Martedì 7 luglio 2020
“Sperando che, anche nel clima del coronavirus, la vita ti sorrida e anche tu sorrida alla vita. Non solo che tu sorrida, ma con ottimismo e speranza, perché so che sei una persona capace di questo. Gli aeroporti sono stati chiusi e ora il Sudan ha rimandato ancora una volta l’apertura dell’aeroporto di Khartoum alla metà di luglio. Colgo l’occasione per mandarti un articolo che ho scritto in questi giorni: “Tentata rapina”. Parla di un fatto che mi è successo nel 1988 ma che, nella mia memoria, è come se fosse successo oggi. Ne stavamo parlando, qui al Cairo, con degli amici che ne erano al corrente e che mi hanno sollecitato a scriverlo. Un fatto di cronaca, tutto vero. Come ho fatto altre volte, lo invio agli indirizzi degli amici, senza pretese, solo per condividerlo”. P. Feliz da Costa Martins.

TENTATA RAPINA

“È ancora lì, appoggiata in alto, dove l’hai lasciata. Da quel giorno, non è più stata usata”. Sono queste le parole con cui, quel pomeriggio, P. Benito mi salutava, mentre entravamo nella casa provinciale dei missionari comboniani a Khartoum. Stavamo arrivando da missioni (parrocchie) molto distanti l’una dall’altra nella vasta geografia del Sudan: lui da Kosti e io da El Facher. Non ci vedevamo da tre anni.

Non disse a che cosa si riferivano quelle parole, ma a buon intenditor poche parole. Infatti, mentre parlava, il mio pensiero era già andato a Kosti. Era lì che era successo. È lì che si trova la lancia, ancora oggi. Appoggiata in alto. Lì dove l’avevo lasciata.

L’anno dopo, 2002, d’estate, ero in vacanza in Portogallo. Un giorno, passando vicino alla casa di mia sorella Dorinda, a Bassar, nel comune di Campo de Madalena, decisi di farle una visita anche per aiutarla – lei, che era da sola – a raccogliere il fieno in un piccolo campo che possedeva vicino casa. Mi misi di buona lena a lavorare con lei. Ad un certo punto, per il caldo torrido e soffocante, mi tolsi la camicia, anche perché così potevo maneggiare più facilmente il falcetto. Dopo un po’, alle mie spalle, sentii mia sorella che diceva spaventata: Oh Gesù, ma cosa ti è successo? Hai una cicatrice enorme sulla schiena! Dove sei stato operato?”. “Non è un’operazione. E comunque ho già dimenticato. Ma dopo, se vuoi, ti racconto la storia con tutti i dettagli” le dissi per tranquillizzarla. Arrivati a casa, ci sedemmo al tavolo della cucina per una merenda alla contadina: “ora ti racconto”, e cominciai.

La figura

Kosti, 1988: la mia prima missione/parrocchia in Sudan. Erano le due e mezza di mattina, quando mi svegliai spaventato, sentendo come un raschiare di ferri vecchi a pochi metri da me. Pensai fossero dei topi o altri animali sul tetto di zinco o il cane nel patio che graffiava la grata del portone. Mentre stavo per riaddormentarmi, mi misi a pensare all’agenda del giorno: safari missionario al centro cattolico/cappella di Sinja. Lunghe ore di cammino su sentieri in cattivo stato. Partiremo al mattino presto. È tutto programmato con i responsabili delle varie comunità. Sarà una giornata di fatica. Se dovesse esserci qualche contrattempo, le difficoltà di comunicazione non ci permetterebbero di cambiare il programma all’ultimo momento. Ma dovrebbe andare tutto bene, inshallah, se Dio vuole.

Di nuovo, il sonno fu interrotto dallo stesso rumore. Rrrrrrrrrrr! E si ripeté per tre volte a distanza di cinque o sei minuti. Decisi di vedere di cosa si trattava. Scalzo, senza accendere la luce e senza fare il minimo rumore per non svegliare i confratelli, scesi nel patio ma era tutto tranquillo. Così decisi di tornare a letto ma, appena entrato nella veranda, sentii di nuovo lo stesso rumore. Mi fermai, scrutando nell’oscurità e, dopo qualche secondo, di nuovo... Rrrrrrrrrrr. Ormai non avevo più dubbi. Poteva provenire solo da lì. Continuando a guardare mi accorsi di qualcosa che si muoveva. Una figura. Avanzava molto lentamente dal giardino alla veranda. Sto sognando? Come può entrare da lì? So bene che non ci sono porte.

La parete trasparente

Rimasi pietrificato. Volevo gridare al ladro! Correte! ma avevo la lingua paralizzata. Dalla gola mi usciva solo un grido acuto e stridente, come il grugnito di un animale. Udendo quello strano suono, la mostruosa apparizione alzò in alto il braccio nella mia direzione agitando un pugnale che vidi brillare alla luce della luna. Che fare? In certi momenti della vita alcune domande sono inutili. Ebbi una reazione istintiva e involontaria. Mi lanciai di testa contro quel fantasma. Come un toro contro la mantella rossa del torero. E poi? Non lo so e non l’ho mai saputo. Non fui più padrone di me stesso. I confratelli, Benito e Menegazzo, mi trovarono sdraiato per terra. La stanza era illuminata. La loro presenza mi fu di grande consolazione.

Cercavano di sollevarmi da terra e si chiedevano che cosa era successo. Volevo dire qualcosa ma avevo la lingua imprigionata. Ero stordito, anche se non avevo dolore. C’era sangue sul pavimento e sulle pareti. C’erano sedie rovesciate, sporche di rosso. Era sangue mio? O del fantasma che nel frattempo era fuggito? In quel momento vidi le suore comboniane che si avvicinavano. Ansimanti e afflitte. La loro casa è attaccata alla nostra. “Abbiamo sentito un grido e siamo corse”, raccontarono due giorni dopo.

Intanto, mi accorsi che muovevo il braccio e indicavo il lato da dove avevo visto entrare il ladro. Era lì che c’era la grande parete trasparente (una grata molto fitta) che separava il giardino dalla veranda e ci accorgemmo che era lacerata dall’alto in basso.

P. Benito sembrava il più preoccupato e cominciò ad esplorare tutti gli angoli della casa. Smise solo quando gli assicurai che era fuggito... “da quello stesso buco” dissi, indicando lo strappo.

Il pugnale spuntato

Guardando la parete trasparente in pochi secondi la mia mente ricostruì l’accaduto. Il ladro aveva tagliato la rete e pensato di nascondersi dietro il muretto che la sosteneva, aspettando per vedere se qualcuno si fosse svegliato. Ma con me, si era sbagliato. E la storia finirebbe qui. Sarebbe bastato che, uscendo dalla stanza, avessi acceso la luce. Invece non lo feci e quindi nessuno dei due vide l’altro. Per questo la storia continuò. Di fatto l’allarme fu dato dal mio grido animalesco, cosa che lui non si aspettava assolutamente. Per questo alzò il pugnale in alto, per attaccare? Per difendersi? Non lo so, bisognerebbe chiederlo a lui ma sta di fatto che fui io ad essere ferito. Il dolore alla schiena stava aumentando, sarei svenuto se non fossi stato seduto e non avessi avuto suor Giselda, l’anziana della comunità, che mi metteva sotto il naso un bicchierino di grappa dicendomi di inspirare.

Davanti al sorriso un po’ sarcastico di P. Antonio, la buona suora anticipò qualsiasi commento: “ad uso farmaceutico – disse – Dio e la sharia, la legge islamica, sono dalla mia parte. Perfino il mio amico ispettore della dogana, convinto di questo, all’aeroporto di Khartoum ha lasciato passare la bottiglietta che portavo dall’Italia”.

La mattina alle sette, finito il coprifuoco in vigore in quei giorni nella città di Kosti, P. Benito mi portò in ospedale. “La ferita non è profonda; il pugnale doveva essere spuntato” disse il medico, con un tono simpatico, “cinque punti di sutura e sei pronto per tornare a casa”. “El hamdu lillah, grazie a Dio!”, si udì pronunciare da alcuni che erano lì vicino.

Una lancia e un desiderio

Nel pomeriggio, alcuni giovani amici vennero alla missione. Una visita che apprezzai molto. Alla fine, uno di loro disse: “Padre, volevamo stare qualche minuto con te ma non vogliamo andarcene senza lasciarti un ricordo” e scartando un pacco, tirò fuori una lancia. Era nuova di zecca. In un attimo la sollevò all’altezza del capo e, facendo un passo indietro, piegò leggermente il corpo e infine, con un ultimo e nobile gesto, imitò il guerriero che si appresta a lanciarla. Scoppiarono risate e applausi e qualcuno gli disse: “Non puoi negarlo: sei un dinka, della tribù dei guerrieri che hai rappresentato benissimo”. Il giovane ringraziò per il complimento e si voltò verso di me: “Padre Feliz, questa harba, lancia, è il nostro dono”. E con un gesto da cerimonia, l’appoggiò in alto, nell’angolo accanto alla porta. Poi, il giovane dinka pronunciò la frase che custodiva nel cuore: “Il nostro augurio, comunque, è che tu non debba mai usarla”. Mentre un coro di voci aggiungeva: “speriamo che non debba più succedere, inshallah, se Dio vuole”! E io, da parte mia, aggiunsi una nota di apprezzamento e di stima per completare il ritornello: chucran jazilan, grazie mille!

Feliz da Costa Martins
Cairo
1 luglio 2020