Cristo Luce dei popoli. Comboni e l'universalità della redenzione.
(Articolo pubblicato sull'Osservatore Romano)

Introduzione

Ciascuno di noi, nel bene e nel male, è la reazione naturale e il risultato logico dell’ambiente dove siamo cresciuti, degli incontri fatti, di determinate circostanze nelle quali siamo venuti a trovarci, di letture particolari che hanno forgiato in noi convinzioni, che sono andate consolidandosi nel corso degli anni. Tutto questo costituisce quel vasto patrimonio personale d’esperienze, che ci hanno consegnato temprati alla vita, con il suo carico di responsabilità e di progetti.

I - Sollecitazioni della Grazia

Così è stato anche per Daniele Comboni. Se gli impervi luoghi natii del Teseül, a Limone sul Garda (Brescia), lo testarono fisicamente, quella fucina d’ideali missionari che era il Collegio San Carlo di Verona, voluto dal genio versatile d’un educatore nato, Don Nicola Mazza (1790-1865), lo iniziò a vasti orizzonti ecclesiali in largo anticipo sui tempi.
A Verona, la munifica città che lo accolse e lo adottò definitivamente, avvennero dei fatti che lasciarono in Comboni un solco profondo, dove Dio seminò, a piene mani, i germi di una vocazione straordinaria.
Nel 1846, appena quindicenne, Comboni divorò un’appassionante storia dal sapore genuino, tipico delle primigènie comunità cristiane, che narrava le gesta audaci dei Martiri del Giappone, scritta da S. Alfonso Maria de’ Liguori. Questo libro, per la radicalità nella dedizione dei suoi eroici protagonisti, lo immerse in un clima d’intenso fervore spirituale e di crescente coerenza evangelica. Non c’è da stupirsi allora se, alla scuola dei Martiri e contagiato dai loro esempi salutarmente provocanti, nel 1873, alla piccola porzione di gregge appena affidatagli da Pio IX, nell’omelia inaugurale del suo ministero come Provicario Apostolico, disse:”Io prendo a far causa comune con ognuno di Voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la vita per voi” (Scritti, 3159).
Altri due incontri, avvenuti entrambi nel 1849 a Verona, decisero per sempre della sua vocazione missionaria. Il 22 gennaio 1849 il missionario mazziano Don Angelo Vinco, reduce dalla missione nell’Africa Centrale, con le sue convincenti parole infuse in Comboni l’aspetto d’urgenza e d’incondizionata dedizione alla causa della “rigenerazione dell’Africa”. Ma l’evento, che più d’ogni altro ebbe un impatto decisivo su di lui, fu l’incontro, e in seguito l’amicizia, con un giovane africano, cosa rara a quei tempi in Italia, che per il diciottenne studente di filosofia era come l’incarnazione stessa dell’ideale missionario. Comboni ricorda, interiorizza, attualizza e, senza tacite compiacenze, con semplicità ci consegna la sua autorevole testimonianza: ”Già dal 1849 a Verona avevo fatto conoscenza di un eccellente giovane nero, di nome Bachit Caenda, appartenente alla famiglia dei Conti Miniscalchi, nato a Carco, nella tribù di Gebel Nuba, notissimo in tutta Italia e apprezzato specialmente a Propaganda Fide. A questo africano fervente cattolico, mi unirono per anni vincoli d’amicizia e identità di interessi per la sua patria. Con me anche la cattolicissima Verona ammirava stupita questo nubano, la cui fede era ferma e la cui pietà era distinta e che a sì eccellenti qualità univa una grande fermezza di carattere. Attraverso di lui io mi formai un alto concetto dei Nubani, e ben cento volte dissi all’ottimo Bachit: "Non mi darò pace, fino a che io pianterò la Croce di Cristo nella tua patria".” (Scritti, 4840); ma quello che qui c’interessa, più d’ogni altra cosa, è che Comboni fornisce la motivazione teologica di tanta determinazione e serietà d’impegno:“(…) perché anche questo popolo partecipi alla morte redentrice di Cristo” (Lettera al Card. A. Franchi, Delen, 8 ottobre 1875).

II - Dimensioni bibliche

Molteplici sono i motivi biblici e teologici che inducono la Chiesa a essere missionaria.
Jhwh, il Dio unico, è anche il Dio di tutti: ”Allarga lo spazio della tua tenda” (Is. 54,2); “…il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli” (Is. 56,7). L’universalismo salvifico giudaico è missionario. Israele non attende più nell’inerzia il giorno in cui tutta l’umanità finalmente conoscerà il suo Dio, ma prende viva coscienza della missione che gli è affidata, quella cioè di lavorare per la venuta di questo giorno: ”Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” (Is. 49,6; cf. Is. 42,1.4-6). Il Servo di Jhwh non è solo il Giusto che soffre, ma è anche il Missionario che annuncia:”Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni” (Is. 42,1; cf. Is. 51,5). Lo stesso universalismo presente in Isaia è presente anche in molti salmi:”Tutti i popoli della terra contempleranno la sua gloria”(Sal. 96,6) (cf. anche Sal. 44,18; 46,2; 56,10; ecc…). L’immane tragedia della dispersione d’Israele in mezzo ai popoli, da più esegeti è interpretata come provvidenziale per consentire al popolo eletto di portare a compimento la sua originaria vocazione missionaria, anche se in seguito fu clamorosamente disattesa: ”Lodatelo, figli d’Israele, davanti alle genti; Egli vi ha disperso in mezzo a loro per proclamare la sua grandezza” (Tb. 13, 3-4). Ben oltre Mosè, Gesù avvera la promessa fatta da Jhwh ad Abramo: ” E in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn. 12,3). Così Gesù trasforma l’eredità d’Israele nella Chiesa da Lui fondata. Quando, prima di tornare al Padre, Cristo invia gli Apostoli a predicare il Vangelo a ogni creatura (cf. Mt. 28,19-20; Mc. 3,13-15; 16,15; Lc. 24,27; At. 1,7), Egli non fa altro che chiarire il senso ultimo della sua missione. Nello stesso tempo in cui Gesù parla come Figlio prediletto del Padre (cf. Mt. 3, 17; Mc. 1,11; 9,7; Lc. 3,22), Egli parla anche come rispettoso e devoto Figlio d’Israele. Cristo Gesù affida agli Apostoli la missione che ha ricevuto dal Padre e quella che ha ereditato dal suo popolo d’appartenenza (cf. Ger. 31,31-33). Ammirando la multiforme generosità dell’economia della salvezza, S. Paolo si sente naufragare nell’oceano senza fondo e senza riva della bontà di Dio:” O profondità della ricchezza della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”(Rm. 11,33). Figlia del primigenio Israele missionario, la Chiesa che Cristo fonda per continuare la speciale missione del Suo popolo, non poteva essere che missionaria.
La missione ad Gentes della chiesa risponde a una precisa volontà del giovane Rabbi di Galilea: ”Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura” (Mc. 16,15; cf. Mt. 28,19-20; Lc. 24,27; Gv. 17,18; 20,21; At. 1,7). Quest’ordine è per la Chiesa la sua stessa ragion d’essere. I testi citati poc’anzi sono le carte ufficiali e fondazionali della Chiesa e delle missioni, perciò l’opera missionaria non è né superflua né alla periferia dell’attività della Chiesa, anzi essa è una parte integrale del suo essere e operare. La missionarietà della Chiesa non è, dunque, un optional, una questione più o meno importante, un segno della sua buona volontà, ma un dovere impellente di tutti noi cristiani, che c’impegna individualmente e come comunità di credenti in Cristo a superare “le nostre pigrizie e ristrettezze di cuore.”
Nella persona dei dodici Apostoli la Chiesa è inviata a tutti i popoli della terra. Questo traguardo, tuttavia, il cristianesimo, dopo molti secoli dai suoi contrastati inizi, non l’ ha ancora raggiunto. La Chiesa è per sua natura missionaria (cf. A.G., 2; L.G., 1), e le missioni sono il mezzo privilegiato mediante il quale essa porta a compimento la sua specifica finalità. L’impegno missionario della Chiesa, suscitato e promosso dal Concilio Ecumenico Vaticano II, è un’esigenza intrinseca della sua vita. L’opera missionaria è così essenziale e centrale, che è impossibile parlare di Chiesa senza fare un esplicito riferimento alle missioni. Le missioni, quindi, sono un dovere che la Chiesa ha innanzitutto verso se stessa. Nel corso dei secoli Essa ha preso coscienza di sé, seppure con un graduale ma innegabile e crescente risveglio all’impegno missionario. Il comando di Cristo l’ha lanciata in tutte le direzioni dove l’uomo si trova a vivere e a operare. La Chiesa non è missionaria solamente in alcuni suoi membri (cf. At. 13,2), anche se investiti d’uno speciale carisma dall’alto (cf. 1 Cor. 12,11). Essa è missionaria in tutti e singoli i suoi membri e lo è soprattutto la gerarchia, i suoi Vescovi e primo fra tutti il Papa. L’impegno missionario non può non coinvolgere l’intera comunità ecclesiale:“Il compito dell’animazione missionaria deve continuare ad essere impegno serio e coerente di ogni battezzato e di ogni comunità ecclesiale.” Animazione intesa come comunicazione diretta del grande entusiasmo di ogni credente per la missione di Cristo nel mondo. Comboni lo realizzò dando voce a chi non aveva voce, gli anonimi, gli esuberi della società del suo tempo. La missionarietà è un dovere irrinunciabile di tutti i battezzati, secondo il loro ruolo specifico, il proprio carisma e la competenza peculiare di ciascuno. L’impegno dei fedeli nell’attività missionaria della Chiesa richiede una loro adeguata formazione. Essa li porterà non solo a capire meglio le esigenze della propria fede, ma anche a esserne testimoni credibili nella società. Cristo Signore ha affidato la missione che aveva ricevuto dal Padre ai suoi Apostoli e, attraverso l’ininterrotta successione apostolica, al collegio episcopale. Queste posizioni teologiche, oggi, sono consolidate e fanno parte ormai del patrimonio comune della nostra fede. Non era per niente così nel XIX secolo, ai tempi di Comboni (1831-1881).

III - Precursore del Vaticano II

Comboni, nel suo audace e instancabile dinamismo apostolico, spronò i cattolici d’Europa a prendere coscienza che l’opera missionaria non poteva essere la funzione esclusiva di un organismo cattolico o di un ordine religioso o di una singola nazione, ma di tutta la Chiesa e di tutte le nazioni cristiane, internazionalizzando in questo modo l’istanza missionaria. La piena consapevolezza d’un compito così categorico per l’universalità della Chiesa, quale la diakonia missionaria che appartiene alla natura d’una ecclesiologia rinnovata e più completa, fece sorgere un po’ in tutta l’Europa dell’800 iniziative e congregazioni missionarie consone a questa finalità specifica, che impegnarono le articolazioni più vitali della Chiesa: clero regolare e secolare, laicato cattolico e perfino la stessa Congregazione di Propaganda Fide.
Tuttavia per il rinnovamento dell’ecclesiologia e per l’elaborazione teologica della collegialità dei Vescovi, si dovrà attendere fino al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). In una sorprendente ma armonica sintonia con il pensiero del Vaticano II, anche se il linguaggio è quello del suo tempo, è secondo quest’ordine d’idee che Comboni si rivolse ai Padri Conciliari riuniti a Roma per il Concilio Ecumenico Vaticano I (1869-1870), al quale partecipò come teologo personale del Vescovo di Verona Mons. Luigi di Canossa (1809-1900): “E’ un avvenimento solenne, di buon auspicio e di grandissima gioia, (…) il fatto che al vostro attuale Concilio (…), siano presenti tanti Vescovi, provenienti da regioni lontane del mondo, per rendere testimonianza della diffusione del Regno di Cristo e della meravigliosa fecondità della sua Chiesa. (…) La Santa Madre Chiesa desiderava certo ardentemente salvare gli Africani e rigenerarli a una nuova vita. (…) Ora che Voi,(…), siete qui convenuti davanti al Vicario di Cristo (…), raccomando a Voi che siete i Padri e i Maestri di tutti i popoli, la causa gravissima dei neri e scongiurando la vostra protezione e misericordia in favore dei popoli dell’Africa (…). Orsù, (…), prendete su di Voi quest’opera e nella vostra saggezza esaminate come e con quali mezzi si possano salvare questi popoli (…). Fate che gli altri fedeli, che si sentono animati dall’amore di Cristo, diano il loro aiuto per questa nobilissima opera di redenzione, (…). Pertanto io vi scongiuro, Reverendissimi Padri, affinché dopo di essere convenuti a questa sede del Beato Pietro per raccogliere tutte le genti del mondo nell’unico ovile e nell’unico regno di Cristo, abbiate pietà specialmente dei popoli dell’Africa Centrale (…). Si deve dunque fare ogni sforzo perché l’Africa si unisca alla Chiesa Cattolica, perché Gesù Cristo ha sparso il sangue per la sua rigenerazione. (…) Questo lo richiede pure l’ufficio del ministero affidato a Voi, che lo Spirito Santo ha posto come Vescovi per reggere la Chiesa di Dio (At. 20). (…) Perciò,(…), considerando la vostra grandezza d’animo e l’ardente sollecitudine del vostro Sacerdozio per la salvezza delle anime, vi supplico e vi scongiuro, che vi degniate sottoscrivere questo Postulato per i Neri dell’Africa Centrale.” (Scritti, 2294-2309). La Chiesa nella sua globalità, quindi, diventava solidamente responsabile della conversione di un intero continente con le sue popolazioni.
Per Comboni questa era l’occasione provvidenziale lungamente attesa, per spronare la Chiesa universale a farsi carico dell’abbandono in cui, per troppo lungo tempo, erano state lasciate intere popolazioni dell’Africa: “Non sarebbe questo il momento d’invocare i lumi della Chiesa e l’appoggio di tutti i cattolici del mondo rappresentati dai Vescovi del Concilio (…), una parola del Santo Padre in Concilio, un’adesione dei Vescovi, farebbe venire le convulsioni a tutti i cattolici del mondo (…)” (Scritti, 2184-2185). Come risulta dal testo citato, Comboni riteneva che il Papa, Padre di tutti i credenti in Cristo, dovesse prendere a cuore la causa dei suoi figli più bisognosi di aiuto. “Noi speriamo che il nostro Piano per la rigenerazione dell’Africa (…) troverà un’eco di approvazione ed un appoggio di favore e di aiuto nel cuore dei cattolici di tutto il mondo, investiti e compresi dallo spirito di quella sovrumana carità, che abbraccia l’immensa vastità dell’universo e che il Divino Salvatore è venuto a portare sulla terra.” (Scritti, 843; 2790). In una lettera redatta in latino e indirizzata ai Padri Conciliari, Comboni li esortava ad appoggiare e a far proprio il suo Postulato (24 Giugno 1870), con il quale egli voleva persuadere la più autorevole assise ecclesiale, a mettere all’ordine del giorno il problema dell’evangelizzazione dell’Africa:“ Come un lampo colpì il mio spirito il pensiero di approfittare del Santo Concilio Ecumenico e di presentarmi a tutti i Vescovi del mondo cattolico, raccolti intorno alla tomba di S. Pietro per conferire col Vicario di Gesù Cristo sui più importanti interessi della Chiesa Cattolica e sulla sua influenza su tutto il mondo (…). Il mio Postulato fu approvato dalla Commissione conciliare, perché l’oggetto che conteneva era utile alla Chiesa universale, e perciò essa diede il suo consenso perché fosse sottoposto al Concilio.” (Scritti, 2545-2546) La personalità magnetica di Comboni, con il suo irresistibile fascino spirituale, fu capace di catturare un buon numero dei Padri conciliari alla causa missionaria. Lo stesso Pio IX, il 18 Luglio 1870, lesse e accolse favorevolmente il Postulato, dopo averne attentamente vagliato i contenuti e le proposte. Purtroppo gli eventi bellici legati all’unità d’Italia (1830-1870), non consentirono al Piano di Comboni di produrre gli effetti desiderati. Così egli si ritrovò nuovamente solo, come l’oliva sulla cima d’un ramo, dimenticata dopo la raccolta (cf. Is. 17,6; 24,13):“Io sono desolato nel vedere il poco che si è fatto” (Scritti, 798). Ciononostante invece di disarmare, come ci saremmo aspettati, con un rinnovato giuramento di fedeltà alla sua vocazione missionaria, si dedicò fino all’ultimo dei suoi giorni, da “vero Padre degli Africani” (Scritti, 798) alla causa disperata dei suoi figli, sino a identificarsi con loro, a considerarsi Africano lui stesso:”Spero che Ella starà bene. Noi Africani stiamo bene, e con la Grazia di Dio lavoriamo” (Scritti, 719); “ Fissate nella mente che Comboni non può vivere che per l’Africa, e per ciò che ha relazione con l’Africa” (Scritti, 1185). Questa l’incrollabile determinazione che via via plasmerà la sua spiritualità missionaria, fino a giungere a una mistica dell’evangelizzazione, molto audace e personale, che toccherà il suo vertice nella sua unione sponsale con l’Africa: ”Questo momento era già sospirato da gran tempo da me, con maggior calore, di quello che due fervidi amanti sospirano il momento delle nozze”(Scritti, 3); ”(…) io vorrei che tutti facessero molto bene all’Africa mia amante” (Scritti, 7652); ”Il primo amore della mia giovinezza fu per l’infelice Nigrizia” (Scritti, 3156).

IV - Peculiarità del carisma comboniano

Comboni visse costantemente in uno spirito d’autentica universalità e in ogni circostanza egli agì da autentico missionario. Si può capire il significato e il mistero che rappresenta per noi la sua vita, solo alla luce di questa realtà onnipresente nei suoi scritti:”Non sospiro altro che il modo migliore per fare all’Africa il massimo bene, e salvare più anime. Non sospiro altro che "predicetur Jesus Christus "(…). Noi vogliamo anime, la gloria di Dio, morire per Cristo”(Scritti, 4757; 4770);“(…) noi intraprendemmo la faticosa ed ardua impresa di portare il Vangelo a questi popoli” (Relazione al Presidente della Società di Colonia, Roma 1877), e ancora: “(…) per lavorare con tutte le forze all’espansione della Fede.(…) Africa Centralis derelicta est.” (Scritti, 5838). I testi comboniani riecheggiano, per consonanza, affinità di stile e d’ideali, i testi paolini e in particolare uno fra i tanti possibili:”Noi, fratelli, non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù; quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù” (2 Cor, 4, 5).
E’ sorprendente vedere come la grintosa autosfida di S. Paolo “ Non è, infatti, per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo” (1 Cor. 9, 16; cf. anche 1 Cor. 9, 22-23), sia in perfetta sintonia con espressioni comboniane analoghe, nate da una lunga frequentazione e ruminazione dei testi e dello spirito del primo teorizzatore dell’evangelizzazione dei Gentili:“Noi non vivremo e non respireremo che per Gesù e per guadagnarGli le anime” (Scritti, 1493); “Io non vivo, non sono mai vissuto se non per salvare le anime”(Scritti, 7141). Non pensare più all’Africa e, quel che più conta, non lavorare più per essa, per Comboni equivarrebbe a non avere più in sé l’amore incandescente di Cristo:“L’amore del Cristo ci sospinge” (2 Cor. 5, 14). Colui che dona non rinchiude in sé stesso la carità. Scopo della vita missionaria è il dono della fede agli altri, perché donare è un’esigenza insopprimibile dell’amore; inoltre vuol dire partecipare intimamente alla vita divina, che è dono per antonomasia. Oltre che disinteressato, l’atteggiamento di Comboni è umile. Egli sa bene che non possiede il suo dono, se non nella misura in cui è disposto a condividerlo con gli altri, soprattutto con gli ultimi della terra (cf. At. 2,44-45); Comboni ha bisogno degli Africani, che Gli sono necessari perché la sua fede diventi adulta e responsabile. Noi non abbiamo ricevuto ancora nulla, finché non abbiamo imparato a donare. Dio, scegliendoci, non ci sceglie mai contro gli altri, ma sempre e solo a favore degli altri. Prova ne sia che, nella Bibbia, quando Israele si chiude in se stessa, allo stesso tempo cessa di essere il popolo eletto di Jhwh. Nell’attività missionaria della Chiesa non c’è in causa solo l’annuncio del Vangelo, ma la sua stessa sopravvivenza.
“…il missionario si sforza di togliere tutto il male possibile e promuove tutto il bene possibile, al quale scopo egli nulla risparmia di quanto suggerisce la carità “ (Scritti, 4565). Per Comboni le missioni sono essenzialmente un dovere di carità. Se la carità è il vertice supremo della perfezione cristiana (cf. 1 Cor. 13, 1-13), se nulla è autenticamente cristiano se non a condizione di esercitare la carità, l’obbligo missionario si rivela chiaramente come un dovere anche verso di sé. La divisione tra i cristiani, “danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo a ogni creatura” (Unitatis redintegratio, 1). La sottomissione allo "Spirito d’amore" ingiunge alla Chiesa il suo irrinunciabile impegno missionario. La Chiesa è il corpo sacramentale dell’Amore universale di Cristo presente e operante sulla terra. Il cristianesimo è la pienezza dell’amore e di conseguenza la salvezza, che la chiesa porta al mondo, è la realizzazione di questa legge d’amore (cf. At. 4, 32). La carità si possiede solo se la s’irradia. “La divisione dei cristiani è infatti di grave pregiudizio alla santa causa della predicazione del Vangelo a tutti gli uomini e preclude a molti l’accesso alla fede” (A.G., 6) . Questa realtà è, senza dubbio, una delle maggiori sfide che la Chiesa del terzo millennio è chiamata ad affrontare. La carità non è un bene da consumarsi in solitudine: nessun focolare chiuso in se stesso potrebbe illudersi di conservare il suo calore tra le pareti domestiche. Per il fuoco esistere vuol dire ardere e quando questo cessa di farlo, si estingue inesorabilmente. La Chiesa è messaggera e dispensatrice della carità di Cristo sulla terra. La carità non fa eccezioni di popoli, di persone, d’etnie, di culture, di nazioni, di riti e perfino di appartenenze religiose… La carità abbraccia tutti senza distinzione. Sempre più in futuro l’esito dell’evangelizzazione dipenderà dalla testimonianza di carità e d’unità all’interno della Chiesa stessa. La carità non soffre ritardi e non tollera esclusioni di sorta. Gesù nel suo desiderio di salvezza universale, non respinge mai nessuno. Comboni era convinto di non possedere la carità, se non nella misura in cui cercava d’irradiarla attorno a sé. Per lui il segno infallibile che garantisce la presenza della carità, è che essa ci trascina nel suo vortice, trasformandoci:“Per ottenere questa grande rigenerazione della Nigrizia, è mio debito sacro, come primo Pastore, Vescovo e Vicario Apostolico dell’Africa Centrale, di fare appello alla fede ed alla carità di tutti i Cattolici dell’universo (…)” (Scritti, 6408); “L’Opera dev’essere cattolica, non già spagnola o francese o tedesca o italiana. Tutti i cattolici devono aiutare gli Africani, perché una nazione sola non riesce a soccorrere gli Africani (…). E per ottenere questo si dovranno unire insieme tutte le iniziative finora esistenti, le quali, tenendo disinteressatamente davanti agli occhi il nobile scopo, dovranno lasciare andare i loro interessi particolari.”(Scritti,944). Diversamente dal linguaggio di Comboni oggi si potrebbe affermare che la Chiesa non è né latina, né greca, né slava, né occidentale, né orientale,…ma cattolica, o se vogliamo è tutto questo e molto altro ancora. Il particolare è incluso nell’universale, ma quest’ultimo deve essere rispettoso delle singole peculiarità che fondano la bellezza e la variegata armonia dell’insieme. La sua cattolicità è l’espressione della sua ricchezza interiore, e la sua bellezza deve risplendere nella sua composita realtà. Il cristianesimo, infatti, è una religione aperta per sua stessa definizione. Cattolico vuol dire universale. Cristo vuole che la sua Chiesa, andando ai popoli, li riunisca tutti in uno stesso amore, non eliminando le loro peculiari caratteristiche ma esaltandole e armonizzandole in Cristo. Missione universale per eccellenza, quindi, che la Chiesa compie non solo per un senso di giustizia verso i popoli della terra, ma anche nella convinzione che tutti i popoli devono contribuire alla sua cattolicità. “L’Opera della rigenerazione della Nigrizia è un’opera (…) vasta quanto mai. Per attuare nelle sue grandi linee il progetto, come l’ho concepito io nel mio spirito, e per dargli un fondamento duraturo ci vorrebbe una partecipazione generale di tutti i cattolici del globo, raccolti insieme (…) ” (Scritti, 2543). Per Comboni Chiesa cattolica e Chiesa missionaria sono in realtà interscambiabili. La cattolicità è un attributo essenziale per la Chiesa; essa è un compito irrinunciabile di tutti i battezzati, secondo il proprio ruolo, il proprio carisma e la propria competenza (cfr. A.G., 23). E’ un fatto di coscienza, è un’esigenza insopprimibile. La Chiesa è cattolica, perché sapendosi universale vuole diventarlo sempre di più anche di fatto. La cattolicità è la sua più intima natura e vocazione, che si fonde con la sua stessa realtà. Di questa vocazione essa è cosciente fin dal primo giorno, tuttavia questo non dipende sempre e solo da lei. I Padri della Chiesa attestano che la Chiesa è coestensiva a tutta l’Oikumene. L’edificazione della Chiesa non può mai considerarsi compiuta per sempre, ma come la nostra conversione individuale, essa dev’essere ripresa ogni volta. E’ una pericolosa e fatale tentazione quella di esserne compiaciuti e quindi di chiudersi al suo interno, senza preoccuparsi minimamente degli altri popoli. Cattolica, per Comboni, vuol dire non accettare mai di restringersi a nessuna cultura, lingua, a nessun popolo, luogo, tempo, rito, … ma aprirsi continuamente a tutti con una crescente carità pastorale universale. Nella misura in cui la Chiesa attua la missione, essa ha anche la consapevolezza che la sua profezia va gradualmente compiendosi, così come si è compiuta la missione di Gesù sulla terra (cf. Gv. 17, 1.11.13; 19,30). Cattolicità dinamica e tensione missionaria: dall’una all’altra non c’è una diversità sostanziale. La cattolicità della Chiesa implica questa tensione interiore. Comboni sembra volerci dire che la cattolicità non è autentica e sincera se non favorendo tale slancio, per assumere la forma di una cattolicità realizzata. Il Piano per la rigenerazione dell’Africa di Comboni conclude che il Comitato “ porrà in azione tutti gli elementi del Cattolicesimo che attualmente mancano per la rigenerazione degli Africani, darà maggior vita e vigore a quelli che già esistono; e spiegando in tal guisa tutte le forze del cattolicesimo a favore dell’Africa.”
“ Pregate il Buon Pastore eterno, affinché tutte le pecorelle smarrite e tutti gli infedeli, si riuniscano all’ombra dell’albero della vita e che di tutte le nazioni della terra, si faccia presto un solo ovile con un solo Pastore.” ( Relazione alla Società di Colonia, Dicembre 1866). La Chiesa deve riunire tutti i popoli nell’unità del suo corpo; tutta la creazione deve trovare il suo posto all’interno della Chiesa per esservi assunta e trasfigurata (cfr. Rm. 15, 16). Secondo il pensiero di Comboni non c’è opera più necessaria né più grande del lavorare per costruire questa nuova città, vera Gerusalemme, nonostante le dolorose lacerazioni e le ripetute sconfitte dell’umanità nel corso plurimillenario della sua storia. Giovanni Paolo II mette in guardia dalla facile tentazione di “pensare che i risultati dipendano dalla nostra capacità di fare e di programmare. Certo, Iddio ci chiede una reale collaborazione alla sua grazia (…). Ma guai a dimenticare che "senza Cristo non possiamo far nulla" (Gv. 15,5).” L’unità dei cristiani sarà sempre un dono del Signore; sarà sempre un frutto maturo e adulto della santità dei discepoli di Cristo.

Conclusione

Il suolo africano, arato in profondità dalle fatiche d’innumerevoli missionari e reso fecondo dal loro sangue, sta ormai producendo copiose messi d’eroica testimonianza evangelica: ricordiamo qui solo i più recenti:
Il Beato Ghebre Michael (Etiopico, martire lazzarista); la Beata Victoria Rasoamanarivo (Malgascia, vedova); il Beato Isidoro Bakanja (Congolese, catechista martire); la Beata Anwarite Nengapeta Clementina (Congolese, Vergine martire); il Beato Tansi Iwene Michele Cipriano (Nigeriano, monaco trappista); i Beati Gildo Irwa e Davide Okelo (Ugandesi, catechisti martiri); i 22 Santi Martiri Ugandesi (ai quali si devono aggiungere i 14 martiri della stessa nazionalità, appartenenti alla comunione anglicana); Santa Giuseppina Bakhita (Sudanese, Vergine canossiana).
Un anno prima della sua morte, quasi presagendo l’eccezionale stagione dello Spirito nelle varie Chiese Africane, così Comboni entusiasticamente ne parlò con un suo benefattore e amico: ”Ho un’immensa confidenza nella prossima Canonizzazione d’un gran numero di Santi Africani, che contribuiranno alla conversione dell’Africa tutta.” ( Scritti, 6164)
Paolo VI, in piena assise conciliare, il 18 Ottobre 1964, all’omelia di canonizzazione dei Martiri Ugandesi, esclamò:“L’Africa è la nuova patria di Cristo “. Ora “la perla bruna” (Scritti, 2314), brilla di tutto il suo fulgore al centro del diadema regale, che Cristo-Sposo ha posto sul capo della Sua amata Chiesa, Madre feconda e orgogliosa di una moltitudine variegata di figli e figlie.

P R E G H I E R A

Signore, in San Daniele Comboni,
Tu ci hai manifestato il singolare stile missionario del discepolo.
Fa che, come lui, anche noi non temiamo le opposizioni
e i rifiuti della Tua sequela: è questa la misura estrema dell’amore,
nella condivisione della sorte dei Tuoi figli prediletti: i poveri.
Tu ci chiedi un abbandono assoluto:
se da una parte non mancheranno persecuzioni, abbandoni e morte,
dall’altra Tu Ti prenderai cura di noi.
Sull’esempio di Comboni donaci, Signore,
il costante desiderio di cercarTi.
Fa che Ti sappiamo accogliere con appassionata dedizione
e che siamo disposti a seguirTi ovunque Tu vada.

Signore,
quando Tu passerai in mezzo a noi,
fa che siamo vigili e sappiamo ascoltarTi
per essere messi a parte del Tuo intimo segreto
(cf. Dt. 29,3; Mc. 4,11; Mt. 13,11; Lc. 8,10),
disposti a condividerlo con quanta più gente possibile.
Aiutaci a riconoscerTi tra gli innumerevoli
e sedicenti maestri che oggi pullulano un po’ ovunque
(cf. Mt. 7, 15ss; At. 20, 30).

Signore,
dacci il coraggio perché non ci limitiamo a custodire gelosamente la fede,
ma, a imitazione di Comboni, tuo fedele Amico, la professiamo
e ne diamo testimonianza con audacia,
così che ci sentiamo collaboratori del Tuo dono di Salvezza.
Donaci l’ardire di rispondere con tutte le nostre forze e senza riserva.
Solo allora saremo colmi di quella gioia che viene solo da Te,
perché avremo scoperto che tu ci hai chiamato per nome.

Te lo chiediamo per Cristo tuo Figlio e nostro Signore.

A m e n.


* TESTI PER LA PREGHIERA: (Lectio, meditatio, oratio, contemplatio)
At. 10, 34-36.44-48; 15, 1-21.

* TESTI PER LA DISCUSSIONE: (Collatio, praticatio)
Mt. 15, 21-28 (specialmente il versetto 24); Mc. 7, 24-30.

* PREGHIERA INTERATTIVA:
Rintracciare nella Bibbia altri testi sull’universalità della redenzione.




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P. Antonio Furioli, mccj