In Pace Christi

Riva Vittorio

Riva Vittorio
Fecha de nacimiento : 18/09/1912
Lugar de nacimiento : Inzago MI/I
Votos temporales : 07/10/1932
Votos perpetuos : 14/04/1938
Fecha de ordenación : 11/09/1938
Fecha de fallecimiento : 15/02/1991
Lugar de fallecimiento : Rebbio/I

Seduto davanti alla finestra della sua stanza appena messa a nuovo nella casa di Rebbio, p. Vittorio guardava il vecchio albero mutilato dagli anni e dagli uragani, ma ancora vegeto, sul quale saltellavano cinguettando una moltitudine di uccelletti.

Il confratello che era appena entrato in quella stanza per salutarlo e scambiare quattro chiacchiere con lui, ammirava lo spettacolo complimentandosi con p. Vittorio per la scena di sapore tutto francescano.

"Quell'albero plurimutilato e compromesso dagli anni e dalle avversità è tutto il mio mondo, ormai. Anzi, vorrei dire che tra noi due c'è una certa somiglianza che si traduce in cordiale e sincera simpatia. Guai se mi mancasse!".

"E tutti quegli uccelletti che cantano e saltellano che cosa rappresentano?".

"La vita, la preghiera, la gioia di vivere... sapesse quante cose mi dicono, quante meditazioni ci faccio sopra!".

Era il venerdì 22 giugno 1990, festa del Sacro Cuore, giorno dell'inaugurazione della "Casa di riposo" per i missionari comboniani, appena restaurata e ricavata dal primitivo seminario.

Sul volto di p. Riva si era steso un velo di tristezza che contrastava con la vivacità della festa che si celebrava nel resto della casa e in cortile. Tanto per elevare il tono della conversazione, l'interlocutore disse:

"Lei è più simile agli uccelletti che all'albero che li ospita, non le pare?".

"Gli uccelletti... da anni sembrano sempre gli stessi, invece sono sempre nuovi perché i vecchi muoiono per lasciare il posto ai nuovi. Mi creda, in tutta quella vita e quel canto si nasconde la morte. Guardandoli, medito sulla morte, ma non mi fa paura, sa, come non fa paura neanche a loro; non mi fa paura, anzi, qualche volta mi pare perfino di desiderarla".

P. Riva aveva smesso di guardare fuori dalla finestra e ora fissava in volto il confratello mostrandogli un pizzico di simpatia, forse perché questi, pur abitando in un'altra casa, qualche volta andava a trovarlo e si fermava a chiacchierare con lui che aveva fama di "uomo solitario".

"Mi sembra particolarmente triste, oggi, caro p. Vittorio! Su col tempo; è festa!".

"Proprio per questo sono triste. Vede quanti lavori sono stati fatti in questa casa? Cose belle, indubbiamente, cose utili, anzi necessarie. Qualche cosa di diverso e di più funzionale poteva forse essere aggiunto senza troppa spesa, ma - e qui trasse un lungo respiro che era un sospiro - il guaio è che hanno fatto tutto 'loro', senza interpellarci, quasi fossimo degli estranei, della gente che non ha più niente da dire, che non conta, che ha solo bisogno di trovare una stanza e un piatto di minestra per vegetare".

Quelle parole - corrispondevano alla verità? Erano solo esagerazioni? - ferirono profondamente il visitatore.

"Mi accusano che io vivo per conto mio, che non sento la comunità - continuò il Padre. - Sarà anche vero e ne domando perdono a Dio, ma quando uno si sente emarginato, messo completamente da parte, trattato quasi come non esistesse, come può non chiudersi nel proprio buco e attendere la morte con il breviario in una mano e il rosario nell'altra?".

"E' un modo di essere missionario anche questo, anzi, è un modo sublime di esserlo, anche se ho l'impressione che lei stia esagerando. Conosco le persone di questa casa, per cui ho proprio l'impressione che stia esagerando, anche se, indubbiamente, qualcosa di vero ci può essere. Alle volte, vede, non dobbiamo aspettare che gli altri si interessino di noi, ma dobbiamo essere noi i primi a interessarci degli altri, allora le cose funzionano, non le pare?".

"E' vero anche questo, ma io ho una brutta storia alle spalle e questa incide ancora profondamente sulla mia vita".

"Lasci perdere il passato e guardi avanti. La nostra storia, comunque sia, è nelle mani di Dio, di quel Dio che non ha mai smesso e mai smetterà di amarci. Chissà quante volte lei ha detto queste cose alla gente".

Il Padre prese nelle sue le mani del confratello, le strinse forte e disse: "Sì, ha ragione, ma alle volte abbiamo bisogno di sentircele dire noi certe cose... Grazie, grazie".

Manovale a Milano

La famiglia Riva di Inzago era composta da sei persone: quattro figli e i due genitori. Papà Luigi faceva l'agricoltore lavorando alcuni campi di sua proprietà, mamma Doralice Lamperti era casalinga e, nei momenti liberi dall'impegno dei lavori domestici, dava una mano al marito tirandosi dietro i figli.

Vittorio, terminate le elementari, incominciò a fare l'apprendista falegname, ma poi preferì recarsi a Milano come muratore dove si poteva guadagnare qualcosa in più. Ma amava anche la terra per cui, specie nei mesi estivi, dopo il ritorno dal lavoro trovava ancora il tempo di andare nel campo per dare una mano ai genitori.

Ad Inzago, intanto, si verificava una specie di Pentecoste grazie allo zelo missionario del coadiutore, don Giuseppe Calegari che, dall'oratorio, cercava di scoprire i germi di vocazione nascosti nei suoi giovani.

Alla domenica anche Vittorio con i fratelli frequentava l'oratorio dove, con il catechismo, si poteva ascoltare una buona parola e fare una sana ricreazione.

Don Calegari faceva venire spesso dei missionari a parlare ai suoi ragazzi, certo com'era che la parola può diventare un seme fecondo nel cuore di un giovane generoso.

Un giorno un comboniano, dopo aver parlato ai giovani, fece una domanda ben precisa: "Chi di voi se la sente di venire in Africa con me a predicare il Vangelo?".

Vittorio non fu uno di quelli che alzarono la mano di botto dicendo: "Io, io!". Egli preferì riflettere a lungo. Era troppo attaccato ai suoi e sapeva benissimo che andando in Africa avrebbe dovuto abbandonarli. E poi il suo pur modesto guadagno costituiva un aiuto non indifferente alla conduzione della famiglia.

Ma da quel giorno non si sentì più in pace. Quegli Africani in attesa che qualcuno parlasse loro di Cristo gli erano continuamente davanti. E intanto leggeva le riviste missionarie che regolarmente arrivavano all'oratorio.

Don Calegari notò subito il cambiamento di umore in quel suo giovane solitamente allegro, segno che dentro bolliva qualche cosa di importante. E gliene chiese la ragione.

"Sento che il Signore mi chiama alla vita missionaria, don Giuseppe".

"Se devo essere sincero lo sento anch'io. Sei un bravo ragazzo, laborioso, dotato di pietà e spirito di sacrificio. Hai tutte le carte in regola per entrare in un seminario missionario".

"Mi piacerebbe tanto andare in Africa".

"Se devo essere sincero piace tanto anche a me. Anche se è una vita dura che richiede tanta generosità e uno spirito di obbedienza a tutta prova".

"Cercherò di essere obbediente e buono con tutti".

Possiamo qui aggiungere che don Calegari dopo aver indirizzato alla vita missionaria una sessantina di ragazzi e ragazze, un decina dei quali tra i comboniani, anch'egli lasciò la diocesi per farsi comboniano. Fu il fondatore della missione di Kalongo in Uganda.

Missionario

Nel 1927 Vittorio, lasciata la famiglia, entrò nell'Istituto Comboni di Brescia per iniziare le medie. Scrive p. Angelo Dell'Oro: "Ricordo benissimo com'era vestito, cioè alla 'paesana', con calzoni stretti e a mezza gamba. Aveva già fatto il garzone falegname e ultimamente lavorava a Milano, dove si recava come pendolare sul trenino 'gamba de legn' lavorando da 'bocia' nelle prime costruzioni di case moderne sul tipo di alveari umani.

Si è buttato subito con entusiasmo nella nostra vita di studenti missionari. Di spiccata intelligenza, in un anno ha fatto i primi tre anni di ginnasio. Era cordiale, ma asciutto, di forte volontà, ma duretto.

Io ero un anno avanti a lui e, praticamente, insieme abbiamo fatto il nostro iter formativo fino al noviziato. Ci siamo ritrovati a Venegono già sacerdoti quando lui venne a sostituirmi nell'animazione missionaria e nell'economato, essendo io destinato a Crema".

Al termine della quarta ginnasiale risultò il secondo premiato. La sua pagella, sulla quale ci sono solo due sette, è costellata di otto, nove e dieci. Ciò dimostra che oltre ad avere un'ottima intelligenza, Vittorio sapeva applicarsi allo studio come si deve.

Aveva ormai 18 anni. Il superiore, p. Francesconi, gli scontò la quinta ginnasiale e lo mandò in noviziato a Venegono Superiore dove entrò il 12 settembre 1930.

Nella domanda per l'ammissione al noviziato, datata 11 agosto 1930, aveva scritto: "Io sottoscritto, dopo aver passato tre anni nella scuola apostolica di Brescia, chiedo di entrare in noviziato in primo luogo per santificare me stesso con l'aiuto del Signore e della Madonna, e in secondo luogo per prepararmi alla salvezza degli infedeli...".

Chi è stato con lui a Brescia, ricorda un Vittorio allegro, esuberante, buono, studioso e amante della musica. Infatti aveva imparato a suonare l'harmonium abbastanza bene e con la sua bella voce sosteneva il coro.

Nella sua cartella personale mancano i documenti che attestano come si è svolto il noviziato. Ma possiamo pensare che tutto sia andato normalmente se fece la vestizione il 13 novembre 1930 ed emise i Voti il 7 ottobre 1932. Tutto, quindi, secondo le regole e il calendario del tempo.

Formatore di missionari

Dopo i Voti, invece di andare a Verona con i compagni per proseguire il liceo, fu inviato a Sulmona come assistente dei ragazzi in quel seminario missionario. Era piuttosto rigido ed esigente con i giovani, tuttavia la bontà del cuore e l'amore che nutriva per quei futuri missionari supplirono egregiamente al suo temperamento.

Nella domanda per la rinnovazione dei voti annuali, scritta da Verona il 6 settembre del 1933, afferma: "Se in noviziato ho imparato ad apprendere gli obblighi che si assumono facendo i Voti religiosi, in questo anno ho esperimentato questi obblighi più positivamente".

Dopo un anno a Sulmona, fu trasferito a Brescia, sempre come assistente dei ragazzi. Si trovò con gioia in quella casa che aveva visto i suoi primi slanci apostolici e cercò di fare del suo meglio infondendo allegria ed entusiasmo nei ragazzi. P. Cesare Gambaretto, superiore a Brescia in quel periodo, scrisse di lui alla fine del 1934: "Non ho nessuna difficoltà a riguardo di fr. Riva per l'ammissione ai santi Voti".

Nella Chiesa del Sacro Cuore annessa all'Istituto ricevette anche la tonsura dal vescovo missionario mons. Stoppani. Era il 22 gennaio 1935. Nella stessa chiesa, il 3 dicembre di quello stesso anno, ricevette l'ostiariato e il lettorato da mons. Giacinto Tredici, vescovo di Brescia.

Tra il 1936 e il 1937 Vittorio Riva si unì ai suoi compagni che studiavano teologia a Verona. Il motivo del suo cambiamento da Brescia a Verona fu una certa incompatibilità col superiore che imponeva metodi educativi diversi da quelli che Vittorio riteneva più adatti ai ragazzi. E' impossibile sapere chi avesse torto o ragione. Sta di fatto che non si è mai visto un superiore riconoscere i propri errori, e Riva era un uomo che non ammetteva compromessi con ciò che non gli sembrava giusto.

Nel 1937 chiese di emettere i Voti perpetui. P. Federici, superiore a Verona, scrisse in calce alla domanda: "A me si presenta sempre per le sue cosette, mai, però, per manifestarsi. Con me si è sempre mostrato esternamente deferente, né ebbi da fargli rilievi importanti nella sua condotta esterna. Rilevo, però, un po' di durezza di idee".

Un'altra mano ha aggiunto sotto: "Ritardare un anno e mandare a Troia". Così Vittorio si trovò assistente dei seminaristi missionari di Troia. Era un castigo? Forse, ma ciò voleva anche dire che il suo metodo educativo, basato sulla serietà, il senso di responsabilità e una certa rigidezza, non era giudicato negativamente da tutti. A Troia il 14 aprile 1938 emise i Voti perpetui e l'undici settembre del 1938 fu ordinato a Verona.

Insegnante ed economo

Il desiderio di partire subito per la missione era impellente, ma p. Vittorio aveva mostrato doti di intelligenza troppo spiccate e capacità educative non comuni per non essere valorizzato per l'insegnamento e la formazione.

I primi tre anni di sacerdozio furono impegnati nell'insegnamento, prima a Troia, dove si era fatto benvolere anche dalla gente nonostante la sua costituzione spirituale "quadrata", e poi a Sulmona.

Ben presto ci si accorse che quel confratello che da piccolo aveva dovuto misurare al centesimo i soldi del tram per andare e venire da Milano, ci sapeva fare anche come economo. A Venegono c'era appunto bisogno di un economo e di un animatore missionario che sostituisse p. Dell'Oro. E vi fu mandato. Non dimentichiamo che si era in piena guerra con tutte le conseguenze che questa portava specialmente per il mantenimento di un'ottantina di giovani in pieno sviluppo fisico e dallo stomaco in piena efficienza. I sacrifici che il Padre dovette affrontare per battere la zona in cerca di giornate missionarie, con i pericoli della guerra e con la carestia che c'era in giro, furono notevoli. Eppure lavorò con quella forza indomita che gli era connaturale. Se qualche volta brontolava era perché vedeva che qualcuno batteva la fiacca.

La sua attività contribuì notevolmente ad accrescere la cerchia degli amici e dei benefattori, sia tra il clero come tra il popolo, di cui usufruisce ancora oggi la casa di Venegono.

Ma di tanto in tanto scalpitava... Aveva lasciato Inzago per andare in Africa e non per fare il contabile o il cercatore. Terminata la guerra, fu uno dei primi a partire per la missione.

Sette anni di missione

Nel 1946 p. Vittorio Riva fu uno dei primi a partire per l'Africa dopo la fine della guerra. Sua destinazione fu il Sudan Meridionale. Lavorò a Mupoi, a Tombora e a Rimenze. Nelle due ultime missioni ebbe l'incarico di superiore.

Purtroppo non è arrivata neanche una parola, neanche una testimonianza del lavoro svolto dal Confratello in quelle zone. Abbiamo solo alcuni suoi scritti su Nigrizia e i giudizi dei superiori sul suo carattere.

Per chi volesse capire i sentimenti di questo missionario non ha che da leggere la rubrica "I nostri missionari scrivono" su Nigrizia del febbraio 1948. In una lettera da Yambio descrisse la situazione di particolare difficoltà in cui si trovava quel campo di lavoro causa la guerra che per anni aveva impedito l'accesso al personale e ai mezzi economici. Ma espresse anche l'entusiasmo dei nuovi arrivati che avevano una gran voglia di lavorare e di accostare gli indigeni per portare loro il messaggio evangelico.

Nel settembre dello stesso anno apparve un altro articolo con un titolo significativo in quanto comincia a delineare il carattere del Padre: "Riflessioni peregrine di un misantropo". Con questo titolo appaiono altri scritti nel 1949 e nel 1950.

I missionari di quel tempo qualche volta dovevano dimorare da soli in località isolate per lunghi mesi. E' evidente che non tutti avevano la vocazione alla vita eremitica, quindi si possono immaginare le difficoltà cui andavano incontro, sia perché si trovavano privi di aiuto e di consiglio in qualche caso difficile, sia come vita comunitaria (che spesso non esisteva appunto perché erano soli), sia come vitto e salute.

Nell'ottobre del 1950 vediamo, sempre su Nigrizia, il tentativo di uno studio sul significato dei nomi azande. Il Padre in questo dimostrò perspicacia e intuito, basato tuttavia su prove e testimonianze, che avrebbero potuto fare di lui uno studioso se avesse trovato le possibilità e i mezzi per specializzarsi nel settore.

Nel 1955 Nigrizia pubblicò un ultimo articolo del Padre dal titolo "Fede che è fede, e fede... che non è fede". Questo scritto è "postumo" nel senso che p. Riva era già tornato definitivamente in Italia da due anni.

Fu superiore a Tombora dal 1949 al 1951 e a Rimenze dal 1951 al 1953.

Il Padre non godette mai di buona salute a causa delle frequenti febbri malariche e dei reumatismi che gli morsicavano le ossa come cani rabbiosi. Ciò gli impedì di dedicarsi con quello zelo che avrebbe voluto alle molte opere che gli erano affidate. Tuttavia curava con particolare attenzione le necessità materiali e spirituali dei confratelli e i bisogni di coloro che ricorrevano alla missione.

"Pur sofferente faceva di tutto per essere presente agli atti comuni e stimolava i confratelli a non venir meno alle pratiche di pietà. Conservò sempre il suo stile piuttosto rigido, tuttavia godeva una buona stima presso gli esterni, e cercava sempre di andare d'accordo con le autorità civili e religiose", assicura una testimonianza.

Quanto al suo modo di governare è detto che non era un tipo molto amabile ma aveva anche dei religiosi "speciali".

Nel 1952 p. Seri, superiore regionale di Mupoi, scrisse: "Se continua ad aver febbri, forse in una data non lontana dovrà tornare in Italia. Alla carenza di salute si aggiunge un certo logoramento psichico perché governa personale un po' 'scarto'. Nonostante questa situazione ha saputo dare un notevole sviluppo alle opere materiali della missione".

Partenza senza ritorno

La profezia di p. Seri si avverò ben presto. Infatti nel dicembre del 1953 p. Riva dovette rimpatriare. La solitudine, i rapporti col personale che il superiore regionale aveva definito "scarto", la salute e altre sofferenze che gli derivarono dal suo carattere piuttosto rigido e intransigente, finirono per logorarlo dentro fino al punto da fargli perdere l'entusiasmo di tornare in missione. Probabilmente, a questo punto della vita, p. Vittorio avrebbe avuto bisogno di una spinta, di un aiuto, di un amico disposto a tendergli la mano per uscire dal "pessimismo di un misantropo" (sono parole sue) che lo stava prendendo a poco a poco. Ma rimase solo o non seppe capire chi intendeva aiutarlo.

Fu vice economo a Venegono (1953/55), rettore del Santuario a Crema (1955/58), rettore della chiesa della SS. Trinità a Trento (1958/59), quindi superiore ad Arco (1959/61) e a Bari (1961/62).

Scrive p. Dell'Oro: "Nel 1964, venendo dal Brasile lo visitai a Bari dove, solo, mal accomodato, aveva l'incarico di preparare la costruzione di una nostra casa. Lo trovai molto scoraggiato e pessimista, quel pessimismo che sarebbe stata la sua grande croce per tutta la vita".

Finalmente p. Riva approdò nella comunità di Rebbio (1962/70) con l'incarico di cappellano della maternità del vicino ospedale.

Tutti questi cambiamenti indicano una inquietudine, uno scontento, una incapacità di inserirsi del Padre nelle varie e tante comunità nelle quali è passato ed ha sostato per breve tempo.

Una questione delicata

Dobbiamo riconoscere che su p. Vittorio Riva se ne sono sentite tante, quasi che fosse un comboniano che voleva sottrarsi alla vita comunitaria chiudendosi in se stesso e portando avanti un tipo di ministero sacerdotale staccato dal contesto di quello dei confratelli, e a lui gradito, in uno spirito di indipendenza dai superiori. Ma ciò non corrisponde a verità. E lo possiamo dimostrare non basandoci sui "sentito dire" ma sui documenti di archivio. Mi sembra giusto affrontare questa delicata questione per dissipare certe ombre che si sono addensate sul Confratello e che lo hanno fatto soffrire e gli hanno segnato gli ultimi anni della sua vita. Almeno dopo morte, dunque, la verità abbia il suo luogo. E procediamo con ordine.

Il 3 gennaio 1970 don Cremonesi, rettore del Collegio Arcivescovile "De Amicis" di Cantù, e amico personale di p. Riva, si rivolse a lui chiedendo se era disponibile ad andare in una villa di Alassio (Savona) dove c'erano degli ospiti da curare spiritualmente, con l'unico impegno della messa giornaliera, lasciandolo libero per altri impegni di ministero che volesse assumersi durante il giorno. Tale servizio avrebbe impegnato il Padre dal 1 ottobre al 1 giugno di ogni anno.

Considerando che la località marina poteva essergli di giovamento per i reumatismi, il Padre si dichiarò disponibile, previo consenso dei superiori.

E inoltrò la richiesta al p. provinciale Ernesto Malugani, il quale, in data 21 marzo 1970, gli rispose: "Le comunico il mio pensiero e quello del p. generale al quale ho manifestato il giudizio positivo del Consiglio provinciale su quanto lei propone. Se crede che l'accordo vada bene io lo sottoscrivo subito, solo vorrei far notare che non è la Congregazione che si prende tale impegno ma lei personalmente. Ciò non toglie che ella resti membro a pienissimo titolo della Congregazione... La prego di ringraziare don Cremonesi per l'attenzione ai suoi bisogni di salute e ai miei desideri".

Il clima e il riposo della riviera avrebbero certamente aiutato il Padre a ricuperare la salute e anche ad acquistare quella serenità interiore che si era offuscata.

Nel 1974 p. Riva venne trasferito per lo stesso servizio a Loano presso la scuola materna "Simone Stella" essendo la villa di Alassio chiusa per ristrutturazione. P. Malugani, prendendo atto del cambiamento, lo pregò di cercare qualche giornata missionaria per la casa di San Pancrazio che stava attraversando qualche "difficoltà economica", mettendo a disposizione p. Tessitore per la predicazione delle medesime.

Intanto p. Malugani fu colpito da infarto e p. Pasolini prese il governo della provincia. Non avendo letto quanto abbiamo finora citato (o essendoselo dimenticato) scrisse a p. Riva di chiarire "questa specie di confusione che c'è nel rapporto tra la Congregazione e lei". Logicamente p. Riva rispose che non capiva dove stesse la confusione visto che tutto era stato fatto con i permessi e la benedizione dei superiori. E continuò nel suo lavoro a Loano.

Due anni dopo p. Pasolini, divenuto nel frattempo provinciale d'Italia, scrisse a p. Riva: "Ultimamente il nostro vicario generale mi ha chiesto di entrare in contatto con lei per invitarla a mettere per iscritto cosa pensa di fare in futuro. E' di competenza del Consiglio generale, infatti, discutere se i motivi che un confratello manifesta per vivere fuori comunità sono validi e sussistono tuttora...".

P. Riva nella risposta espresse la sua meraviglia nel sentirsi considerato un "fuori comunità" avendo agito con i permessi dei superiori. Precisò inoltre che: "Il motivo è sempre lo stesso: la salute (artrosi). Comunque tengo a sottolineare che se l'impegno assunto venisse a mancare, io tornerei nella normalità".

Leggendo questa fitta corrispondenza sembra che i superiori qualche volta abbiano la memoria molto corta oppure non leggano affatto le lettere che i confratelli scrivono.

Finalmente il p. generale Salvatore Calvia, in data 19 marzo 1980, inviò una bellissima lettera a p. Riva, definendo la sua posizione. Scrisse: "Sono profondamente convinto che lei fa un lavoro molto utile alla Chiesa e quindi, pur rimanendo nella convinzione che un simile lavoro non rientra direttamente nel nostro fine specifico, date le condizioni e la situazione che si sono create nel suo caso particolare, io penso di poter con piena coscienza darle il permesso di dedicarsi a questo lavoro, come membro della Congregazione a pieno diritto". Poi lo invita a tenersi in contatto con la comunità di Rebbio dove sarebbe rientrato al termine del suo mandato. P. Riva gli rispose: "Sono veramente commosso per tanta bontà e non trovo parole per ringraziare lei, il suo Consiglio e la Provvidenza divina. Seguirò in tutto e per tutto i suoi indirizzi, come del resto ho sempre fatto sino ad ora".

L'incontro col Signore

Poco dopo, venuto a scadere il contratto con la scuola materna di Loano, il Padre entrò a Rebbio dove trascorse serenamente gli ultimi anni della sua vita. P. Berto, che lo ha preceduto in paradiso, ha lasciato detto di lui: "P. Riva è un uomo di molto buon senso e che non dà disturbo a nessuno". P. Dell'Oro, che succedette a p. Berto, scrive: "Nei tre anni che ho passato con lui ho notato che si chiudeva in sé sempre di più, conducendo una vita sistematica all'inverosimile. In camera era molto cordiale, mentre fuori aveva le sue battute pronte, intelligenti e talvolta pungenti. Eppure sotto quella scorza si sentiva il pulsare di un cuore missionario che lo faceva ritornare ai momenti più belli della sua vita missionaria che ricordava con vera passione". I confratelli di Rebbio confermano: "Sereno, tranquillo, delicato, non fu di peso a nessuno negli ultimi anni pur essendo gravemente malato. Toccante fu la celebrazione del 50ø di sacerdozio (1988) quando con tanta gioia e dedizione esternò i sentimenti del suo cuore".

Trascorreva gran parte della giornata nella sua stanza contemplando il vecchio albero che gli raccontava tante storie, unendo la sua preghiera a quella degli uccelli che saltellavano e cinguettavano tra i rami. Poi sostava lungamente in chiesa continuando quella sua vita di "misantropo impenitente", pur sempre disposto ad accogliere i confratelli o per il ministero della riconciliazione o per fare due chiacchiere. Alla sera, amava seguire le notizie del giorno alla televisione e qualche programma di particolare interesse. Ma finiva spesso per addormentarsi davanti allo schermo.

Gli ultimi mesi furono veramente pacifici, rallegrati anche dal nuovo personale che si aggiunse alla comunità di Rebbio, per cui il Padre poté terminare la sua esistenza terrena in quella pace e serenità che aveva inseguito per tutta la vita senza mai trovarla del tutto.

Era evidente che il Signore lo stava "lustrando" perché l'incontro col Padre fosse nella pienezza della gioia, lui che di gioia ne ha avuto così poca. Era stato un missionario pieno di zelo e pieno di tribolazioni. Era giusto, dunque, che almeno la fine fosse in serenità e senza peso per sé e per gli altri.

La sera del 1 venerdì di quaresima, 15 febbraio, perse conoscenza. Portato all'ospedale Sant'Anna morì subito. La sua stanza era, come sempre, in perfetto ordine. La messa del funerale fu concelebrata da una trentina di sacerdoti. Ora è sepolto nella cappella centrale del cimitero di Rebbio assieme a due sacerdoti della parrocchia e altri otto comboniani".

Leggendo la vicenda umana di questo nostro confratello viene spontanea una conclusione. Questa: i confratelli non devono mai essere messi in situazioni che le loro forze non riescono a sopportare, vanno inoltre capiti anche nei loro limiti, vanno comunque sempre aiutati più con il dialogo fraterno che con le lettere ufficiali. E l'attenzione che si dedica a una persona, a scapito anche di tante attività indubbiamente utili e importanti, non deve mai essere considerato tempo perso.                          P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 171, luglio 1991, pp.60-69