Giovedì 26 agosto 2021
Ieri sono partiti per la missione nella Repubblica Democratica del Congo due missionari comboniani: l’italiano P. Gian Paolo Pezzi [nella foto], che a dicembre compirà 79 anni, e il peruviano medico Fr. Hernán Romero Arias, 69 anni. A P. Gian Paolo, che ha lavorato in una dozzina di paesi di tre continenti, abbiamo chiesto come si sentisse al partire per la missione per l’ennesima volta. Ecco qui la sua risposta.

All’avvicinarsi una nuova partenza per la Missione, ci sono domande che mi arrivano come ritornelli. Perché ripartire ancora? Quell’ancora mi trae un ricordo d’infanzia. Avevo 7-8 anni quando aprirono il minuscolo bar nell’oratorio del Paese ed era la Giornata Missionaria. Mi ero impegnato nella classe di catechismo a offrire la mia mancetta per le missioni. I giovani del bar furono così effettivi nella loro propaganda che riuscirono a vendermi la prima gazzosa della mia vita. In fila con gli altri bambini non potei mettere nel cestino delle offerte che una mano vuota. Confessai al parroco, il mio “tradimento”, aspettandomi una sgridata. Nel il suo tono burbero, ma paterno mi disse: “Capita a tutti di essere un po’ vigliacchi nella vita. Ricordatelo quando Dio ti chiederà molto di più”.

Queste parole mi accompagnarono fino a quando nel primo articolo durante l’Università scrissi che essere missionari è solo una risposta radicale alla chiamata del Battesimo: rinunci alle seduzioni del mondo per vivere nella libertà dei figli di Dio? Credi in Dio Padre, in Gesù Cristo, morto e risuscitato, nello Spirito Santo, la Chiesa, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne e la vita eterna? Vivere questa professione di fede implica, dice santa Teresa, che ci inganniamo, se siamo “lenti ed avari nel donarci completamente a Lui”. Essere missionari è di ogni battezzato, è il battesimo che ci invia sulle strade del mondo a testimoniar la fede in Cristo risorto e ci fa annunciatori del Vangelo. E questo implica a volte “una rigorosa auto-separazione" da quanto più amiamo ed apprezziamo.

Ed ecco la seconda domanda di rito, a cui non sempre mi arrischio a rispondere: perché parti se c’è tanto bisogno anche qui? Al ritorno in patria dopo l’espulsione dal Burundi, la mia prima missione, mi trovai a fare la giornata missionaria in uno sperduto paesino sulle colline romane. L’anziano parroco aveva un aspetto ascetico, la parrocchia era di poveri contadini, il pranzo da cenobiti del deserto e il giovane chierico che vi faceva la sua esperienza mostrava segni d’insofferenza. Alla fine il parroco tirò fuori una discreta somma, dicendomi, “Questo è il mio contributo personale da aggiungere a quello della parrocchia”. Il giovane sgranò tanto gli occhi che chiamò l’attenzione dell’anziano parroco: “Quello che diamo agli altri, spiegò, non è un regalo è una inversione. Se vuoi ricevere, dona”.

Eravamo a poca distanza dalle grandiosità Vaticane e quelle parole mi anticiparono quanto Paolo VI scrive nell’enciclica, “L’annuncio del Vangelo”. “Quando il più sconosciuto predicatore, missionario, catechista annuncia il Vangelo, trasmette la fede, amministra un Sacramento, anche se è solo, compie un atto di Chiesa”, agisce in nome della Chiesa. Evangelizzata, la Chiesa invia ad evangelizzare trasmettendo il mandato che essa ha ricevuto di annunciare il Vangelo. Una comunità cristiana matura è aperta al mondo, la su vita interiore – preghiera, ascolto della Parola, carità fraterna, il pane spezzato –, acquistano il loro pieno significato quando diventano testimonianza, si fanno annuncio della Buona Novella. Nelle parole d di quel parroco era sottintesa era la stessa logica di Paolo VI e il messaggio che ripete Papa Francesco: è proprio perché c’è tanto bisogno qui che il missionario parte. Lo fa a nome della chiesa, in particolare della sua comunità cristiana, magari del suo paesello sperduto da qualche parte. Dal momento che non va a fare il suo lavoro ma quello della Chiesa, a dire non le sue ma le parole della comunità cristiana, afferma che è solo dando che si riceve, perdonando che si è perdonati, morendo che si risuscita a Vita Eterna.

Ed ecco la domanda sibillina, messa per me in schietti termini da una religiosa con cui ho condiviso il lavoro nell’Università di Esmeraldas, Sarà vero quello che dici, ma partire alla tua età non è un po’ da matti?

Eravamo un nugolo di chierichetti quel giorno, già vestiti per la Messa solenne, quando il viceparroco entrò in sagrestia con un missionario. Ci chiamò a raccolta e come se lo facesse a nome nostro gli chiese: cosa deve avere uno per diventare missionario? Quel giovane comboniano che incontrai già anziano in Africa quasi trent’anni dopo rispose: ha bisogno di 9 gradi di pazzia e uno di santità. Al che il nostro viceparroco, con il suo tono burlone, replicò, “Allora si prenda pure questi ragazzi, quasi tutti hanno i 9 gradi di pazzia. Toccherà a voi far nascere in loro il grado di santità”.

L’amicizia con chi parte se da una parte ci ricorda che l’impegno missionario è di ogni battezzato, anche se non tutti possono partire, dall’altra fa prendere coscienza che è la preghiera della Chiesa e della comunità cristiana a far sì che una certa follia umana necessaria all’avventura d’annunciare il Vangelo, diventi un più di santità, follia agli occhi del mondo, ma saggezza e forza nelle mani di Dio.

Ed ecco l’ultima domanda, che è in realtà la prima, che le altre hanno solo preparato: Come si sente uno al partire per l’ennesima volta?

Ero nei miei 26 anni quando nel 1969 partii per il Burundi la prima volta. Ne avevo 67 appena suonati alla partenza per il Congo. E ne ho adesso quasi 79. Nel frammezzo due partenze per l’America Latina – Ecuador e Colombia – e quella per gli Stati Uniti. Senza contare gli intermezzi come giornalista a Nigrizia e per la commissione Giustizia e Pace a Roma.

“Partire”, girare pagina, lasciare un’attività per un’altra, una lingua per un’altra, un mondo culturale per un altro diventa ad un certo punto qualcosa di “ordinario” che non suscita né forti emozioni, né apprensioni, né incertezze. Vivere senza radici umane e sociali non sgomenta più. Eppure…

Sarà forse il ricordo di un amico, che mi disse “stando in Roma ho ritrovato il gusto della missione”, quell’uscire sulle strade del mondo. Dopo tanto “vagabondare” per i sentieri della missione secondo i vecchi e i nuovi parametri, forse mi è rimasto nel cuore e nella mia personale spiritualità quanto Enzo Bianchi dice. Parafraso un suo testo: Dio traccia una strada e invita che gli crede a mettersi su di essa. Come Israele, forse, sento il bisogno – dopo averle sperimentate soprattutto negli Stati Uniti – di abbandonare le false sicurezze, riprendere la vita dura e austera, rinunciare alle comodità che ti fanno pagare a un caro prezzo vivere nel tuo Egitto, e ritornare ad essere “sulla strada”, obbligato a camminare per sola fede, senza fissa dimora, e come Israele vivere la vocazione al nomadismo, o del vagabondare per riscoprire l’unicità del nostro Dio. Camminando per tre continenti, in una dozzina di Paesi, pregandolo in una molteplicità di lingue e culture, forse mi sono accorto che non mi basta un Dio ‘locale’, che protegga i miei piccoli egoismi, ma cerco un Dio Signore dell’universo, presente in tutti gli angoli della terra, che rende liberi come gli uccelli dell’aria e avvolge nella sua brezza soave. Dappertutto allora inspiriamo i meravigliosi profumi che avvolgono, nonostante tutto, questo nostro mondo.

P. Gian Paolo Pezzi,
Missionario comboniano