Venerdì 8 novembre 2024
L’uso ormai abituale dell’espressione “next generation” sembra tralasciare che, in termini globali, nel prossimo futuro – anzi, per certi versi già oggi – tale espressione andrà in assoluta prevalenza riferita all’Africa. Dispiace che l’Europa non lo abbia ancora compreso. [Padre Giulio Albanese, comboniano – L’Osservatore Romano]
La dice lunga il fatto stesso che priorità come l’esternalizzazione delle frontiere, l’innalzamento di muri, la chiusura dei confini all’interno del Vecchio Continente, siano in cima all’agenda di molti governi europei, con una concezione decisamente miope delle politiche sedicenti securitarie, in particolare riguardo al fenomeno migratorio.
Culturalmente parlando – ci sia consentita l’apparente temerarietà nel giudizio - è un umanesimo disatteso, vale a dire mancato. Infatti, la qualità della sfida globale, in termini demografici, si chiama “Africa” con tutto il carico di mutamenti dell’ordine mondiale che questo fenomeno comporta, soprattutto nella macroregione subsahariana.
I numeri la dicono lunga. Nel 1900 l’Africa aveva 140 milioni di abitanti, cioè il 9 per cento della popolazione mondiale. Da allora, grazie al relativo calo della mortalità e a tassi di natalità tra i più alti al mondo, la popolazione è decuplicata. Mentre in Europa e ancor più in Italia si fanno meno figli, il continente africano sta registrando una crescita esponenziale a livello demografico. Nel 1960, l’Africa contava circa 284 milioni di abitanti; nel 1990, la popolazione era di circa 630 milioni; oggi è di 1,5 miliardi e un africano su due ha meno di 18 anni. Se l’Italia fosse cresciuta allo stesso ritmo, gli italiani sarebbero 185 milioni. Attualmente il 17 per cento della popolazione mondiale è in Africa e si stima che entro il 2050 gli africani saranno quasi 2 miliardi e mezzo. D’altronde il tasso di fertilità in Africa rimane alto, lontano all’obiettivo della transizione demografica che arbitrariamente si raggiunge, come spiega il demografo Massimo Livi Bacci quando si ha «un numero medio di figli per donna pari a 2,5 e una speranza di vita di 70 anni».
Per inciso, la dimensione media delle famiglie africane, contrariamente a quanto avviene oggi sulla sponda nord del Mediterraneo, è di 4/5 componenti nelle città e 6/7 nelle aree rurali. Quasi il doppio della media globale (pari a circa 2,4). Con il risultato che a metà del secolo la popolazione mondiale vivrà per il 25 per cento in Africa (era il 13 per cento nel 1995 e il 16 per cento nel 2015) e solo per il 5 per cento in Europa.
Ma non è tutto qui. Le stime degli esperti indicano anche che in Africa si registrerà un graduale e costante aumento della popolazione in età lavorativa, mentre si ridurranno le fasce non attive, sia quella troppo giovane sia quella troppo anziana per essere considerate produttive. Lo si evince dal cosiddetto dependence index, un indicatore che misura la percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia mediana, quella cioè lavorativa. Secondo i dati della Nazioni Unite, nel 2010, il continente con il dependence index più alto era proprio l’Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. Di converso, l’Europa in quell’anno vantava un indice del 47 per cento. L’Onu, però, prevede un ribaltamento in poco meno di un secolo. L’Africa diventerà così il continente per eccellenza della produttività, con un dependence index del 56 per cento contro l’82 per cento del Sud America e l’80 per cento del Vecchio Continente.
È dunque evidente che sarebbe un errore imperdonabile pensare che una questione così complessa possa essere risolta solo dai diretti interessati, vale a dire gli africani. La cosiddetta “geodemografia” - cioè, gli intrecci e le interdipendenze tra la crescita della popolazione e gli equilibri globali – ci spiega chiaramente che le conseguenze della esplosione demografica continentale saranno di portata globale. Una crescita che porta con sé, peraltro, una serie di problemi: dagli spazi di vivibilità, al nutrimento essenziale, dalle cure all’istruzione, per non parlare di tutto il complesso infrastrutturale necessario per garantire i servizi.
Le soluzioni che oggi vengono formulate in riferimento al boom demografico africano, da parte di molte istituzioni internazionali, sono fondamentalmente incentrate sulla pianificazione familiare. Una strategia che prevede l’utilizzo dei metodi contraccettivi, culturalmente ricusata da molte etnie. La convinzione è che l’uso di profilattici o pillole contraccettive produca sterilità nelle donne. Alcuni studiosi hanno anche ipotizzato d’imporre obbligatoriamente un figlio per famiglia, dimenticando che a suo tempo lo si fece in Cina e in altri Paesi asiatici e procurò disastri. Per non parlare della tenuta dei sistemi previdenziali in Paesi come l’Italia dove fare pochi figli viene imposto dalla pseudo cultura degli pseudo bisogni per moltiplicare i consumi. Ma anche questa strada non sembra essere percorribile considerando che i 54 Stati africani difficilmente troveranno un’intesa, ciascuno alle prese con il proprio sistema politico e con le sue priorità economiche e sociali.
Quindi, cosa fare? I “rimedi” su enunciati si fondano Un po’ tutti questi rimedi enunciati sulla vecchia tesi dell’economista inglese Thomas Malthus, fondatore della scienza demografica. Egli sosteneva che il tasso di crescita della popolazione umana, essendo esponenziale, avrebbe presto superato quello della produzione alimentare che segue una legge lineare di sviluppo. Nel suo saggio sul principio della popolazione del 1798, Malthus spiega che la popolazione tenderà a espandersi consumando tutto il cibo disponibile senza lasciare alcuna eccedenza a meno che la crescita demografica non venga interrotta, appunto, da guerre, carestie o pandemie.
Ma la vicenda umana non è determinata da teoremi matematici. Contribuì a dimostrarlo nel secolo scorso dal primo grande black-out della storia statunitense. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1965, si oscurarono prima lo Stato di New York e poi in successione il Massachusetts, il Connecticut, il Rhode Island, il Vermont, il Maine, il New Hampshire e due province canadesi. Rimasero al buio 27 milioni di persone tra impiegati dell’At&t e studenti di Harvard, finanzieri di Wall Street e parrucchieri italo-americani, medici e casalinghe delle verdi periferie. La gente fu costretta a starsene rintanata in casa, sotto le coperte, e nove mesi dopo si verificò un’impennata delle nascite. Viene pertanto spontaneo domandarsi: se gli americani hanno subito un improvviso “baby-boom” per una momentanea carenza di energia elettrica, che dire di quei Paesi africani, dove imperversa la povertà e non solo da tre giorni?
La questione demografica, pertanto, contrariamente a quanto affermato dalla teoria maltusiana, è l’effetto del sottosviluppo, prima ancora che esserne la causa. In Italia, ad esempio, le famiglie numerose si sono assottigliate perché la società dei consumi ha reso la vita più comoda e offerto una serie di garanzie che all’inizio del ‘900 erano considerate unanimemente utopistiche. L’ascensore sociale, che oggi si muove solo in discesa, all’epoca saliva grazie ai diritti progressivamente acquisiti dalla classe operaia e dal ruolo sociale conquistato dalle donne che hanno gradualmente abbandonato il ruolo di casalinghe a tempo pieno, impegnandosi in attività professionali di vario genere.
In molti paesi africani, invece, la situazione è diversa. Anzitutto perché la morte precoce è frequente rispetto ai Paesi industrializzati e “fare figli” significa garantirsi l’assistenza durante la vecchiaia, visto e considerato che non esistono ancora sistemi previdenziali in grado di soddisfare le necessità degli anziani. Molto dipenderà dalla volontà politica del consesso delle nazioni nel contrastare la povertà. È chiaro che sarebbe illusorio pensare – come sembrano ritenere molti governanti - che la soluzione possa essere riposta solo nella crescita del Prodotto interno lordo (Pil), che per inciso quando pure si realizza lo fa sempre più a scapito del Prodotto sociale lordo, in quanto l’espansione demografica, almeno per ora, corre più velocemente. Gli ultimi studi dicono che per rispondere alla domanda occupazionale dei giovani che vorrebbero entrare a pieno titolo nel mercato del lavoro ci vorrebbero almeno 20 milioni di posti di lavoro formali ogni anno, contro i 3 milioni odierni.
Proprio per questo motivo s’impone un partenariato euro-africano che affronti la questione della mobilità umana dalla sponda africana (e non solo). È emblematica la stima di Unioncamere sulle “Previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine”, realizzato in collaborazione con il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Nel quinquennio 2024-2028 imprese private e pubbliche amministrazioni italiane avranno bisogno di assumere fra i 3,4 e i 3,9 milioni di lavoratori. E più di mezzo milione potrebbero essere immigrati. A riprova del fatto che nel perimetro del cosiddetto mondo villaggio globale, “l’Africa ha bisogno dell’Europa, ma anche l’Europa ha bisogno dell’Africa”.
P. Giulio Albanese - L'Osservatore Romano