Un ponte tra Comboni e i Comboniani.
Nel 1867 Daniele Comboni aveva fondato il suo Istituto di sacerdoti e Fratelli per la Missione. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1881, questo Istituto è diventato Congregazione religiosa. Per un po' di anni, in terra di missione, si sono trovati a lavorare fianco a fianco i missionari di Comboni e quelli della nuova Congregazione.
Il missionario di cui parliamo oggi rappresenta la linea di continuazione tra i missionari dei due rami. Inoltre è importante anche perché, con i suoi 52 anni di missione, è entrato nella rosa dei “veterani d'Africa”. Diciamo subito che p. Bonomi è nato a Verona nel 1841 ed è diventato sacerdote nel 1864. Dopo un periodo come curato a Montorio, è stato reclutato da Comboni stesso. Imbarcatosi a Trieste nel 1874, ha raggiunto Khartoum poi ha proseguito per El Obeid, quindi è diventato superiore della missione di Delen tra i Monti Nuba, proprio quei monti dai quali erano state rapite dagli schiavisti santa Bakita e la serva di Dio Suor Zeinab Alif.
Uomo di buon senso, di poche parole, senza fronzoli, spicciativo nei modi, p. Bonomi andava diritto alla sostanza delle cose. Costantemente di buon umore, gli piaceva scherzare su tutto e su tutti. Ne è prova una lettera che ha scritto da El Obeid nel 1875 in risposta a una di don Paolo, segretario di Comboni, che lo accusava: “Mi veggo con meraviglia tirato in mezzo a pettegolezzi dai quali sono stato sempre alieno e pei quali non avrei certo intrapreso i viaggi e le disagiate strade dell'Africa centrale… Né Monsignore, né alcuno al mondo, fosse pure il Papa, mi avrebbe strappato una testimonianza di cui non fossi stato persuaso”.
Scrivendo a don Squaranti, rettore dell'istituto comboniano a Verona, dice: “Ti prego di dire a don Rolleri di non spedire in Sudan calze lunghe, anche se don Losi insiste per averne. Sono un vero capriccio e un rompicapo per le suore che hanno altro da fare”. E più avanti esterna il suo spirito umoristico in questo modo: “Qui ci sono alcuni che digiunano per devozione non mangiando il pezzetto di carne che passa la comunità e poi, alla sera, coi soldi della missione, vanno a comperare le scatole di sardine all'olio. Bel digiuno!”.
Vicario generale di Comboni
Nel 1879, quando Comboni è andato in Italia, p. Bonomi è stato chiamato a Khartoum, da Delen, come suo rappresentante. Quale suo vicario generale, informava regolarmente Monsignore su tutto. Nel 1879 gli scriveva: “Per bacco bacchetto, se lei è sulle spine, io non sono sulle rose, ma porto pazienza perché con gli ammalati ci vuole maniera”.
Riguardo alle suore da poco arrivate, dice: “Ad onta di tutte le lodi fattemene, senza nulla togliere alla loro bontà, dico che le sante Francesche di Chantal sono poche, forse perché sono pochi i santi Franceschi di Sales. La superiora è di quei geni che, dicendo di fare la volontà di Dio, riesce sempre a fare la sua, ma santamente, tuttavia si deve perdonare, specialmente da chi ha bisogno di essere perdonato”.
P. Bonomi, per il suo carattere schietto ha avuto delle noie col console austriaco, Hansal, che ha protestato presso Roma. Quando Comboni è giunto a Khartoum lo ha dovuto togliere dall'incarico di Vicario perché: “gli mancano i bei modi e la gentilezza per cui si urta con le autorità, ma è il missionario più capace del Vicariato, di maggior abnegazione, il più abile come parroco e amministratore, il più solido e positivo. Fu contentissimo di essere tolto da quell'incarico perché è di un'umiltà a tutta prova, un vero gentiluomo anche se rozzo e rustico nel trattare, ma ha un'abnegazione da trappista. Quando non è in chiesa, è ad insegnare catechismo ai ragazzi e alle ragazze”(Comboni).
Si diceva cha a Khartoum p. Bonomi avesse rotto la testa a una nera con una bastonata. P. Tappi si è informato del fatto ed è venuto a sapere che “sì, le ha dato una bastonata perché la ragazza era troppo intraprendente (!)con i giovani missionari, ma si è rotto il bastone, non la testa”.
Prigioniero del Mahdi
Nel settembre del 1882 p. Bonomi, con tre missionari e tre suore, si trovava a Delen, sui Monti Nuba. Improvvisamente furono catturati dal mahdisti e condotti prigionieri ad El Obeid. I missionari avevano portato con sé un grande crocifisso di bronzo. Per timore che fosse profanato dai musulmani, durante la notte, elusero la vigilanza delle guardie, scavarono una buca alle falde di un monte e lo seppellirono. Quel crocifisso, grandezza quasi naturale, non è stato ancora trovato.
Nel giugno del 1885, dopo quasi tre anni di dura prigionia, p. Bonomi è riuscito a fuggire. Dopo un viaggio avventuroso, sfuggendo alle guardie che lo inseguivano, ha raggiunto la libertà. Dopo un breve periodo di riposo in Italia, è tornato in Egitto per sollecitare ogni mezzo per la liberazione degli altri prigionieri.
Missionario in Eritrea
Nel 1888 la Santa Sede ha chiesto a mons. Sogaro di inviare un cappellano per le truppe italiane in Eritrea. È stato mandato p. Bonomi che è diventato subito popolare tra gli ufficiali e la truppa. Per la popolazione è stato un fuori serie.
Per suo interessamento è stata aperta la prima scuola per indigeni che egli ha mantenuta per anni, e ha chiamato le suore comboniane. Trasferito ad Asmara come cappellano dell'ospedale, si è interessato per affidare alle Pie Madri della Nigrizia la scuola e l'assistenza ospedaliera.
È morto ad Asmara nel 1927 alla bella età di 86 anni, dopo 52 di vita missionaria, tra la comune venerazione. Era una figura leggendaria nell'Eritrea del tempo. Ecco la testimonianza dell'autorevole e saggio ufficiale Alessandro Sapelli, che ha scritto di lui: “P. Bonomi divenne una figura leggendaria in Eritrea, intransigente in modo feroce verso le missioni protestanti, nonché con scarsa cristianità di sentimenti verso le missioni cattoliche francesi, fu uno dei più validi diffonditori della lingua italiana, starei per dire del dialetto veneto… Lo vedo ancora con la sua veste bianca, ma non sempre candida, con il crocifisso in una mano e il sigaro virginia nell'altra. Era l'idolo dei “diavoletti” della colonia, che lui istruiva e faceva giocare”. (Memorie d'Africa, 1883-1906, Zanichelli, Bologna 1935, p. 35).
(P. Lorenzo Gaiga)