza di missionari cattolici in un quartiere come Amr Riguebe voleva significare – e significa tutt’oggi – la volontà di farsi vicino ai credenti musulmani.

Aver piantato «la Tenda» ad Amr Riguebe, nonostante i limiti e le difficoltà, significa vivere e condividere il quotidiano con chi professa un altro credo religioso: è significativo che i comboniani responsabili della Tenda conoscono e parlano Arabo. La Tenda si propone come spazio umano, culturale, relazionale di crescita per favorire i valori del vivere insieme.

Nel corso degli anni la promozione di un clima di conoscenza, ha fatto sì che il progetto educativo della Tenda, pur nella povertà dei mezzi a disposizione, abbia favorito percorsi ed iniziative educative per la pace ed il dialogo, ponendo al centro la dignità della persona e la sua crescita umana e spirituale, favorendo in questo modo, quel dialogo interreligioso nel quotidiano di cruciale importanza oggi.

Obiettivo giovani

Il mondo giovanile è l’obiettivo prioritario, essendo i giovani operatori e attori della trasformazione sociale e culturale del Paese. Un semplicissimo elenco delle attività della «Tenda d’Abramo» ci permette di comprendere l’azione educativa svolta dalla Tenda: la settimana culturale, il campo del dialogo, la celebrazione della giornata della coabitazione pacifica, le conferenze sulla pace, il dialogo, la formazione umana, una lettura della realtà sociale, economica, culturale del Ciad e del mondo in generale. In questo modo facciamo nostro il desiderio d’accogliere la parola-Parola che si radica nel nostro quotidiano e che diventa segno di speranza, d’amicizia, di pace.

A questo proposito mi piace ricordare che alla «Tenda d’Abramo», a seguito della pubblicazione del documento segnato da papa Francesco e dallo sheikh Al Azhar Fraternità umana lo abbiamo presentato in una conferenza pubblica grazie al contributo di relatori cristiani e musulmani ed essa ha visto una folta partecipazione dei giovani. Prima della pandemia da Covid-19, i giovedì (dedicati alle conferenze pubbliche) e i sabati (dedicati al cineforum con film connessi al programma scolastico di V liceo) hanno sempre visto una buona presenza dei giovani che nel cortile, nelle sale di studio, in terrazza, interagiscono, studiano, pregano.

Personalmente conservo come una cosa bella e preziosa le volte che nel cortile della Tenda, discuto, chiacchiero (in francese o arabo) con i ragazzi/e che sono li. È bello ed importante incontrare le studentesse dei licei del quartiere o dell’università che vengono alla Tenda per studiare, armate di tutto punto con thermos di caffè ed acqua e sistemarsi nell’hangar o sulle natte e trascorrono i caldi pomeriggi di N’djamena studiando, pregando, stando insieme. Queste scenette di vita riguardano ragazzi e ragazze ciadiani che, almeno nel cortile della Tenda, mettono da parte le differenze, nel reciproco rispetto, e partecipano attivamente alle iniziative culturali e sociali proposte dalla Tenda.

Purtroppo la pandemia ha colpito il Ciad non in maniera drammatica come altrove, ma siamo stati costretti a fermare la Tenda per alcuni mesi e a limitarne al massimo la frequenza: era triste vedere il cortile della Tenda vuoto o con pochissimi giovani che studiavano, essendo tutte le attività bloccate dalla pandemia.

Come comboniano sono contento perfino orgoglioso d’essere responsabile della «Tenda d’Abramo». Finora ho presentato le sue iniziative, ma esse non sarebbero possibili senza l’attiva partecipazione e coinvolgimento della piccola equipe con la quale condivido il lavoro; sono ciadiani, hanno differenti mansioni, insieme, però, cerchiamo di realizzare quanto ci viene chiesto per il bene dei giovani che vengono alla Tenda.

Far retrocedere le incomprensioni

In questo mondo che sembra aver cessato d’essere la casa comune, nessuna iniziativa sarà troppo modesta per far retrocedere le incomprensioni, le tensioni, le paure. I credenti sinceri sono chiamati a lavorare e cercare le vie più belle e vere affinché le religioni cessino di essere in conflitto tra loro.

Il decentramento, uno sguardo critico sull’altro, sono le condizioni minime per mettersi all’ascolto dell’altro, ad accoglierlo, tentare di comprendere e rispettare le differenze. La presenza della Tenda a Amr Riguebe è segno – piccolo – di quella dinamica dell’incontro cara a papa Francesco alfine di diffondere una proposta educativa volta a contribuire alla realizzazione di un Ciad dove la convivialità delle differenze sia positivamente vissuta. Il cammino è lungo, irto di difficoltà, alla Tenda ci proviamo, spinti da un profondo desiderio d’amicizia e vicinanza per il bene di tutti i giovani ciadiani.

I molti volti dell’Islam ciadiano

Il Ciad, al centro dell’Africa, ha avuto un ruolo significativo nell’accettazione e nella diffusione dell’islam. Oggi c’è una lotta tra le tendenze wahhabite e quelle più moderate. Per paura del fondamentalismo le autorità hanno vietato burqa e turbante. Il sermone del venerdì, le radio e le scuole coraniche sono controllate dai servizi di sicurezza.

Il dialogo interreligioso

Tentare di comprendere come l’islam abbia una importanza fondamentale per la maggioranza dei ciadiani, significa ripercorrere, seppur a grandi linee, la storia della sua presenza, diffusione ed impatto su questo Paese dell’Africa centrale.

Partiamo da una constatazione di natura geografica: il Ciad è posto al centro dell’Africa, confinante a nord con la Libia, ad est con i due Sudan, a sud con la Repubblica Centrafricana, a ovest col Camerun, Niger, Nigeria. Questa posizione di «piattaforma», di punto d’incontro tra popoli, culture differenti ma professanti un’unica religione – l’islam, appunto – ha fatto sì che nel corso dei secoli il Paese abbia sempre avuto un ruolo significativo circa l’accettazione, diffusione e presenza dell’islam.

In effetti, il Ciad è il «trait-d’union» tra l’Africa centro-occidentale, quell’orientale con una proiezione verso l’Arabia Saudita. Lungo le rotte sahariane che conducono all’Egitto e Sudan del Nord, a partire dalle coste dell’Africa occidentale, ai sacri luoghi di Mecca e Medina (il pellegrinaggio, a cui sono tenuti, almeno una volta nella vita, tutti i musulmani adulti), l’islam ha preso piede, è la cultura-religione che dà senso alla vita di milioni di persone.

Tante le influenze culturali e politiche

Questo rapidissimo schizzo ci permette di comprendere un aspetto importante dell’islam ciadiano: sebbene professi l’autentico credo islamico, con i suoi riti, preghiere, oggi conosce una molteplicità d’influenze – culturali e politiche – che rendono complicata una sua comprensione unitaria.

Per esempio, una cosa è professare la fede musulmana in una moschea di Amr Riguebe: tradizione e conformismo sono il «pane quotidiano» dei predicatori di queste moschee di quartiere. Un’altra cosa è la predica del venerdì alla moschea centrale di N’Djamena, dove spesso il presidente e gli alti dignitari civili e religiosi pregano: qui la predica dell’imam è molto convenzionale e priva di qualsiasi accento critico verso il governo.

Ancora: ad Abeche, la «culla» dell’islam in Ciad, nelle moschee mai e poi mai si accenna alla situazione critica a causa della situazione socioeconomica: il fedele musulmano è chiamato a professare la sua fede e ben difficilmente – al di là di un rapporto personale – le due comunità partecipano e condividono avvenimenti significativi della loro vita religiosa e sociale. Se poi rivolgiamo la nostra attenzione al Ciad meridionale – dove i musulmani sono una minoranza – il discorso cambia completamente. Dispiace dirlo, ma la paura, il timore, il mantenersi a distanza (sebbene si proclami che si è fratelli e che non ci sono differenze tra credenti) siano i sentimenti reciproci e, chiaramente, il discorso pubblico risente di questa situazione.

La confraternita Tijaniyya

Allora cos’è questo islam ciadiano?

Storicamente l’islam è segnalato un Ciad dal secolo XI, nel reame del Kanem-Bornou, che comprendeva l’intero Bacino del Lago Ciad. Era un islam della corte e non interessava affatto la popolazione, diviso com’era in differenti confraternite. Nel reame del Ouddai la Qadiriyya erede dell’islam proveniente dal Sudan, nel Bahr-El-Gazhal, nel Tibesti la Sanussiyya prese piede, dopo l’espulsione dei suoi adepti dalla Libia ad opera degli Italiani.

Essa sarà decapitata dai Francesi al momento della loro conquista del Ciad. I Francesi favoriscono la presenza della confraternita dei Tijanni, che sarà l’espressione più importante e significativa dell’islam in Ciad: la Tijaniyya è di scuola Malekita ed è ampiamente influenzato da correnti religiose dei paesi confinanti (Sudan e Libia), del Maghreb e Medio Oriente (Egitto, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi), Turchia.

A partire dagli anni Ottanta e Novanta si assiste ad un significativo aumento dei contatti tra l’Africa subsahariana e il mondo Arabo. La scelta da parte dello Stato ciadiano nel 1982 d’adottare l’Arabo come seconda lingua ufficiale, accanto al francese, evidenzia questa dicotomia tra Occidente ed Oriente. Se è corretto affermare che la Libia e gli Stati del Golfo hanno un ruolo-influenza importanti, ancor più significativa è l’influenza del Sudan e dell’Egitto, o anche dell’Iran, e recentemente della Turchia.

La paura del fondamentalismo

La paura del fondamentalismo (importato) ha fatto sì che le autorità abbiano vietato il burqa e il turbante (sebbene nei quartieri musulmani, uomini e donne, ragazzi/e, seguano le norme vestamentarie musulmane, con una varietà d’abbigliamenti interessante). Molte sedicenti associazioni islamiche sono state bandite; il sermone del venerdì, le emissioni radiofoniche, le scuole coraniche sono sul «radar» dei servizi di sicurezza. Così come alcuni predicatori dal Medio Oriente, Pakistan e Afghanistan, sono stati espulsi. C’è una lotta tutta all’interno della comunità musulmana ciadiana tra le tendenze wahhabite e quelle più moderate, per il controllo del Consiglio degli Affari Islamici, dell’economia, dell’insegnamento e predicazione. Queste tensioni hanno come conseguenza l’assenza completa di qualsiasi tentativo di dialogo con i wahhabiti e la loro non partecipazione alle differenti espressioni della società civile.

Mi è capitato, animando le comunità cattoliche sull’islam, di sentirmi dire che è inutile, è una perdita di tempo il dialogo con l’islam, è un’astrazione, ma (qui ci vorrebbe uno psicologo) anche tra cattolici si afferma che «il ciadiano musulmano è mio fratello…», però è lui che ‘mi frega’, che prende il mio posto nell’amministrazione, a scuola, nell’economia, sono i musulmani ad avere il potere e i mezzi economici…

Personalmente rispetto – conoscendo un po’ la storia delle relazioni conflittuali tra ciadiani di credo diverso – ma non l’accetto e dicendolo forte e chiaro, a volte, ricevo dai miei uditori (catechisti, agenti pastorali, studenti e giovani) degli sguardi quasi di commiserazione, come dire, «guarda un po’, questo tipo...».

Il dialogo interreligioso

Si tocca con mano, penso, la necessità ed importanza per la comunità cattolica di assumere criticamente il magistero ecclesiale circa il dialogo interreligioso, perché esso ci dà delle direttive chiare e rispondenti alla situazione locale, di come ci si deve porre di fronte, nella vita quotidiana, a chi professa un credo religioso differente dal mio. Mons. Coudray sj, vicario apostolico di Mongo, nel Nord-est del Ciad, delinea delle piste d’azione e comprensione reciproca, in un impegnativo, difficile tentativo di dialogo: «Conoscersi, vedere l’altro positivamente, collaborare per il bene comune».

Conclusione

La realtà sociale, culturale e religiosa del Ciad è molto complessa: il Paese è in una lenta dinamica di cambiamento da una tradizione ad una post-modernità espressione e risultato dell’influenza della globalizzazione. Non è possibile prevedere cosa sarà l’islam (questo è valido anche per il cristianesimo) ciadiano nei prossimi 10 anni. Le influenze – anche positive – sono molteplici, la situazione geopolitica dell’Africa Centrale e di altre aree religioso/culturali, è in continuo, drammatico mutamento, anche se sembra che tutto sia fermo.

L’auspicio è che la buona volontà, il conoscersi, aiuti a far emergere un panorama religioso plurale, rispettoso dell’alterità, della libertà religiosa, del professare la propria fede senza timore: è un cammino difficile, la speranza e il coraggio ci guidano.
[Fratel Enrico Gonzales y Reyero – Pubblicato da Centro Federico Peirone (Diocesi di Torino), in: La nostra rivista “Il dialogo – al hiwàr”]