Roma, sabato 18 febbraio 2012
Padre Enrique Sánchez González, superiore generale dell’Istituto, è intervenuto via skype all’assemblea europea dell’animazione missionaria ed evangelizzazione, tenutasi a Pesaro dal 7 al 17 febbraio scorso. Pubblichiamo qui di seguito l’intervento del superiore generale sul ruolo attuale dei Missionari Comboniani in Europa.
Missionari Comboniani
Province Europee
Pesaro 11.02.12
Assemblea europea di animazione missionaria e evangelizzazione
Intervento di P. Enrique Sánchez González, Superiore Generale
(via Skype)
Come essere comboniani oggi in Europa?
Dobbiamo ricordare che questa è una riflessione iniziata da tempo nelle province comboniane del continente europeo. E’ una riflessione che cerca di rispondere alla novità che vive questo continente e noi come persone che fanno parte di questa realtà.
Molte volte ci troviamo di fronte alla domanda: che cosa dobbiamo fare, cosa vuole il Signore da noi, come dobbiamo rispondere come missionari di fronte alla realtà dell’Europa che cammina per una strada nuova e difficile del suo rapporto con Dio?
Mi sembra che questa riflessione e ricerca diventa ogni giorno per noi una sfida che ci obbliga a percorrere un cammino che ci fa visitare il nostro essere più profondo, come persone e come missionari.
E’ una riflessione che ci sfida a non rimanere in una missione conosciuta. Una missione dove sappiamo come fare e dove arrivare per offrire le nostre capacità. In questa sfida mi sembra che dobbiamo essere attenti a due aspetti importanti:
Un’altra sfida sicuramente è quella di imparare a collaborare tra noi, tra le province, e anche con altre persone e istituzioni in Europa. Oggi non possiamo fare da soli e la difficoltà è che dobbiamo imparare a collaborare. Durante molto tempo siamo stati molto bravi e capaci di fare con le nostre forze, adesso dobbiamo aprirci e accettare quello che ci viene offerto da altri dal nostro mondo religioso, ma anche dal mondo laico.
Come missionari non ho dubbio che la sfida più grande è quella di essere più testimoni che operatori, più presenza del Dio che portiamo in noi, che agenti di sviluppo. La sfida è quella della testimonianza.
Per questo mi pare necessaria una riflessione seria e profonda sul nostro stile di vita. Non è il nostro fare che conta e provoca la curiosità e l’interesse della gente, ma lo stile di vita, i valori che portiamo dentro e sono fondamento del nostro agire.
Abbiamo bisogno di un cambio profondo sopra tutto in quello che ha a vedere con la nostra esperienza spirituale, con la esperienza che garantisce il nostro agire missionario. Abbiamo bisogno di una esperienza forte del Signore.
Ma è necessario dire subito che l’esperienza spirituale non consisterà nel pregare di più, dire più rosari, dare più tempo ai ritiri. L’esperienza di cui voglio parlare è un’esperienza che significa piuttosto apertura a Dio, una profonda vita di fede, stare con Dio, ascoltare la sua Parola perché diventi criterio di discernimento.
Apertura e attenzione all’altro: apertura e comunione.
In altre parole, penso che se non c’è una vita comunitaria forte e se continuiamo a diluire il senso della nostra consacrazione, non vedo come potremo diventare significativi in un mondo che è diventato liquido.
Molte volte mi sono chiesto come mai non c’è gente che gira attorno a noi?
Le nostre comunità stanno diventando spazi freddi dove cadiamo nella trappola della routine, senza condivisione di ciò che portiamo dentro.
Dobbiamo creare un ambiente di comunione fraterna, lasciare la critica corrosiva e costruire una comunità di vita.
Fare attenzione all’altro, al povero, all’abbandonato che troviamo in Europa. Non solo i poveri di pane, poiché c’è abbondanza di pane… Ma dobbiamo renderci conto che c’è una povertà scandalosa in Europa, una povertà fatta di vuoto, di mancanza di senso di vita, di preoccupazione esagerata per il benessere, la comodità…
Non abbiamo solo il problema di discernere quale lavoro svolgere. La sfida tocca il profondo della nostra vita. Ci vuole vita comunitaria forte. Essere orgogliosi di essere uomini di Dio, senza diluire la nostra identità.
Questo mondo che diventa una realtà liquida ha bisogno della qualità della nostra vita spirituale e comboniana per dare risposte a questa realtà.
Che fare per essere audaci?
Le risposte non sono automatiche. Ciascuno faccia un discernimento serio su se stesso. Dobbiamo entrare in un cammino di ricerca e di conversione.
Dobbiamo finirla con un agire missionario che non è in sintonia con l’essere uomini di Dio. Altrimenti il nostro parlare diventa ideologia.
Siamo chiamati oggi a camminare per un sentiero di autentica conversione se vogliamo offrire una risposta missionaria alla Europa dove ci troviamo.
Il nostro linguaggio faccia vedere che siamo posseduti da Dio e che sono le cose di Dio che ci interessano. E’ per questo non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla sofferenza dei nostri fratelli e sorelle, poveri e abbandonati.
La chiesa ci chiede di assumere l’impegno dell’evangelizzazione e della nuova evangelizzazione. Questo discorso non è un invito a ricuperare ciò che è ormai perduto: le processioni, le cerimonie, il potere che avevamo… ma un modo nuovo di rendere presente Dio nel mondo e nella società attuale.
Parlare di evangelizzazione non è dire cosa andiamo ad insegnare, ma ciò che ci tocca come evangelizzatori… ci obbliga a partire da noi stessi.
La chiesa ci chiede oggi d’assumere con serietà e creatività l’impegno nell’evangelizzazione e penso che abbiamo capito che non si tratta di crociate di riconquista.
Abbiamo bisogno di essere credenti, di mettere Dio nella nostra vita, non di vivere nel pessimismo e nella tristezza, ma essere capaci di contemplare il futuro con speranza e gioia e questo viene da Dio.
Abbiamo bisogno di essere fedeli, senza accomodamenti e questo ci manca. La fedeltà alla missione, alla consacrazione, alla gente, essere coerenti con quello che diciamo e come viviamo.
I momenti più belli sono quando vediamo i confratelli vivere in sintonia e pagare di persona.
Alle volte diamo l’impressione di sapere tutto, di potere tutto, di non aver niente da imparare dagli altri. Dobbiamo uscire da noi stessi per scoprire Dio che ci chiama a conoscerlo, amarlo e servirlo nella persona dei fratelli e sorelle che serviamo.
Siamo in un momento difficile per gestire quello che siamo nell’Istituto.
La crisi non significa che siamo persi e che non abbiamo una ricchezza con noi. E’ opportunità unica per far crescere qualcosa di nuovo nell’Istituto e nell’umanità. L’Istituto allora rinascerà bello e buono.
Questo non è tempo per chiudersi o lamentarci, per rifugiarci nelle nostre case sicure e confortevoli, nel prestigio o nel buon nome.
E’ tempo di far brillare la nostra luce, il bello della nostra vocazione missionaria, è tempo d’inventare un modo nuovo di fare la missione, se abbiamo un cuore libero e una passione per Dio e per i fratelli e le sorelle. Abbiamo un servizio da fare, partendo dal nostro essere uomini di Dio.