Giovedì 3 agosto 2017
Se i missionari non vogliono ridursi ad essere delle forze genericamente pastorali, dovranno urgentemente fare delle nuove scelte in linea con la genuina missione ad gentes, altrimenti cadranno nell’insignificanza di una pastorale generica e si condanneranno a scomparire. Cosa abbandonare e cosa promuovere. Leggendo l’articolo di Padre Kizito in Testimoni (1/2017, pp. 33-37) non ho potuto sottrarmi a una riflessione di cui da tempo sento l’urgenza e che coinvolge non solo me ma anche gli istituti missionari, quella del difficile rinnovamento della spiritualità missionaria, del modo di essere missionari. Se ne parla da almeno una cinquantina d’anni, con un discorso tanto necessario quanto … noioso, perché non conduce a nulla. Dal tempo di Evangelii Nuntiandi, gli istituti missionari si domandano che ruolo hanno e, più radicalmente ancora, se ne hanno ancora uno nel campo della missione. Domande retoriche che hanno già una risposta scontata. No, non hanno ancora perso il loro ruolo nella Chiesa. Ma basta così?
Una crisi
sotto gli occhi di tutti
Oggi la crisi degli istituti missionari – non della missione – è sotto gli occhi di tutti: gli istituti missionari occidentali stanno soffrendo una drastica riduzione del personale, non compensata dalle entrate dei candidati di altri ambienti culturali; l’animazione missionaria non riesce più a far presa sui giovani né con proposte secolari (pace, disarmo, non violenza …) né con proposte religiose o spirituali.
La secolarizzazione e la globalizzazione hanno contribuito ad accelerare un processo che era scritto nella storia. In realtà gli istituti missionari moderni sono nati e si sono sviluppati con il rinascere della missione ad gentes nella seconda metà del secolo XIX, segnata dal fenomeno storico della colonizzazione; i presupposti su cui la missione ad gentes si reggeva, quello culturale e politico (portare la civiltà occidentale alle popolazioni sottosviluppate), e quello teologico fondato sulla necessità del battesimo per la salvezza, sono venuti meno alla metà del sec. XX con il processo d’indipendenza politica e con le nuove acquisizioni del Concilio Vaticano II.
Oggi la stagione coloniale è ormai conclusa, un nuovo rapporto si è stabilito a livello politico e una nuova visione della salvezza è stata fatta propria dal Concilio. Sembrerebbe normale che la prassi missionaria ne fosse modificata. Invece tutto continua come prima. Non è bastata Evangelii Nuntiandi a rinnovare la missione e neppure Redemptoris missio, venuta a confermare “la permanente validità del mandato missionario” e a restaurare l’immagine classica del missionario. I recenti capitoli generali, anche dopo l’elezione di papa Francesco che con Evangelii gaudium propone una nuova visione di Chiesa aperta al mondo e al servizio dei poveri, hanno recepito le nuove istanze come delle pie esortazioni e non come delle indicazioni di cambiamento da tradurre in atto. Continuiamo a parlare, come da anni, di nuova evangelizzazione, di formazione, di inculturazione e di dialogo, di pace e di giustizia, ma nei fatti le preoccupazioni più importanti sono le relazioni con i vescovi, la redazione documenti, di convegni su ogni argomento, di calo delle vocazioni e delle offerte e, in Europa, della gestione delle proprietà immobiliari.
Non ci siamo mai chiesti se non sia il modello della missione e del missionario ad essere ormai fuori tempo? Le novità culturali, socio-politiche e teologiche, accettate e riconosciute a livello accademico, sono ignorate nella pratica e ci troviamo a vivere ancora la missione come una forma di neo-colonialismo ecclesiale, facendo delle nuove chiese delle fotocopie delle chiese occidentali, mentre la spinta all’inculturazione è stata progressivamente soffocata dalla paura di compromettere la comunione, confusa con l’uniformità. Al di là delle novità teologiche della missione (la sua fondazione trinitaria e quindi il suo ritorno al cuore della Chiesa) la missione è rimasta come in passato ancora ai margini della vita della Chiesa e relegata all’occasionalità; la missione persegue un allargamento quantitativo della Chiesa (quelle benedette statistiche!) che tuttavia è necessariamente irraggiungibile. Questo produce una frustrazione che fa perdere di vista il vero obiettivo (l’annuncio del vangelo) per cercare una compensazione nella moltiplicazione delle attività (attivismo), nei progetti e nelle opere sociali che la riportano irrimediabilmente alla vecchia maniera coloniale della missione. Anche a livello gerarchico, nonostante il decreto Ad gentes e i documenti successivi, la missione evangelizzatrice ad gentes non sembra essere la prima preoccupazione della gerarchia. La vecchia Propaganda Fide, aggiornata nel nome, oggi ha un compito quasi esclusivamente amministrativo e non ha più potere neppure sugli istituti missionari che pure le sono specificamente e carismaticamente legati. Sono passati sotto la Congregazione per la vita consacrata e sono considerati degli istituti religiosi come tutti.
Con ragione papa Francesco, citando Benedetto XVI, afferma che “la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione”, non per le nostre attività di propaganda, ma per la forza della testimonianza cristiana, quella che all’inizio attirava i non cristiani con la bellezza del vangelo (At 2,46-48). È sintomatico che questo richiamo del papa Francesco lasci parecchi missionari indifferenti quando non disorientati. “Evangelii gaudium – si dice – è bella, ma vale per tutti …” mentre i missionari vorrebbero qualcosa di specifico oltre i consueti complimenti in occasione della giornata missionaria mondiale.
Concludendo quest’analisi, emerge l’urgenza che se i missionari non vogliono ridursi ad essere delle forze genericamente pastorali, dovranno urgentemente fare delle nuove scelte in linea con la genuina missione ad gentes, altrimenti cadranno nell’insignificanza di una pastorale generica e si condanneranno a scomparire. In altri termini dobbiamo chiederci che cosa suggerisce lo Spirito e correre il rischio di innovare i metodi e le strutture, superando la comoda tentazione di ripetere il passato.
Atteggiamenti e attività da abbandonare
Che cosa dobbiamo cambiare? Il futuro degli istituti missionari e il loro servizio alla missione richiedono una coraggiosa conversione, abbandonare cioè alcuni atteggiamenti e assumerne altri. Vediamo anzitutto gli atteggiamenti e le attività da abbandonare.
– Ogni complesso di superiorità e la presunzione di avere qualcosa da insegnare. Il missionario è anzitutto un discepolo, alla scuola di Gesù e sempre in ricerca della volontà di Dio, al servizio dei fratelli e delle sorelle non cristiani.
– Lo spirito di conquista, l’ansia di battezzare e di mettere in piedi opere e strutture non indispensabili, che richiedono mezzi ingenti i quali sono spesso inizio di un potere inconfessato ma reale. Non sono queste le cose che evangelizzano. Il missionario non deve essere guidato dall’ansia della salvezza dei non cristiani e, meno ancora, dal desiderio di impressionare con quello che sa fare.
– Un generico servizio pastorale che fa fare di tutto e mette all’ultimo posto quello che è davvero nostro, vivere in mezzo ai non cristiani e ai cristiani e proporre loro il vangelo nella sua autenticità. È ovvio che è molto più soddisfacente avere una comunità di cristiani che rispondono alle nostre cure e che dà un senso alla nostra scelta di vita … ma questo ci fa perdere lo specifico del carisma missionario.
– L’ansia di eternizzare il nostro istituto missionario, ma svegliare nelle comunità locali l’urgenza della missione. Se non siamo specifici e non offriamo un servizio necessario alla comunità cristiana, non abbiamo ragione di essere e non verranno neppure delle vocazioni.
Elementi da ricuperare e promuovere
Bisogna riscoprire il nucleo vitale del carisma specifico dell’istituto missionario: l’annuncio del “vangelo del regno di Dio”. Questa è la ragion d’essere del missionario. Far conoscere che Dio è Padre di tutti, è misericordia, che ci vuole coinvolgere nella sua comunione e far del mondo una famiglia di fratelli e sorelle. Tutto il resto è derivato o commento.
La prima preoccupazione del missionario, come per Gesù, non è quella di stabilire una religione e le sue strutture, ma di far incontrare Gesù e il regno di Dio, proporre alla persona la salvezza, il suo benessere integrale, la fraternità. Dio non ha bisogno di noi, perché la “gloria di Dio è l’uomo vivente”. Tutto il resto è di contorno, quando è possibile e quando Dio vorrà.
Quindi con le poche forze attuali, bisogna coraggiosamente ripartire o riposizionarsi, bisogna metter in atto oggi, nella situazione del mondo di oggi, “l’audace disegno” che ha spinto il fondatore mons. Guido Conforti a cominciare l’avventura missionaria nel 1895.
Conseguenze della finalità esclusiva della missione
1. Bisogna scegliere quello che è effettivamente un servizio ai non cristiani. Non si tratta di dismettere quello che si sta facendo, ma di rimanere aperti alle proposte (da vagliare evidentemente!) di nuovi impegni in favore dei non cristiani che lo Spirito e la storia suggeriscono ai confratelli. Questo richiede il coraggio di rischiare il nuovo.
2. Bisogna ritrovare il valore della prossimità e dell’alterità in modo da offrire il vangelo della carità, della prossimità, della gratuità a tutti. Questa è la salvezza che Gesù offriva a coloro che avvicinava. Lo stile di ospitalità tipico di Gesù e del Vangelo deve caratterizzare le nostre comunità missionarie, con ascolto, condivisione di vita e di fede, dialogo di vita.
3. Andare verso le periferie di oggi, gli areopaghi odierni senza aver troppa paura del nuovo e senza aver paura di mettere a disposizione – e forse anche di perdere – il nostro denaro. Campi di azione come quello delle migrazioni e dei media ci trovano spesso tendenzialmente esitanti o riluttanti (si pensi alla vicenda Misna e delle riviste chiuse perché “costano troppo”, ma anche forse per poca convinzione).
4. Il missionario deve “mostrare” il vangelo non anzitutto con la parola, ma con il suo comportamento e condividere la propria ricerca di Dio con quelli che lo cercano sulle altre vie religiose della storia senza pretendere di essere maestro di nessuno. Oggi il dialogo interreligioso è una dimensione essenziale della missione, non anzitutto il dialogo degli specialisti, ma il dialogo dell’incontro e della condivisione e della solidarietà.
5. Bisogna ritornare a seminare il seme del Regno, non a trasportare la pianta! Più il messaggio sarà essenziale, più sarà efficace. È necessario tornare al kerygma, annunciato con la vita e, appena è possibile, con la parola, senza per altro precipitare le conversioni che non sono in potere del missionario. È chiaro che la missione deve essere meno clericale e più accentuatamente laica.
6. L’impegno a “mostrare” il vangelo coinvolge il missionario e le comunità missionarie nel Vangelo. Non abbiamo nulla da dimostrare o da difendere, dobbiamo solo ‘mostrare Gesù’ (Gv 12,21: “Vogliamo vedere Gesù”). Per questo bisogna (e basta) mettersi tra gli “altri”, tra i poveri, quelli che non credono o appartengono ad altre religioni, tra gli emarginati, come faceva Gesù, con la sua sensibilità, col suo stile, accogliendo e amando, offrendo ospitalità. Quest’esposizione di Gesù sarà tanto più efficace quanto più semplice, povero e disarmato sarà lo stile di missione. Può darsi che alcuni, attirati, entrino nella chiesa, ma ciò non deve essere l’obiettivo primario ed esclusivo della missione. La finalità della missione è più vasta: che tutta la vita umana sia trasformata, in essa ovviamente c’è anche la religione, ma certo non si riduce ad essa. Senza contrapporre Regno e Chiesa, dobbiamo credere che i servitori del regno sono già nell’ambito di Gesù.
7. Il criterio di riuscita della missione non sarà il numero dei battezzati o dei praticanti, ma quello di coloro che cominciano a vivere una vita nuova secondo il Vangelo, una “vita pienamente umana”, segnata dalla ricerca della libertà, della fraternità, della pace e della riconciliazione. Non si diventa cristiani per salvarsi, ma per salvare, non per essere amati, ma per amare ed, essendo amati, per amare e servire.
8. Ma il punto decisivo è che il missionario, se vuol essere autentico, deve presentarsi culturalmente povero e disarmato, pronto ad accogliere il bene che trova. Non c’è rinnovamento nella vita ecclesiale e tanto meno in quella missionaria se non si assume la povertà evangelica, come mostrano le indicazioni costanti e chiare di Gesù per i discepoli inviati. Occorre mettersi, da poveri e da servitori, tra i “lontani” ossia, tra i poveri e i non credenti e gli emarginati della società. Finché il missionario non farà il passo della povertà e la sua forza sarà nel denaro e nel potere (fosse pure spirituale), continuerà a rinfrescare …vecchi muri cadenti. Non bastano i documenti, i progetti e i capitoli: saranno sforzi ‘spirituali’ patetici e inconcludenti. Solo con la povertà, si farà quel salto di qualità che fa passare dalla professione alla testimonianza e quindi all’annuncio autentico e liberante.
Questo è quello che chiede Francesco alla Chiesa oggi
Questa è ciò che viene anche dalle proposte e dalle richieste di papa Francesco. Egli chiede insistentemente di “uscire”, di farsi missione e di rimettere al centro di tutto il Vangelo della misericordia. Si tratta di una chiamata recepita dai singoli, mentre le istituzioni hanno più difficoltà che non le persone a entrare nella logica della missione. Le istituzioni – anche quelle missionarie – tendono a difendere la stabilità, la conservazione, le tradizioni acquisite, quando non la logica del controllo e del potere. E questo blocca le iniziative nuove. È comprensibile che un istituto faccia fatica ad accogliere la novità e il rischio connesso a ogni cambiamento, ma questo impedisce di dar concretezza alle ispirazioni che vengono dallo Spirito. Questa è stata la grandezza dei fondatori.
Il Papa non si stanca di chiedere che la Chiesa lasci il “si è fatto sempre così” ed esca verso le periferie alla ricerca di chi ha bisogno di salvezza e di speranza. “Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa” (EG 27) pur col rischio di “infangarsi” (ib. 49). La missione, l’andare fuori in uscita è il respiro della Chiesa, la vita stessa della comunità cristiana, altrimenti va in crisi e si ammala. Il Papa vuole una chiesa misericordiosa, sinodale e soprattutto “una chiesa povera per i poveri” e una chiesa che va incontro all’altro. La diversità tra questa missione e quella attualmente praticata è evidente. Il problema non è se questo tipo di missione corrisponde all’ispirazione storica iniziale di un istituto, ma se risponde all’ispirazione evangelica originaria. Il fondatore ci ha voluto evangelici (comprendendo ciò a suo tempo secondo le possibilità di allora) e certo sarà contento se noi oggi riusciamo a ripulire un poco la nostra maniera di far missione ispirandoci al modello del discepolo del vangelo. C’è da credere che egli sarà felice, se noi daremo alla nostra famiglia missionaria quel volto che attira i non cristiani, che annuncia il mistero di Gesù Cristo e che sprigiona attorno a sé la gioia del vangelo. Non è forse questo che il fondatore voleva quando ha dato inizio alla sua famiglia missionaria?
P. Gabriele Ferrari s.x.
(Padre Generale emerito dei Saveriani)
Testo pubblicata nella rivista Testimoni a febbraio 2017