Martedì 24 novembre 2020
Piquiá de Baixo, in Brasile, nella parte nord orientale della foresta amazzonica, è un caso di violazione dei diritti alla vita, alla salute, all’informazione e molti altri. Una triste realtà, fatta di ripetute denunce che, pur sortendo solo sporadicamente effetti concreti e tangibili, hanno fatto sì che la situazione del piccolo villaggio brasiliano venisse conosciuta e trattata a livello internazionale: poco tempo fa, inviando sul posto alcuni suoi commissari, anche l’ONU ha redatto un rapporto di denuncia molto articolato.
I fatti a Piquiá incominciano 35 anni fa, quando una multinazionale, si instaura nella zona per sfruttare le risorse minerarie per le quali il Paese è conosciuto: le miniere di ferro. A questo scopo, costruisce la «Strada di Ferro Carajás», una ferrovia lunga 900 chilometri che dal 1985 ad oggi trasporta ferro dalle miniere dello stato brasiliano del Pará fino al porto di São Luis, nel Maranhão. In questo modo, all’inizio degli anni Novanta, Piquiá si è ritrovata circondata da ferrovia, piantagioni e diversi impianti siderurgici.
Quei momenti padre Dario Bossi, comboniano e già parroco di Piquiá e ancora oggi missionario in Brasile, li conosce bene e li ricostruisce assieme a noi: «La multinazionale in questione ha stravolto il vivere comune di un territorio dove vivono oltre 2 milioni di persone; il tracciato ferroviario che ha costruito attraversa oltre 100 comunità. Si tratta di un corridoio logistico attraverso il quale attuare il trasporto del ferro su rotaia, con il beneficio della flessibilità delle leggi ambientali. Negli anni la politica è andata favorendo il suo lavoro, con leggi sempre meno restrittive. Il risultato? Disboscamenti incontrollati della stessa foresta amazzonica (come ha denunciato più volte anche Papa Francesco), fiumi inquinati e prosciugati, la gente privata delle sue risorse e costretta a lasciare il proprio territorio».
Un caso «tipico», se vogliamo, di un agire politico troppo conciliante verso i grandi colossi dell’economia, fonte per contro di grande sofferenza per chi invece è dall’altra parte della barricata: i piccolo-medi agricoltori. «A me questo caso, di sofferenza e umiliazione, è stato «consegnato» direttamente dalle mani e dalla voce degli abitanti di Piquiá, dove sono arrivato come parroco negli anni 2000. Gli abitanti mi hanno parlato dei loro campi distrutti, della loro terra sfruttata all’inverosimile, ma soprattutto dei frustranti tentativi di intavolare un rapporto di dialogo con i grandi capi della imprese, senza risultato. Fin dall’inizio della nostra denuncia, eravamo consapevoli che, oltre alle siderurgiche e alla multinazionale stessa, i responsabili di tutte queste violazioni sono anche i governanti del Paese e della regione coinvolta. Le imprese minerarie alimentano forti lobbies politiche per garantire la continuità dei guadagni, anche se la maggior parte dei capitali è trasferito all’estero».
L’esortazione Querida Amazonia di Francesco non usa mezze misure nella denuncia
Padre Bossi, già padre sinodale al Sinodo dedicato dalla Chiesa nel 2019 alla Amazzonia, evoca anche l’importanza dell’esortazione post-sinodale Querida Amozonía, con la quale, al punto 14, Papa Francesco ha voluto proprio denunciare situazioni simili: «Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso» – scrive Papa Francesco – «occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine. Quando alcune aziende assetate di facili guadagni si appropriano dei terreni e arrivano a privatizzare perfino l’acqua potabile, o quando le autorità danno il via libera alle industrie del legname, a progetti minerari o petroliferi e ad altre attività che devastano le foreste e inquinano l’ambiente, si trasformano indebitamente i rapporti economici e diventano uno strumento che uccide.
È abituale ricorrere a mezzi estranei ad ogni etica, come sanzionare le proteste e addirittura togliere la vita agli indigeni che si oppongono ai progetti, provocare intenzionalmente incendi nelle foreste, o corrompere politici e gli stessi indigeni. Ciò è accompagnato da gravi violazioni dei diritti umani e da nuove schiavitù che colpiscono specialmente le donne, dalla peste del narcotraffico che cerca di sottomettere gli indigeni, o dalla tratta di persone che approfitta di coloro che sono stati scacciati dal loro contesto culturale. Non possiamo permettere che la globalizzazione diventi «un nuovo tipo di colonialismo».
All’appello di Bergoglio, si unisce quella della Rete Iglesias y Mineriia e della Commissione per l’ecologia integrale della Conferenza dei Vescovi brasiliani: «Ritengo che la Chiesa abbia giocato, in questo delicato equilibrio, un ruolo fondamentale. Quando la popolazione locale si è accorta che da sola non sarebbe mai riuscita a impostare un dialogo serio con la multinazionale, ha chiesto l’aiuto della Chiesa locale e anche dei padri comboniani. Da lì le cose hanno iniziato a cambiare e si è creata una rete molto fitta di associazioni e organizzazioni decisi ad unire la propria voce a quella della gente del posto, nel rispetto di quei diritti che sono di tutti».
Padre Bossi commenta: il «caso Piquiá de Baixo» è stato presentato al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, alla Commissione interamericana dei diritti umani a Washington, in diverse assemblee degli azionisti della Vale, giusto per fare qualche esempio.
Pochi sanno, però, che dietro questa triste pagina di storia, ha giocato un ruolo fondamentale una multinazionale che ha la sua sede fiscale in Svizzera.
Per questa ragione – sottolinea padre Bossi – «la votazione del 29 novembre, in Svizzera, può fare davvero la differenza mettendo la parola fine a tutto questo, ma soprattutto può avvicinare la Svizzera a quei Paesi occidentali che già prevedono tale normativa restrittiva nei confronti delle multinazionali, aumentando il numero di chi crede ancora che può essere fatta giustizia. Noi dal Brasile denunciamo, ma voi ci dovete tendere la mano».
[Laura Quadri]