Martedì 17 marzo 2015
Il convegno [tenutosi a Roma dal 13 al 15 marzo 2015], per dirla con il prof. Fulvio De Giorgi nella sua sintesi, “ci ha posti in un crocevia, e ci ha chiamati e ci chiama ad una svolta, ad un impegno a ‘de-colonizzare’ le nostre speranze, le nostre volontà, i nostri disegni, i nostri immaginari, i nostri sguardi”. Presentiamo la sintesi del prof. De Giorgi che ha concluso il convegno. Una sintesi che raccoglie gli elementi essenziali di tutto ciò che è stato condiviso in questo tempo di incontri, che è molto più delle parole dette nelle relazioni e nelle tavole rotonde, una sintesi anche del non-detto, dell’accennato, del significato profondo di un vissuto che si è dipanato nei tre giorni dell’evento. Una sintesi che il prof. De Giorgi ha organizzato attraverso due parole-chiave: Piano e Cuore.

 

Introduzione

Il convegno Africa: continente in cammino, tenutosi a Roma presso l’Auditorium del Seraphicum, dal 13 al 15 marzo, è terminato. Esso ha rappresentato la tappa finale delle celebrazioni del 150° anniversario del Piano per la Rigenerazione dell’Africa: un evento pubblico, secondo le intenzioni del Consiglio Generale, che ha fatto seguito al seminario di studio del mese di settembre del 2014, dedicato alle urgenze missionarie del mondo d’oggi. Il convegno aveva come tema principale ciò che del Piano è il cuore, cioè l’Africa e la sua rigenerazione.

È stato un tempo di conoscenza, di scambi personali, di ‘convivialità delle differenze’, di messa in comune di esperienze; molto più, quindi, di un momento di studio sull’Africa, è stato un incontro con l’Africa attraverso artisti, persone impegnate nella politica e nella società civile, studiosi ed ecclesiastici. Un convegno che ci ha fatto percepire come il ‘rinascimento africano’ non sia solo uno slogan vuoto, ma una realtà che si rende esplicita in persone che vivono e lottano per essere protagonisti della storia dell’Africa e del mondo. Per questo è stato un ‘evento’ nel senso più pregnante del termine, un fatto che provoca un mutamento di mentalità e un fattore di innovazione nella percezione dell’Africa.

Il convegno, per dirla con il prof. Fulvio De Giorgi nella sua sintesi, “ci ha posti in un crocevia, e ci ha chiamati e ci chiama ad una svolta, ad un impegno a ‘de-colonizzare’ le nostre speranze, le nostre volontà, i nostri disegni, i nostri immaginari, i nostri sguardi”. Presentiamo la sintesi del prof. De Giorgi che ha concluso il convegno. Una sintesi che raccoglie gli elementi essenziali di tutto ciò che è stato condiviso in questo tempo di incontri, che è molto più delle parole dette nelle relazioni e nelle tavole rotonde, una sintesi anche del non-detto, dell’accennato, del significato profondo di un vissuto che si è dipanato nei tre giorni dell’evento. Una sintesi che il prof. De Giorgi ha organizzato attraverso due parole-chiave: Piano e Cuore.

Pensiamo che sia un eccellente strumento che, facendoci rivivere i giorni del convegno, ci fa sentire quell’‘ardore del cuore’ che cambia il nostro sguardo e cerca appassionatamente il bene del prossimo.

 

P. Enrique Sánchez González,
Superiore Generale,
e
Fulvio De Giorgi.
 

SINTESI DEL CONVEGNO

AFRICA:
CONTINENTE IN CAMMINO

Roma 13-15 marzo

Premessa: uno sguardo positivo
Se Daniele Comboni fosse, in questo momento, al mio posto, avrebbe il cuore colmo di commozione e di gioia: avvertire l’Africa così cresciuta, ascoltandone alcune voci molto espressive; riconoscere i figli e le figlie dei suoi Istituti, provenienti da continenti diversi, coinvolti in questo grande processo; vedere il suo sogno di rigenerazione in parte compiuto, con tanti frutti (anche o soprattutto nel laicato e nelle donne), e in parte pista di intuizioni ancora valida per sorreggere il futuro. Quale pienezza di commozione e di gioia!

Ma – se ci pensiamo – proprio questo è, mi pare, il principale frutto del nostro Convegno, che ci ha posti in un crocevia e ci ha chiamati e ci chiama ad una svolta.

Ci siamo incontrati, ci siamo parlati e abbiamo capito che molte questioni e molti aspetti possono essere ancora approfonditi e discussi, ma una cosa – se c’è stata – non può mai più esserci: uno sguardo negativo, sfiduciato, dubbioso, catastrofico e triste sull’Africa.

Il nostro sguardo si muove su visuali plurali e positive, su orizzonti costruttivi di senso e di impegno, con fiducia nella possibile felicità del nostro prossimo e perciò con gioia: e qui ci sentiamo bene. Come ci dice Papa Francesco nella Evangelii gaudium: “Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri. Questa apertura del cuore è fonte di felicità” (n. 272).

Questo è più che un sentimento: è una consapevolezza e, da oggi, da qui, è una consegna.

Ciò peraltro mi consente di tentare di tracciare la sintesi dei lavori. Sempre il Papa suggerisce: “Dove sta la tua sintesi lì sta il tuo cuore. La differenza tra far luce sulla sintesi e far luce su idee slegate tra loro è la stessa che c’è tra la noia e l’ardore del cuore” (EG, n. 143).

Non so se avrò l’ardore del cuore. Certo non ripercorrerò nell’ordine i vari interventi, facendone brevi riassunti, in fondo slegati. Cercherò di enucleare le cifre essenziali, le chiavi strategiche di sintesi. E lo farò in modo “moderatamente comboniano” (per usare l’espressione di Jaume Calvera).

Parto allora dal pensiero di san Daniele Comboni, già citato dal Superiore Generale dei Missionari Comboniani, P. Enrique Sánchez González, nella sua apertura dei lavori: “È il S. Cuore di Gesù che mi ha fatto sormontare tutte le enormi difficoltà per realizzare il mio Piano per la Rigenerazione della Nigrizia con la Nigrizia stessa”.

Le parole-chiave, dunque, attorno alle quali organizzerò la mia sintesi, sono due: Piano e Cuore.

1. Piano

1.1 Innanzitutto “Piano”.

Cos’è un piano? È un progetto che mette in gioco le nostre capacità critiche razionali e che impegna le volontà, sorretto da una grande speranza.

Siamo chiamati tutti, di ogni continente, a de-colonizzare le nostre speranze, le nostre volontà, i nostri disegni, i nostri immaginari, i nostri sguardi, i nostri piani, come hanno detto molti (non solo tra i relatori ma anche tra coloro che sono intervenuti nei dibattiti). E possiamo de-colonizzare le speranze, affidandole ad una Speranza che è più grande di noi e che ci sorregge nelle nostre fatiche.

La de-colonizzazione dello sguardo rende limpido il nostro occhio e ci fa vedere un’Africa che cammina e che cresce (come ci ha detto Madre Luzia Premoli, Superiora Generale delle Suore Comboniane), un’Africa protagonista internazionale (come ha osservato Mario Raffaelli), della quale l’Europa può essere partner nei fattori positivi. Beatrice Ngalula Kabutakapua, Françoise Kankindi e Fortuna Ekutsu Mambulu ci hanno fatto intravedere questa New Africa, questo fresco e giovane Rinascimento africano. L’Europa può cooperare a tale Rinascimento: una cooperazione significativa, camminando insieme in amicizia. L’Africa degli Africani – ci hanno detto – vuole vivere con pienezza la sua vita, accanto a tutti i popoli.

Abbiamo allora visto come, superando stereotipi e de-colonizzando lo sguardo, la diaspora e le migrazioni, in tutte le direzioni e a tutto campo, transcontinentali e verso tutti i continenti, sono una risorsa. Ciò non significa non vedere che possano essere causate da ingiustizie e squilibri e che si realizzino con grandi sofferenze. Significa però non fissarle per sempre in un orizzonte negativo di morte, ma liberarle e rigenerarle come occasione, come risorsa, come chance per un mondo più plurale e più bello.

Ecco: più bello. Le mostre allestite qui attorno, le proiezioni, i momenti artistici del Convegno ci hanno fatto constatare la grande risorsa di bellezza e di creatività estetica che ci viene dalla nuova arte, dalla nuova cinematografia, dalla nuova musica, dalla nuova scultura africane.

E la nostra speranza vede così meglio la travatura positiva che si costruisce in un progetto, in un Piano, che cresce attorno a noi.

1.2 “Piano” richiama ancora “l’appianare”: cioè il colmare i fossati e abbassare i monti: mettere tutti sullo stesso piano. E qui il discorso si fa esigente. Sappiamo che il discorso di Gesù che Matteo colloca sulla montagna, Luca lo presenta in pianura e con toni più forti (“Guai a voi o ricchi!”). Se siamo sullo stesso piano, ci guardiamo direttamente negli occhi: così le ingiuste disuguaglianze diventano evidentemente intollerabili.

Entriamo, allora, nella dinamica ‘appianatrice’ del Magnificat: ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili. Capiamo così (come ci ha detto Samia Nkrumah) che è giusto che gli africani possano controllare le loro economie a beneficio degli africani stessi e che ritrovino la via del panafricanismo.

Appianare significa, pure, colmare i fossati, i baratri della corruzione delle élites di governo (come ci ha detto, sempre, Nkrumah): riconoscere, cioè, che la democrazia africana deve essere autonoma e nuova, non modellata sulle forme europee, e che nel suo cammino realizzativo ci sono luci, ma anche ombre di governi corrotti e dittatoriali, che vi è dunque anche un fallimento delle leadership africane (sottolineato da Nkrumah e Raffaelli) e che, sulla scorta di un nuovo protagonismo positivo delle società africane, bisogna formare i cittadini per migliorare le dirigenze politiche e avere politici disinteressati e anche per avere, nei cittadini stessi, agenti di trasformazione sociale (come ha sottolineato Efrem Tresoldi, citando Pierli). Appianare significa abbattere le montagne delle inimicizie, degli odi, delle guerre interne, le montagne degli armamenti (come ci ha documentato Maurizio Simoncelli) e cercare sempre tutti di costruire la “strada appianata” della pace e della stabilità (come ha osservato Alfredo Mantica). Ecco allora le Afriche, al plurale, verso le quali continua il nostro cammino: l’Africa della giustizia, l’Africa della pace, l’Africa della salvaguardia del creato, l’Africa dei diritti.

1.3 Ma “Piano” ci dice pure che è meglio andare piano (quante volte, nelle lettere ai suoi missionari, Comboni diceva: non abbiate fretta, come altri missionari; voi andate piano, lavorate sul lungo periodo!). Elogio della lentezza: se vuol dire paziente perseveranza, ascolto vero e discernimento, camminare insieme e non lasciare indietro nessuno. Significa, dunque, una prassi ecclesiologica inclusiva e partecipativa e dal profilo femminile (come hanno detto Luzia Premoli ed Elisa Kidané), che si realizza nelle Comunità di base (come ha sottolineato il card. Peter K. A. Turkson) e perciò in una convivialità delle differenze, che supera le ingiuste disuguaglianze.

Da più parti si è fatta notare l’importanza della conoscenza storica per superare le ferite delle discriminazioni passate e delle guerre civili, più o meno recenti. Tutti i Paesi e i continenti ne hanno avute. Io sono un italiano del Sud trapiantato nell’Italia del Nord e – come sanno tutti gli italiani che sono qui – anche noi abbiamo antichi pregiudizi etnici o perfino etnico-razziali. Nessuno può dare lezioni a nessuno. Ma tutti dobbiamo dirci che, per andare avanti verso strade più pacifiche, occorre parlarsi e cercare insieme una purificazione della memoria e una storia se non condivisa almeno inclusiva dei diversi punti di vista. Ci vuole paziente ricerca, non semplificazioni sbrigative e sommarie: pazienza, andare piano.

Anche come Chiesa che riconcilia e che vive come famiglia di Dio (card. Turkson), dobbiamo, con pazienza, interrogarci sulla storia della salvezza che si dipana nell’oggi di Dio e sulle responsabilità alle quali siamo chiamati.

2. Cuore

La seconda parola-chiave è cuore: il Cuore di Cristo.

Il cuore ha i due fondamentali movimenti di sistole e diastole. Nel Cuore di Cristo questi due movimenti sono l’incarnazionismo e l’escatologismo.

2.1 Da una parte l’Incarnazione: il Vangelo che entra e si fa carne di tutte le culture di oggi, per farle fiorire alla liberazione e alla salvezza.

Il Vangelo entra nei contesti culturali, li assume su di sé: si incultura, si incarna nelle complessità interculturali, nel pluralismo delle identità in evoluzione e dei vissuti, nei confini intellettuali ed esistenziali, nelle culture scartate e degli scartati, nei crescenti meticciati culturali. Oggi il Vangelo ha un volto meticcio.

E questa incarnazione allora sa scoprire, accogliere e valorizzare, come ci ha detto il teologo Martin N’Kafu, tutti i semi del Verbo, ovunque siano: solo così si avrà una vera teologia africana. Una teologia è africana non perché geograficamente si elabora in Africa, ma perché sa accogliere e far fiorire tutti i semi del Verbo sparsi nelle culture e religioni africane viventi, senza escludere nessun territorio culturale, geografico e umano (N’Kafu).

Questa incarnazione, ovviamente, come ha osservato Cécile Kyenge, celebra il primato della vita. E perciò si oppone e lotta contro il traffico degli esseri umani e contro le nuove schiavitù, cioè contro gli orizzonti di violenza e di morte in cui è Cristo stesso, incarnato nei piccoli, che viene violentato e ucciso.

In questa inculturazione col passo dell’incarnazione, un grande ruolo e una grande responsabilità ha la comunicazione: i media e il giornalismo (come hanno osservato Giulio Albanese, Fabrizio Colombo, Pierluigi Natalia, Efrem Tresoldi, Elisa Kidané, Jaume Calvera, Stephen Ogongo). Ciò richiede una crescita in positivo dell’auto-comunicazione dell’Africa (Ogongo) e uno sforzo verso l’integrazione digitale-cartaceo (Calvera) dei media missionari e il fare rete (Albanese), nel rispetto profondo delle persone reali e sempre rendendo visibile e trasparente il positivo che cresce: la perla (come l’ha chiamata Elisa Kidané). Non si tratta di dare paternalisticamente voce a chi non ha voce (Kidanè), si tratta forse di non dare ulteriore voce a chi ne ha già troppa. E perciò continuare a de-colonizzare lo sguardo anche nella stampa missionaria (e comboniana).

2.2 Ma, insieme al movimento dell’incarnazionismo, il Cuore di Cristo ha il movimento dell’escatologismo: cioè la capacità di staccarci da ogni ingiustizia, da ogni idolo, da ogni orizzonte unicamente intra-mondano. Noi, tutti, cristiani di ogni paese e di ogni continente, siamo sempre extra-comunitari in questo mondo (siamo nel mondo, ma non siamo del mondo). Senza incarnazionismo il cuore è vuoto di sangue umano, ma senza escatologismo non pulsa di fede ultraterrena. Senza incarnazionismo avremmo una Chiesa senza mondo (che ci porta ad un mondo senza Chiesa), avulsa dalle masse umane; senza escatologismo avremmo una Chiesa mondanizzata e mondana, incapace di essere libera e indipendente per interpellare le masse.

Kankindi ha detto, con una bella e pregnante espressione: “Mi sento a casa in tanti luoghi”. Ciò è profondo e significativo, ma possiamo dire di più. Il Regno di cui siamo cittadini, la nostra vera patria, non è di questo mondo.

Termino allora con un’affermazione del XII secolo. Diceva il grande mistico Ugo da San Vittore: “Colui che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già una persona forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero”.
Fulvio De Giorgi


P. Enrique Sánchez, Madre Luzia Premoli, superiora delle Comboniane, e Card. Fernando Filoni.


P. Enrique Sánchez, Card. Fernando Filoni, e P. Alberto Pelucchi, Vicario generale dei Comboniani.