Roma, mercoledì 29 agosto 2012
“È da un bel po’ di tempo che sentiamo dire e sperimentiamo che il nostro modo di fare animazione missionaria è in crisi. Le ragioni interne ed esterne di questa crisi sono tante. Il concetto e la prassi missionaria sono cambiati. Sono cambiati anche il mondo, la storia, la Chiesa. E sono cambiati la sensibilità e l’apprezzamento che la gente semplice aveva per noi missionari e per il nostro lavoro. Non siamo più gli eroi di una volta il cui ministero attraeva i giovani e produceva tante vocazioni alla vita missionaria”. Questo è il primo paragrafo della riflessione di P. Jorge García Castillo (nella foto), segretario generale dell’Animazione Missionaria dell’Istituto Comboniano, scritto sul tema “Animazione missionaria in una ecclesiologia di comunione” e reso pubblico nel giorno – 23 agosto – in cui si faceva memoria liturgica di Santa Rosa da Lima.
Animazione missionaria in una ecclesiologia di comunione
“Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza”. (2Cor 8,14)
È da un bel po’ di tempo che sentiamo dire e sperimentiamo che il nostro modo di fare animazione missionaria è in crisi. Le ragioni interne ed esterne di questa crisi sono tante. Il concetto e la prassi missionaria sono cambiati. Sono cambiati anche il mondo, la storia, la Chiesa. E sono cambiati la sensibilità e l’apprezzamento che la gente semplice aveva per noi missionari e per il nostro lavoro. Non siamo più gli eroi di una volta il cui ministero attraeva i giovani e produceva tante vocazioni alla vita missionaria.
Ci sono poi molti cristiani – e forse anche noi – che pensano che, per fare i missionari, non sia necessario andare oltre, ad extra. La famosa espressione “ad gentes” è messa in discussione e, semmai, la si vorrebbe sostituire con “inter gentes”. Sono molti nella Chiesa, soprattutto in Europa, quelli che si dicono convinti che la missione è tra di noi e bussa alla nostra porta nei tanti migranti che arrivano. Altri affermano che il mondo secolarizzato e scristianizzato del nord del pianeta ha più bisogno di evangelizzazione dei cosiddetti territori di missione. Dunque, perché andare oltre, al di là delle nostre frontiere?
Non possiamo convincere tutti questi e quanti mettono in discussione la nostra specificità missionaria con gli argomenti di sempre. Dobbiamo piuttosto animarli affinché i tanti bisogni interni non siano un pretesto per chiudersi alle necessità dei più lontani. Ad essi, e a quanti di noi la pensano come loro, bisogna dire che la missione-evangelizzazione è inerente alla vocazione di tutti i battezzati. Paolo VI ha scritto infatti: “La Chiesa lo sa. Essa ha una viva consapevolezza che la parola del Salvatore - «Devo annunziare la buona novella del Regno di Dio» (Lc 4,43) - si applica in tutta verità a lei stessa. E volentieri aggiunge con S. Paolo: «Per me evangelizzare non è un titolo di gloria, ma un dovere. Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1Cor 9,16). È con gioia e conforto che Noi abbiamo inteso, al termine della grande Assemblea dell'ottobre 1974, queste parole luminose: «Vogliamo nuovamente confermare che il mandato d'evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione essenziale della Chiesa» (Dichiarazioni dei padri sinodali, 27 ott. 1974), compito e missione che i vasti e profondi mutamenti della società attuale non rendono meno urgenti. Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare” (Evangelii Nuntiandi, 14). E non credo parlasse soltanto di evangelizzazione ad intra, cioè al di qua delle nostre frontiere.
Occasione provvidenziale
Fra poche settimane si compiono cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, avvenimento ecclesiale, pastorale, teologico e storico che ha cambiato radicalmente il cammino della Chiesa universale degli ultimi tempi.
Per commemorare questo evento ci saranno molte celebrazioni; moltissimo si dirà e si scriverà e tanti credenti cercheranno di recuperare il tempo perduto e le opportunità sprecate.
Stimolato da questo fatto provvidenziale, ho creduto opportuno, a titolo personale e come segretario generale dell’AM, condividere queste riflessioni con tutti i confratelli; specialmente con quelli che lavorano nell’animazione missionaria di base o nei tanti mezzi che abbiamo a nostra disposizione per rendere un servizio di animazione nelle Chiese locali e nelle nostre comunità. In questo modo, anche noi potremo approfittare di quest’occasione per rivedere la nostra AM e trovare nuove vie per rifondarla o rilanciarla.
Sotto il segno della comunione
Tra i valori più alti ai quali ci spinge, da quasi mezzo secolo, il Vaticano II c’è il valore della comunione. In questa scia s’inserisce anche la prassi di evangelizzazione e animazione missionaria proprie di noi comboniani: promossa e incoraggiata dagli ultimi Capitoli Generali e dal recente processo della Ratio Missionis.
Come missionari comboniani, eredi e portatori del carisma di Daniele Comboni, da sempre siamo caratterizzati da questo atteggiamento di fondo. Così ci è stato insegnato dal nostro padre e fondatore che, anche nei momenti e nelle situazioni più difficili, è stato sempre un uomo di comunione con la Chiesa.
Noi, oltre che comboniani, siamo cristiani, religiosi e credenti che si rifanno alla Parola di Dio. A questo punto, possiamo citare un testo di san Paolo, dalla Seconda Lettera ai Corinzi: “Siate ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa” (2Cor 8,7). Essere larghi, mi sembra, significa essere “cattolici”, cioè universali; avere un cuore aperto alle necessità di tutti i fratelli, specialmente dei più lontani.
Le parole di Paolo, oggi come allora, ci insegnano quanto sia importante avere uno spirito di comunione come programma di vita.
La Chiesa di Corinto era una comunità molto speciale: arricchita da molti doni dello Spirito Santo, anche con carismi straordinari. Malgrado ciò, nel suo seno c’erano tante divisioni e problemi che si manifestavano perfino nella celebrazione eucaristica, momento centrale e fondante nella vita di ogni comunità cristiana. A tale proposito avverte san Paolo: “Su questo non posso lodarvi perché vi riunite non per il meglio ma per il peggio… quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi… Ciascuno, infatti, quando si siede a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame e l’altro è ubriaco… Volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!” (cfr. 1Cor 11,17-22).
Il testo paolino riporta la preoccupazione pastorale dell’Apostolo che continua ad essere di una grande attualità. In effetti, la Chiesa dei nostri giorni vive dentro un sistema strutturalmente ingiusto ed escludente. L’unica risposta possibile sarebbe dunque promuovere e creare una prassi pastorale e un’ecclesiologia di comunione che, secondo Paolo, cerchi di mettere alla prova la sincerità dell’amore dei cristiani “con la premura verso gli altri” (v. 8). Questa premura è un atteggiamento caratteristico della missione. L’evangelista Luca, autore del Terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, in uno dei primi testi missionari, dice che, dopo l’annuncio dell’Angelo, Maria “si alzò e andò premurosa verso la regione montuosa, in una città di Giuda” (Lc 1,39). Premurosa e sollecita, Maria parte, portando nel suo ventre la Parola di salvezza che è suo figlio.
Premurosi e solleciti dobbiamo essere tutti noi comboniani, specie quelli che abbiamo come compito specifico l’animazione missionaria. Tocca a noi stimolare le nostre comunità, le Chiese, la società e quanti si danno da fare per creare un mondo più giusto affinché il sogno di Dio “non ci saranno poveri in mezzo a voi” (Dt 15,4) diventi realtà. Per la nostra Regola di Vita i poveri sono quelli che non hanno niente, i poveri, ma anche quelli che non hanno ancora ricevuto il dono della fede.
In questo senso, e secondo la prassi più classica, la nostra animazione missionaria avrebbe come scopo creare fra tutti legami di comunione e di condivisione, come dice un testo paolino: “Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza” (2Cor 8,14). Atteggiamento che non ha niente a che fare con la logica egoistica e pagana del “do ut des”.
Dopo queste considerazioni, vorrei spingermi un po’ più in là.
I segni dei tempi
Il mondo, la società e la Chiesa vivono momenti molto difficili, drammatici, in molti casi. Nessuno di noi può dire di non esserne al corrente. Gli ultimi Capitoli Generali ne hanno parlato fin troppo. Ce lo ricorda in ogni momento il Magistero sociale della Chiesa e lo ripetono in continuazione i media.
E ciò che accade nel mondo ci tocca da vicino come missionari e come credenti. Soprattutto perché sappiamo che non è una situazione né casuale né passeggera. Ha radici profonde ed è il risultato di un modo di vedere, d’interpretare e vivere la realtà discostandoci dai piani di Dio e dalla sua Parola. È un male strutturale, frutto del peccato personale e sociale che, al posto dell’uomo e della sua dignità, mette il capitale, le finanze, il profitto. Il resto non conta. L’uomo e il creato vengono ad occupare un posto irrilevante nella scala dei valori del sistema. È un darwinismo sociale che sacrifica tutto sull’altare del capitale e della finanza.
Senza inoltrarmi in altre considerazioni, alla luce della Parola e della nostra tradizione comboniana, vorrei dire una parola sull’Animazione Missionaria secondo un’ecclesiologia di comunione. Per questo userò alcune idee dei documenti del Concilio Vaticano II, soprattutto della Lumen Gentium.
Noi comboniani abbiamo sentito dire da sempre che l’AM è parte importante del nostro carisma. Lo stabilisce la nostra Regola di Vita (nn. 72-79)[1] e lo confermano gli ultimi Capitoli, soprattutto quelli del 1997, 2003 e 2009. Quest’ultimo dice che essa deve essere intesa come “stimolo alla Chiesa e alla società perché operino a favore della vita in ogni sua dimensione, in particolare di quella dei popoli emarginati” (AC 2009, 180.2).
Tutti siamo convinti di queste affermazioni. Tutti sentiamo il bisogno e l’urgenza di darci da fare in questo campo, di non mollare, perché consapevoli che fare un’animazione missionaria seria ed efficace sia ancora possibile e necessario perché, per tanti nostri fratelli, si tratta di un problema di vita o di morte.
Ora, se il nostro modo tradizionale di fare AM produce sempre meno frutti, se non riusciamo a entusiasmare le comunità dei credenti e sono sempre di meno i giovani che ci chiedono di diventare missionari, bisogna camminare verso un rinnovamento nel nostro modo di fare e di essere, in modo da uscire da questa impasse che ci scoraggia e, in qualche modo, ci fa sentire dei falliti. Questo rinnovamento però non sarà mai facile perché non è solo una questione di forme, di metodo. Si tratta piuttosto di entrare nella dinamica della Pentecoste: l’avvenimento che ha cambiato radicalmente i discepoli, uomini paurosi e pieni di complessi, che toccati dallo Spirito si trasformano in testimoni coraggiosi del Vangelo.
“Cambia, tutto cambia…”
La “canción social”, che ebbe grande successo nei decenni scorsi in America Latina, più che una moda, è stata l’espressione di una grande sensibilità sociale che ha spinto molti verso un vero impegno per la liberazione delle nazioni latinoamericane. Alcuni dei pezzi più famosi erano interpretati anche in chiesa e nelle comunità di base, in incontri di preghiera ed eucarestie. “Todo cambia”, per esempio, è diventato una specie d’inno dell’impegno sociale d’intere generazioni di giovani non solo in America Latina.
In AM, secondo il nostro ultimo Capitolo Generale, c’è un nuovo paradigma teologico ed ecclesiale “secondo il quale non c’è Chiesa ‘missionaria’ e Chiesa ‘oggetto di missione’, bensì Chiese responsabili dell’evangelizzazione e della missione oltre i propri confini geografici e sociologici” che “ci obbliga a rivedere contenuti e modalità della nostra AM” (AC 2009, 180.1). Dunque, sia l’evangelizzazione che l’AM sono un movimento di “andata e ritorno” che porta a un arricchimento vicendevole.
È la dinamica del “dare dalla propria povertà” del numero 368 dei Documenti di Puebla che è poi diventato patrimonio della Chiesa universale. “È vero che noi stessi abbiamo bisogno di missionari; ma dobbiamo dare dalla nostra povertà”, scrivevano i vescovi. Il principio continua a essere valido perché scaturisce dallo spirito di comunione e condivisione. Infatti, nessuno è tanto ricco da non avere bisogno degli altri o tanto povero da non poter dare nulla.
Come comboniani, tutti abbiamo fatto o faremo l’esperienza di partire e tornare in un esodo continuo, di andare oltre portando con noi il Vangelo e i mezzi necessari per aiutare le Chiese che devono ancora essere consolidate e di tornare portando con noi valori religiosi, sociali e culturali che vogliamo condividere con le comunità o le Chiese che ci hanno inviato. È, questo, un modo nuovo di fare animazione missionaria che consiste nel raccontare “ciò che abbiamo visto e udito e le nostre mani hanno toccato” (cfr. Gv 1,1ss). Questo modo di essere e di fare ci sembra più autentico e convincente perché non è una semplice strategia per chiamare ad una maggiore generosità né, tanto meno, un’ingenua mistificazione di realtà sociali, culturali, politiche, economiche ed ecclesiali del sud del mondo.
AM, responsabilità di tutto il Popolo di Dio
Ciò che ora dirò è già stato detto o accennato prima. Lo faccio solo per rafforzare ciò che mi sembra fondamentale. Che il Concilio Vaticano II rappresenti una svolta storica e teologica unica lo sappiamo. È stato il primo concilio in cui tutto il popolo di Dio è stato presente e non solo rappresentato. È stato il primo concilio che ha dato voce anche ai non cattolici. Ed è stato così, perché è stato un concilio pastorale ed ecumenico.
Da allora abbiamo capito molto bene che i soggetti del lavoro pastorale della Chiesa non sono solo i membri della gerarchia ma tutti i battezzati. Lo afferma il n. 11 della Gaudium et Spes: “Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede, infatti, tutto rischiara di una luce nuova, svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane”.
Senza paure e senza falsi pudori i padri conciliari parlano del popolo di Dio come insieme di tutti i credenti in Cristo: gerarchia, consacrati e battezzati mettendo così le basi per una “ecclesia di comunione” secondo il modello della Trinità.
Letta sotto quest’ottica, tanto la missione, come l’animazione missionaria che ad essa è legata sostanzialmente, verranno concepite e vissute in modo nuovo come compito di tutto il popolo di Dio: pastori e fedeli.
Su questo particolare, un ulteriore contributo ci viene offerto dall’inizio della costituzione dogmatica Lumen Gentium, sulla Chiesa: “Cristo è la luce del mondo: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che risplende nel volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggior chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e la propria missione universale” (LG 1).
Il testo, conosciuto da tutti noi e citato a destra e a manca, è stimolo e provocazione per la Chiesa tutta ma soprattutto per noi come istituto missionario. In esso si parla dello Spirito Santo, protagonista della missione e fuoco che anima la Chiesa a diventare sacramento universale di salvezza per tutti, secondo la teologia di fondo di Is 49 dove si dice: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (v. 6).
Per noi missionari comboniani, battezzati, consacrati, membri della Chiesa e dunque discepoli di Gesù Cristo, la cosa è ancora più chiara. Il nostro modello è la Trinità: il Padre, che con “liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà” crea l’universo e progetta la salvezza per tutti; il Figlio, inviato ad annunciare e inaugurare il Regno, e lo Spirito Santo, che santifica la Chiesa e conduce l’umanità alla verità tutta intera.
È bello e stimolante rendersi conto che in questo processo la Chiesa non è tutto, non è al centro di tutto o un valore assoluto. La realtà centrale più importante è il Regno di Dio che si manifesta nelle parole e nelle opere di Gesù (vedi LG n. 5). La Chiesa ne costituisce soltanto “il germe e l’inizio”, perché è un’entità imperfetta che “comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione (e) avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento”. Le possibilità che si aprono nei campi del dialogo interreligioso e del macroecumenismo sono allora infinite.
Andando oltre, al n. 9 della LG troviamo un’altra idea centrale dell’argomento che cerco di spiegare. Qui si parla anche di “nuova alleanza e nuovo popolo (di Dio)” e della dimensione universale e comunitaria della salvezza di Dio che “volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità”. Questa realtà, si dice ancora, deve estendersi a tutta la terra, entrare nella storia degli uomini e trascendere i tempi e i confini dei popoli (cfr. tutto il n. 9).
Altrettanto interessante in questo campo è il tema del sacerdozio comune dei fedeli per opera dello Spirito Santo, mediante il quale “i battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce”. Ciò è possibile a condizione di rendere “la testimonianza di una vita santa, l’abnegazione e la carità operosa” (n. 10).
Del ruolo profetico dei battezzati e la “viva testimonianza”, come mezzo per portare a tutti la salvezza, parlano anche i numeri dall’11 al 16. Affermazioni nuove e stimolanti, troviamo anche al n. 33, dove si dice che grava “su tutti i laici il glorioso peso di lavorare perché il disegno divino di salvezza raggiunga ogni giorno di più tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra” (n. 33). Essi, aggiunge il n. 35, “anche quando sono occupati in cure temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per l’evangelizzazione del mondo”. Missione che passa attraverso il servizio alla giustizia, alla carità e alla pace (vedi n. 36). Mentre nel n. 38 ci sono dichiarazioni stupende come queste: “Ogni laico deve essere davanti al mondo un testimone della risurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno di Dio” e “ciò che l’anima è nel corpo, questo siano i cristiani nel mondo”.
Anche il nostro Capitolo Generale del 2009 parla di collaborazione con il mondo dei laici e con le “varie organizzazioni civili che promuovono un mondo più giusto e solidale” (n. 180.3). Se il Capitolo si esprime in questo modo, noi non abbiamo il diritto di cercare il loro aiuto soltanto per impegni secondari, magari per distribuire buste nelle nostre giornate missionarie, dove queste ancora ci sono.
Conclusione
Se vogliamo che il nostro ministero di AM entusiasmi e coinvolga le Chiese in cui siamo presenti, non possiamo rimanere al margine di quanto succede nella Chiesa e nel mondo e tanto meno di quel grande avvenimento che è stato il Vaticano II. Magari alcune delle sue affermazioni ci sembrano sorpassate, anacronistiche, in realtà sono di grande attualità. Rileggendone i documenti, ci rendiamo conto che tante porte e possibilità si aprono, perché essi sono il risultato di una nuova visione pastorale e teologica e sono perciò, ancora oggi, uno stimolo perché tutta la Chiesa (specie noi missionari) torni all’essenziale della sua (nostra) missione.
Non possiamo neanche illuderci pensando che il risultato della nostra AM dipenderà anzitutto dall’uso delle nuove tecnologie della comunicazione, del mondo multimediale. Questi sono solo mezzi, privilegiati e straordinari, ma solo mezzi. Per essere efficaci, devono essere accompagnati dalla testimonianza di una vita consacrata coerente e impegnata con i valori del Regno, sempre vicina a quelli che sono vittima dell’ingiustizia e dello sfruttamento, per trovare assieme a loro cammini di giustizia, di pace e di vita abbondante.
A questo punto, non mi rimane altro che citare uno dei testi più belli del Vaticano II, parole che faranno storia nella Chiesa di Gesù: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo. Nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 1).
P. Jorge García Castillo
Roma 23 agosto 2012,
Memoria di Santa Rosa da Lima
[1] RV 72: “I missionari comboniani, per vocazione e sull’esempio del Fondatore sono chiamati all’animazione del Popolo di Dio, affinché riconosca le proprie responsabilità missionarie e si impegni nell’annuncio del Vangelo al mondo intero”.