Roma, venerdì 12 ottobre 2012
Le comunità della casa generalizia di Roma hanno celebrato la festa di San Daniele Comboni, 10 ottobre, con una solenne Eucaristia presieduta da Mons. John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, Uganda. Concelebrarono con lui P. Enrique Sánchez G., superiore generale, il consiglio generale, i padri delle comunità di Luigi Lilio e quella di San Pancrazio. L’omelia, tenuta dal padre generale, tratta della santità di Comboni che nasce nella e per la missione.
Nella cappella principale della casa generalizia di Roma si è celebrata una Eucaristia per commemorare la festa di San Daniele Comboni. La messa è stata presieduta da Mons. John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, Uganda. Hanno concelebrato con lui il superiore generale dei Comboniani, P. Enrique Sánchez G., il Consiglio Generale e decine di sacerdoti comboniani. L’omelia, pronunciata dal padre generale, è centrata sulla santità missionaria.
“La missione per San Daniele è sempre stata scuola per imparare la santità che non si insegna sui libri di spiritualità o sui compendi di meditazione. E’ la missione con i suoi drammi e le sue bellezze che gli ha insegnato la sensibilità di Dio che si fa comprensibile attraverso l’esperienza del sacrificio, dello svuotamento totale di sé, del vivere con l’unica passione”, ha enfatizzato P. Enrique.
Comboni, ha detto P. Enrique, “non ha avuto il tempo di accorgersi che stava diventando santo” tanto era occupato nella missione.
“Da quando ha deciso di consacrare la sua vita alla missione, non ha risparmiato niente, né tempo, né energie, né quello che più amava in questo mondo. Tutto, tutti e se stesso diventa proprietà della missione; non c’è stata un’altra passione nel suo cuore e non ha saputo vivere per altro”. È a questo tipo di santità che sono chiamati i Comboniani.
A continuazione il testo integrale dell’intervento del Padre Generale.
Da sinistra: P. Umberto Pescantini, P. Enrique Sánchez, Mons. John Baptist, P. Enrico Redaelli.
Omelia di P. Enrique Sánchez González nell’Eucaristia del 10 ottobre 2012
La celebrazione della festa di San Daniele Comboni ogni anno diventa per noi e per tutte le persone che portano nel cuore il dono del suo carisma un’occasione per riflettere sulla chiamata alla santità che tutti abbiamo ricevuto nella vocazione alla vita cristiana. Ogni anno ci troviamo qui in unione con tutta la nostra famiglia missionaria, invitati a non dimenticare che la nostra santità, in quanto comboniana, non può essere altro che missionaria.
Ricordando la vita di San Daniele Comboni in questa giornata, come si trattasse di un film, è facile trovarsi a contemplare un succedersi di immagini, d’avvenimenti, dei momenti della sua vita che ci fanno capire che la sua santità si è costruita nel tempo e attraverso un’infinità di esperienze vissute nella missione e per la missione.
Una santità che nasce nella missione
Comboni non è nato santo; e se è vero che non fa grandi discorsi sulla santità è anche vero che non è difficile scoprire nella sua vita tutto un itinerario di santità che oggi la Chiesa ci propone come cammino sicuro per vivere un autentico incontro con il Signore. Questo itinerario verso la santità e l’itinerario della missione, in Comboni diventano un unico cammino per arrivare a dire con la vita chi è Dio per lui e come è disposto a vivere per Dio.
La missione è vissuta in primo luogo come consacrazione totale alla ricerca del bene dei fratelli e delle sorelle abbandonati. È lo spazio dove il volto di Dio diventa riconoscibile; è il linguaggio che permette di capire il senso della parola amore; è la terra santa dove il Signore si fa vedere. La missione non sono le pianure, i deserti o le foreste di un mondo sconosciuto che si possono visitare per lasciare che il nostro desiderio di avventura si sbizzarrisca liberamente; non è un laboratorio per mettere alla prova la nostra curiosità di conoscenza e nemmeno un universo per realizzare i nostri sogni di filantropia.
Per questo Comboni, quando si riferiva alla missione, non ha dubitato di prendere un distacco da tutti quelli che andavano in Africa come grandi esploratori o per altri interessi. La missione per lui è stato il luogo dell’incontro con il Dio che non l’ha mai lasciato tranquillo, che ha seminato nel suo cuore la sete dell’infinito, che andava molto aldilà di qualsiasi frontiera e lo spingeva a una offerta di sé che oggi noi facilmente chiamiamo santità.
La missione per San Daniele è sempre stata una scuola per imparare la santità che non si insegna sui libri di spiritualità o sui compendi di meditazione. È la missione con i suoi drammi e le sue bellezze che gli ha insegnato la sensibilità di Dio, il quale si fa comprensibile attraverso l’esperienza del sacrificio, dello svuotamento totale di sé, del vivere con un’unica passione.
Si tratta di una santità contenuta nel vocabolario della disponibilità, della generosità, dell’onestà, della ricerca della verità, della riconoscenza dell’altro come fratello. È il linguaggio della giustizia e del rispetto della dignità, spesso dimenticata dai benpensanti della nostra umanità.
La missione è dove si scopre Dio senza bisogno di perdere molto tempo, perché diventa così vicino che è molto difficile non riconoscere la sua voce nel fratello che soffre ed è impossibile non sentirlo in coloro che hanno fatto della vita una festa.
Comboni ci insegna che la missione ci fa diventare santi soltanto se siamo capaci di sviluppare in noi quell’attenzione che ci permette di capire Dio come Qualcuno che ci aspetta nelle persone e nella storia della nostra umanità. La missione è incontro di fratelli che intraprendono il cammino della santità.
“La santità non conosce barriere culturali, sociali, politiche, religiose” e “il suo linguaggio, quello dell’amore e della verità, è comprensibile a tutti gli uomini di buona volontà: li avvicina a Gesù Cristo, fonte inesauribile di vita nuova”, diceva Papa Benedetto XVI domenica scorsa parlando della santità come la prima forma d’annuncio.
Una santità che si vive per la missione
Credo che Comboni non abbia avuto il tempo di accorgersi che stava diventando santo. La sua santità la possiamo leggere oggi noi, guardando come Dio ha saputo condurlo attraverso una storia in cui si scrive di nuovo l’amore che Dio ha per l’umanità.
Comboni ha vissuto come un vero santo, ma era così occupato nella missione a lui affidata che viveva rubando al tempo gli istanti, che sembravano sempre scarsi, per gridare che Dio aveva fretta di entrare nella vita degli africani.
Da quando ha deciso di consacrare la sua vita alla missione, non ha risparmiato niente, né tempo, né energie, né quello che più amava in questo mondo. Tutto, tutti e anche se stesso erano diventati proprietà della missione; non c’era altra passione nel suo cuore e non viveva per altro.
La missione in questo senso diventa territorio di consacrazione, luogo di purificazione, scenario delle grandi lotte interne ed esterne per fare vincere l’amore. Questo altro non è che vera santità.
Per la missione si diventa uomini di Dio, di preghiera, ricercatori sempre insoddisfatti del Signore che sorprende sempre con qualcosa di nuovo, che chiede sempre di più, che ci spinge a confini dove ci sembra che si delinei la frontiera tra il possibile e l’impossibile, dove le parole non servono e ci è chiesto di pagare di persona.
La missione è dove i discorsi non si capiscono e serve la presenza, la testimonianza fatta di piccoli gesti d’amabilità, di servizio, d’attenzione ai più fragili; è esperienza di condivisione solidale per non fare della santità un qualcosa fuori della realtà.
La missione è annuncio della Parola del Dio della vita che diventa gesto di generosità e permette di andare fino alla consegna dell’ultimo respiro, fino alla donazione che si trasforma in enorme desiderio, grido incontenibile che esprime quell’impossibile che Comboni ha saputo esprimere così bene quando ha detto: “perché non ho in cuore che il solo e puro bene della Chiesa e dell’Africa, per le quali darei cento vite, se le avessi” (Scritti 6438).
“Si soffre e si gode altresì pensando che andiamo a portare il Regno di Cristo”. (Scritti 154)
“Dovremo affaticare, sudare e morire; ma il pensiero che si suda e si muore per amore di Gesù Cristo e per la salute delle anime, le più abbandonate del mondo, è troppo dolce per sgomentarci alla grande impresa”. (Scritti 297)
La santità vissuta per la missione è quello che ci rende credibili e che fa apparire con chiarezza che non siamo altro che semplici collaboratori in un progetto che Dio ha disegnato con tanto amore per il bene nostro e di quelli a cui noi siamo inviati.
Chiediamo con umiltà il dono di quella santità che ci aiuti a diventare i missionari di cui ha bisogno oggi il nostro mondo e che la nostra santità si trasformi in un serio impegno nella costruzione del Regno in questo tempo di nuova evangelizzazione, dove mancano testimoni della grandezza di San Daniele Comboni.
P. Enrique Sánchez G., Mccj
La giornata si è conclusa con la cena insieme. Da sinistra: Sr. Giuseppina,
P. Jorge García, Sr. Maria Grazia, e Sr. Benigna.