Fecondità apostolica della sofferenza.
(Articolo pubblicato sull'Osservatore Romano)
I - Amare è soffrire con Cristo
La caratteristica prevalente nella spiritualità missionaria di Daniele Comboni è l’amore alla Croce, vissuta come l’espressione più essenziale di fedeltà al Piano di Salvezza, che il Padre aveva in serbo per gli Africani tramite lui, resosi disponibile alla Sua iniziativa. Comboni scelse di servire gli Africani del suo tempo, perché erano ”i più necessitosi e derelitti dell’universo” e considerò la Croce un Kairós pastoralmente efficace per fare dell’Africa la nuova patria di Cristo.
Fin dai primi anni, l’esistenza di Comboni fu fortemente contrassegnata dalla Croce, ch’egli interiorizzò nella fede e nello stile di vita. Egli riferì sempre le sue sofferenze a una misteriosa efficacia apostolica, che fece di lui un valido strumento di evangelizzazione nelle mani del Padre. Il soffrire che dona la salvezza è sempre e solo il soffrire in intima unione a Cristo. Per Comboni il soffrire è strettamente legato all’amore. La storia della salvezza non è altro che la storia dell’amore di Dio per l’uomo, che Egli ha creato in un gesto eterno del suo amore personale. Anche quando l’uomo pecca, Dio continua ad amarlo e ad inseguirlo incalzandolo perché si converta a Lui. Dio lo ama nel mistero del Suo Unigenito Figlio, che per tutti noi si è lasciato inchiodare sulla Croce, ma che è stato risuscitato dalla potenza del Padre, come perenne garanzia che ormai nessuno può più uccidere l’Amore: “Sacrificato sulla croce più non muore e con i segni della passione vive immortale” ; “Cristo non ha mai commesso peccato, ma Dio Lo ha caricato del nostro peccato per riabilitarci dinanzi a Sé per mezzo di Lui” (2 Cor. 5, 21).
Comboni era persuaso che la sua sofferenza manifestasse in lui la potenza salvifica di Cristo per gli Africani, ed è precisamente per questo motivo che egli non rinunciò mai di prodigarsi per loro sino alla fine, senza mai risparmiarsi: “Coraggio, dunque, (…) prepariamoci con l’orazione, con l’abnegazione e col sacrificio a salvare un gran numero di anime, che costano il sangue di Gesù Cristo: è coi sudori e col martirio che fu fondata la Chiesa” (Scritti, 5444).
In un’interpretazione molto originale, di grande effetto e di coinvolgimento emotivo della passione di Gesù Cristo, un acclamato artista contemporaneo, il poeta africano Morisseau Leroy, così scrive:
" Gesù doveva morire,
la debolezza s’era impadronita di Lui,
tuttavia doveva salire il Monte Calvario
con due travi di legno sulla schiena.
Cadde, si rialzò.
In quel momento si trovò a passare di là un nero,
Simone di Cirene,
un nero possente (…).
Si trovò a passare e
guardò la scena come solo i neri sanno guardare;
(…) gli dissero:” Prendi questa croce e portala (…)”.
Simone prese la croce dalle mani del bianco Gesù (…).
Corse con essa (…) e danzò fino a quando non ne poté più,
prima di riconsegnare la croce al bianco Gesù (…).
E da quel giorno ogniqualvolta una croce è troppo faticosa a portarsi,
quando un carico è troppo pesante per i bianchi,
essi chiamano un nero a portarlo.
E allora noi danziamo e cantiamo,
battiamo il tamburo e suoniamo l’arpa.
Abbiamo le spalle larghe e robuste,
portiamo la croce (…).
Ci carichiamo di crimini, ci carichiamo di peccati,
e aiutiamo tutti i bianchi a portare i loro crimini e i loro peccati."
La Croce è proprio questo: una trave orizzontale che simboleggia l’amore degli uomini-fratelli, intersecata con una verticale che rappresenta l’amore compassionevole di Dio Padre per i suoi figli, il tutto tenuto solidamente assieme da un solo perno: la Salvezza, l’attesa di nuovi cieli e di una terra nuova.
Ma questa volta è un bianco, Comboni, a portare la pesante croce dei Neri, senza mai più restituirla, anzi fino a morirci sopra:“Io prendo a far causa comune con ognuno di voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello, in cui potrò dare la mia vita per voi “ (Scritti, 3159). Per Comboni la Croce non è un simbolo di morte ma di vita. Questa verità teologica incontrovertibile ha favorito in Comboni la nascita della consapevolezza che l’unione alla Passione di Cristo doveva essere integrata da un’esperienza interiore d’amore, e che la Redenzione stessa tende a stabilire e ad affermare l’universalità del regno d’amore di Gesù Cristo nel mondo.
Un Padre della Chiesa ci offre un commento a questo proposito, che è in sorprendente sintonia con il pensiero di Comboni; ascoltiamolo:“Egli sdegna in sé le ferite del corpo, e cura negli altri le ferite del cuore. I grandi infatti hanno questo di particolare che, trovandosi nel dolore della propria tribolazione, non cessano di occuparsi dell’utilità altrui; e, mentre soffrono in se stessi sopportando le proprie tribolazioni, provvedono agli altri, consigliando quanto loro abbisogna. Sono come dei medici eroici, colpiti da malattia: sopportano le ferite del proprio male e provvedono agli altri di cure e di medicine per la guarigione.”
La certezza che la sua sofferenza, in comunione con quella dal valore infinito di Cristo, fosse uno strumento fecondo di redenzione, è ancor più evidente nel suo sposalizio mistico-apostolico con la Croce, che lo rende uomo capace di capire, di accogliere e di trasformare il dolore in impegno di fedeltà e in una diakonía missionaria agli Africani:“Già vedo e comprendo che la croce mi è talmente amica, e mi è sempre sì vicina, che l’ho eletta da qualche tempo per mia Sposa indivisibile ed eterna. E con la croce per sposa diletta e maestra sapientissima di prudenza e sagacità (…) io non temo di nulla; (…) a passo lento e sicuro, camminando sulle spine, arriverò ad iniziare stabilmente e piantare l’Opera ideata per la Rigenerazione della Nigrizia centrale, che tanti hanno abbandonata e che è l’opera più difficile e scabrosa dell’apostolato cattolico.” (Scritti, 1710; 1733). La Croce è una formidabile scuola di conoscenza e di esperienza, diversa ma certamente non minore di quella contemplativa.
II - La sofferenza, garanzia di efficacia apostolica
Per Comboni le tribolazioni, più che un impedimento, sono un misterioso prolungamento del suo ministero apostolico a favore dei più poveri ed abbandonati, che egli identifica con gli Africani suoi contemporanei:”Io sto bene, benché abbia molto patito nell’animo. Ma ho sofferto per amore di Dio e per il bene delle anime, e Dio mi consolerà facendo restare con tanto di naso chi fu la causa ingiusta del mio soffrire. Pregate Gesù per costoro, e allegri” (Scritti, 5967).
L’opera salvifica di Cristo non abbraccia solo quello che Egli fece in vita, ma essa abbraccia anche quello che Egli ha compiuto tramite gli Apostoli, i continuatori della Sua opera nel mondo. Con la parola dei suoi inviati, Cristo continua a rivolgersi all’umanità, e, con le loro vicende personali, Gesù continua a soffrire nella comunità dei credenti.”La Chiesa è avvezza (…) al martirio” (Scritti, 6489).
Per quanto riguarda l’annuncio del mistero della Croce in Africa, terra della sofferenza endemica e dell’emarginazione, esso sarà possibile solo se si presenterà come la forma suprema di Dio d’essere solidale con i derelitti, con gli ultimi e gli sgraditi. Allora la Passione di Cristo potrà essere accolta, assunta e integrata dall’Africano, nella misura in cui essa significherà l’espropriarsi estremo di Dio, il suo svuotamento, ovverosia la Sua Kénosis, per dare spazio all’altro da sé:”Cristo Gesù pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Ef. 2, 6-8).
Una lettura della Passione in Africa sarà possibile, qualora essa modifichi radicalmente lo statuto dell’uomo che soffre; vale a dire quando l’esistenza da un modo di essere pena, passerà ad un modo di essere grazia e dono, un vero e proprio Kairós ecclesiale oltre che personale. Radicato nella sua spiritualità peculiare, l’Africano ha un’incredibile capacità di sofferenza e di pazienza, senza rinunciare per questo a diventare sempre più pienamente uomo.
III - La Croce segno di riconciliazione
La croce di Cristo è l’evento salvifico per eccellenza, in cui la riconciliazione da sogno diventa realtà per tutta l’umanità. Gesù Cristo, entrando fino in fondo nelle nostre lacerazioni personali, nelle nostre separazioni, inimicizie, guerre, pregiudizi,…ha aperto uno spazio di riconciliazione con il Padre e con tutti gli uomini. In Comboni l’esperienza personale della sofferenza non è mai un momento isolato di sconforto, ma un’occasione di maturazione nella fede e di riconciliazione con Dio e con il prossimo:”Finalmente sono arrivato allo scopo dopo tre anni di pene, di dolori e di angosce, che i miei nemici, disponendo così l’amore di Dio, mi hanno procurato. Io perdono loro di tutto cuore” (Scritti, 4665). L’amore per natura sua purifica e santifica il credente.
La croce non copre, non cancella, non distorce, non rivede, non restaura una facciata di perbenismo, ma mette crudelmente a nudo la verità dei nostri rapporti interpersonali, ci dichiara la verità sulla nostra vita, sulle nostre responsabilità, sui nostri alibi, sulle nostre latitanze,…E’ proprio a partire dalla verità, dalla consapevolezza delle nostre responsabilità, che inizia un vero percorso di completa riconciliazione :“Io ho provato il martirio, ma ne sono contento, perché così ha voluto il Signore, e perdono a tutti” (Scritti, 6100).
La croce ci dice che Dio ha preso molto sul serio il nostro peccato, per questo essa non autorizza attenuazioni di sorta. La croce significa che Dio fa proprio il nostro peccato e nella sua magnanimità, nel suo amore longanime decide di non inchiodarci per sempre al nostro passato, anzi rinuncia, una volta per tutte, ad essere il nostro creditore più esigente. Nella risurrezione di Cristo, Dio apre davanti a noi uno spazio in cui è ancora possibile costruire rapporti nuovi, in cui è fattibile mettere l’amore e la solidarietà alla base dell’esperienza della vita collettiva. “Non ho ancora potuto chiudere occhio nemmeno un momento dopo il mio ritorno dai Nuba, a causa dei gravi dispiaceri e croci che proprio il Signore mi manda, senza che io vi abbia mai dato vera causa, come mi assicura la mia coscienza” (Scritti, 6816).
Riconciliazione significa che Gesù Cristo ha aperto uno spazio in cui posso vedere gli altri in una dimensione nuova, in cui dall’odio o dal risentimento posso passare all’incontro con l’altro, in cui posso aprirmi e dialogare con l’avversario, in cui l’altro diventa qualcosa di speciale per me, perché è speciale per il Signore:”(…) ringrazio con tutta l’anima i Sacri Cuori di Gesù e di Maria, che mi hanno sollevato all’onore e alla fortuna di essere ammesso a bere un amaro calice, fermo nella speranza che gioverà alla mia salute; benedico mille volte coloro che avessero contribuito a farmi portare questa tribolazione e sempre pregherò per loro.” (Scritti, 1049).
La riconciliazione è lo spazio salutare in cui è possibile costruire un futuro nel quale non si ripetano più gli errori del passato. I sommari colpi di spugna, le frettolose revisioni storiche, gli oblii, le facili amnistie, il perdono inteso come il metterci una pietra sopra, le demonizzazioni,…sono solo rimozioni provvisorie degli odi, dei conflitti, delle inimicizie,…che puntualmente riesplodono in un modo più devastante di prima. Queste idee sono i contenuti ispiratori delle Carte Fondazionali, che Comboni diede come codice formativo ai missionari del suo Istituto per l’Africa:”Ciascuno si fa il dovere di chiedere presto e umilmente perdono a colui, cui s’accorga d’avere in qualche modo recato disgusto. Ciascuno si deputa altresì chi lo avverta dei suoi mancamenti, procurandosi che sempre trionfi la carità non meno nel compatimento dei difetti, che nell’opportuna correzione fraterna.” (Scritti, 2716).
Dio, in Cristo Gesù, ha riconciliato a sé il mondo, che è divenuto lo spazio in cui la riconciliazione non è più pura utopia, ma luogo della fraterna convivenza e della reciproca tolleranza. E allora a noi testimoni di Cristo compete una particolare responsabilità, perché Dio ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Siamo chiamati a essere operatori di riconciliazione nel mondo. Questo è il vocabolo della ricostruzione del tessuto ecclesiale e sociale, della ricomposizione dei conflitti atavici, del riallacciamento delle relazioni interrotte, della disponibilità al cambiamento radicale della nostra mentalità (la biblica metànoia), della difficile ritessitura dei rapporti fra gli individui, i popoli, le religioni, le culture, le etnie, la gamma variegata di appartenenza alle diverse chiese e riti, classi sociali, ecc…
Nel Settembre 1864, allo Sceicco capo dei doganieri di Alessandria d’Egitto, che,
per presunte irregolarità, lo aveva trascinato in giudizio davanti a Rascid Pascià, governatore generale della suddetta città egiziana, Comboni così si rivolse:”Io seguo il Vangelo di Gesù Cristo, che vuole che si perdoni al nemico; perciò io Le perdono di tutto cuore e voglio dimenticare tutto ciò che di male Lei mi ha fatto; i miei sono sguardi di pace e la mia bocca ha detto le parole del perdono” (Scritti, 896).
Noi discepoli di Cristo dobbiamo essere i primi a offrire dei segni di un’umanità riconciliata, segni di dialogo, d’accoglienza, di tolleranza, di benevolenza, di perdono. Sta a noi accreditare nel mondo l’amore di Dio o al contrario screditarlo irrimediabilmente. Già, perché la sostanza della riconciliazione è in fondo l’amore. Riconciliazione e amore, dunque, sono sinonimi, interscambiabili. Preghiamo perché sappiamo accogliere con cuore disponibile ma determinato l’accorata esortazione di S. Paolo ai cristiani delle primitive comunità:”Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio “ (2 Cor. 5,20).
Conclusione
L’intenso amore di Comboni per l’Africano, maturato nella dolorosa paternità della Croce, ”Io sono il vostro Padre, e voi siete i miei figli, e come tali, vi abbraccio e vi stringo al mio cuore” (Scritti, 3157), può anche oggi, nonostante le mutate condizioni socio-economiche ed ecclesiali, offrire stimoli e soluzioni per aiutare l’Africa a essere sempre più padrona del proprio futuro, alla luce della nuova figliolanza e fraternità conquistata dal Grande Sofferente di tutti i tempi (cf. Is. 53, 2-12). Anche noi, ad imitazione di Comboni, lasciamoci strappare dalla mediocrità che ostacola la perfezione cristiana a cui il battesimo ci ha chiamati, dal peccato che ostacola in noi la santità, dalla cupa solitudine che ci allontana definitivamente dall’impegno di amore verso gli altri.
P R E G H I E R A
Padre, aiutaci a credere nel Tuo Figlio,
che Tu ci hai mandato nel Tuo immenso amore.
Fa che confidiamo nella vita che non muore.
Fa che guardiamo sempre al Signore Gesù e
dalla Sua Croce speriamo il rimedio per lenire le nostre ferite aperte,
per sanare le quali il Signore fu crocifisso:
“Guarderanno a Colui che hanno trafitto”(Gv. 1937).
Padre, aiutaci a riconoscere nella vita di Daniele Comboni
il volto sanguinante di Cristo sulla Croce.
Gesù è venuto a prendere su di Sé i peccati del mondo
E a dare la vita in abbondanza.
Egli è venuto per suscitare tra gli uomini
una vera fraternità senza più emarginati.
Padre, fa che collaboriamo con tutte le nostre forze
all’opera della redenzione del Tuo Figlio Gesù Cristo.
A M E N .
* TESTI PER LA PREGHIERA: (Lectio, meditatio, oratio, contemplatio)
Is. 52, 13-15; 53, 1-12; Eb. 4, 14-16; 5, 7-9.
Preconio pasquale (cf. Veglia pasquale).
* TESTI PER LA DISCUSSIONE: (Collatio, praticatio)
Is. 54, 5-14; Rm. 6, 3-11; 1 Cor. 15, 1-58.
* TESTO COMPLEMENTARE:
Vexilla Regis prodeunt
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P. Antonio Furioli, mccj