Mercoledì 22 gennaio 2020
Domenica prossima [26 gennaio], III Domenica del Tempo Ordinario, la Chiesa celebra la prima Domenica della Parola di Dio, indetta da Papa Francesco. In preparazione a questo appuntamento vi offriamo alcuni testi in cui alcuni confratelli hanno condiviso la loro esperienza sul tema: “La Parola di Dio nel nostro essere e fare missionario”, in occasione dell’anno di spiritualità sulla Parola di Dio, nel 2012. Potete trovare in allegato il testo in altre cinque lingue: inglese, portoghese, francese, spagnolo e tedesco. [combonianum]
Cari amici,
Mi è stato chiesto di preparare un testo sulla Parola sulla scia della proposta fatta dal nostro Consiglio Generale nella sua Lettera “La Parola di Dio nel nostro essere e fare missionario” (gennaio 2012). Questo “sussidio” non dovrebbe nascere da “idee” ma piuttosto dal vissuto della nostra vita missionaria, quindi sulla linea dell’esperienza personale. È stato con un certo imbarazzo che ho accolto l’invito. Non credo che la mia esperienza si differenzi particolarmente da quella vostra. Anzi, quella di tanti altri confratelli è senza dubbio molto più ricca ed incisiva.
Ad ogni modo, dopo un primo momento di titubanza, ho accolto con piacere la richiesta, sia perché questo mi costringeva a riflettere sulla mia vita, sia perché era una occasione per mettere in pratica l’invito capitolare ad una “condivisione della vita interiore” (AC ’09, n° 26).
Parto da due circostanze personali. La prima è quella della “malattia” (Sclerosi Laterale Amiotrofica, SLA) che mi colloca su un “palco” privilegiato e mi permette di avere uno sguardo diverso sulla vita. Dal “monte” della malattia gli orizzonti si allargano davanti a noi e il futuro diventa più vicino (esercitando un certo brivido e… fascino!). Ma lo sguardo si volge anche verso il cammino percorso, dietro le nostre spalle, per contemplare il sentiero della vita che scende serpeggiando verso la valle. Ciò ci offre una visione nuova e la possibilità di entrare in contatto con i sentimenti più profondi che portiamo in noi.
Il secondo punto di riferimento è il “desiderio” che sempre mi ha accompagnato, di essere “portatore della Parola”. Desiderio tante volte rimasto, purtroppo, solo tale ma che è stato luce, guida, motivazione che ha dato senso alla mia vita di missionario. È a questo desiderio che attingo, perché vedo in esso l’espressione di quello che c’è di più vero in noi, al di là delle nostre riuscite e fallimenti.
Scusatemi se questi due punti di partenza daranno un tono troppo personale a questa condivisione. Mi anima e incoraggia il pensiero che quanto dirò possa essere un’occasione per fare emergere la vostra personale esperienza e sia pretesto per una “condivisione comunitaria”. Per questo l’ho suddivisa in 7 punti che permetterebbero di sceglierne qualcuno come tema di condivisione nella comunità. Sarebbe un modo di lodare il Signore per il protagonismo della Parola nella nostra vita. Sentirci amati, perdonati, nutriti, sostenuti da questa Parola che portiamo. Anzi prendere coscienza di essere “portati” dalla Parola, alla quale siamo stati “affidati” (Atti 20,32). Da “Servitori della Parola”, allora, ci scopriremo i suoi primi “beneficiari”. La Parola-Signora si fa anche nostra Serva, inginocchiandosi davanti a noi per lavare i piedi dei suoi apostoli!
Il mio primo contatto entusiasta ed appassionato con la Parola è avvenuto durante lo scolasticato a Roma negli anni settanta. Conservo tuttora un grato e gioioso ricordo di quei cinque anni. Erano anni appassionanti, dopo il Concilio e il nostro Capitolo del 1969. L’entusiasmo per la scoperta della Parola di Dio ci galvanizzava un po’ tutti. P. Fernando Colombo, allora segretario generale della formazione, ci stimolava in questa avventura, invitando alcuni di noi a collaborare nella preparazione di riflessioni bibliche da offrire all’Istituto.
L’entusiasmo per il mondo biblico ci portava ad inoltrarci in mondi nuovi ed eccitanti, come quello della tradizione ebraica e rabbinica. Ben presto “l’innamoramento” precedente per la filosofia (che Mons. Vittorino Girardi mi aveva trasmesso) ha ceduto allo charme della ricerca e specializzazione biblica. In particolare con P. Enzo Bellucco, ci stimolavamo a vicenda in questa passione. Sempre incoraggiati da P. Colombo, animavamo insieme il ritiro mensile di una comunità religiosa. Oggi mi viene da sorridere, pensando alla nostra “audacia” di novellini, fatta d’inesperienza ma anche di entusiasmo giovanile. Povere suore più anziane (erano la maggioranza!) la cui pazienza abbiamo messo a dura prova! Ma quelle più giovani, che ci stavano proprio davanti, sembravano avide di quanto condividevamo con loro e prendevano quaderni di appunti, infervorando ulteriormente il nostro ardore!
Eravamo “innamorati” della Parola, conquistati dalla sua freschezza. Mi rivedo oggi in quell’esperienza di Geremia: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti” (Geremia 15,16).
Questa stessa esperienza l’ho rivissuta altre volte negli occhi e nei volti di tanti giovani, in particolare postulanti e novizi (forse un po’ meno tra gli scolastici, ahimè!), predicando ritiri o esercizi spirituali, dentro e fuori dell’Istituto. Vedere nelle loro mani quelle bibbie usate, sottolineate, sudate, ingombrate da fogli e appunti, che quasi si rifiutavano di chiudersi poiché abituate ad essere aperte… era entusiasmante! Immaginavo di quante confidenze nascoste, di quanti baci di passione, di quante sofferenze e lacrime amare, di quanti momenti di dubbio e di eroismo, di gioia e di tristezza, di generosità e di paura… erano testimoni mute, quelle bibbie! Quanto potere quella Parola aveva dimostrato su quei cuori, fino a farli rinunciare a quanto di più caro esisteva al mondo e a tanti progetti e sogni accarezzati forse durante anni. C’era qualcosa di tremendo e misteriosamente affascinante in quella Parola, apparentemente così fragile e umile, che era stata capace di afferrare quei cuori, entusiasmarli e trascinarli in un’avventura dai contorni incerti e dall’esito imprevedibile! Resistere a quel fascino sembrava, talvolta, impossibile. Quante volte sarà uscita da quelle labbra la confessione di Geremia: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Geremia 20,7).
Peccato che quella bibbia consunta, testimone di una storia di passione, sia stata poi abbandonata e dimenticata – da alcuni di noi – chissà dove, o magari conservata come semplice souvenir nella “valigia dei ricordi”. Quella “testimone delle nozze” degli anni di fuoco, di gioie intense, di sogni giovanili è stata forse rimpiazzata da una bibbia “nuova”, più bella da vedere o da esibire, ben incorniciata, sulla scrivania o come icona nel piccolo “altarino” che le abbiamo assegnato. Magari la adoperiamo qualche volta come oggetto di consultazione (preparando qualche predica), sfogliandola con cura per non rovinarne le pagine, rimettendola al suo posto nello scaffale, dopo l’uso. Sì, la portiamo pure al ritiro, ma dobbiamo riconoscere che non abbiamo più con “lei” quella dimestichezza di un tempo. È stata sostituita dal messalino delle letture quotidiane, più comodo e sbrigativo. Con un certo imbarazzo, ci rendiamo conto che facciamo fatica ormai a spostarci dentro di essa. Quella Parola che avevamo sposato con tanta passione rischia di diventare, pian piano, una sconosciuta con cui si convive da “estranei”.
Ritornando ancora all’esperienza di scolasticato, devo precisare che il contatto con la Parola che mi ha più profondamente marcato è stato quello vissuto nell’Eucaristia. Non ringrazierò mai Dio abbastanza per l’esperienza della celebrazione eucaristica fatta con calma, senza fretta, alla sera. Quell’ora (sessanta minuti!) che coronava la nostra giornata non mi è mai sembrata lunga (beh, forse esagero). E non perché i nostri formatori fossero particolarmente “eloquenti”. Due sono scomparsi di recente: P. Mario Casella e P. Francesco De Bertolis. La “parola” non era il loro forte, ma la “bellezza” della loro testimonianza di vita, essa sì, era eloquentissima.
Celebrata alla fine della giornata, seduti attorno al leggio e all’altare, quell’Eucaristia quotidiana era l’appuntamento più bello e riposante della giornata. L’ascolto e la condivisione della Parola, lo spezzare lo stesso Pane in fraternità, ci comunicavano un senso di pace, di serenità, di gioia profonda che era il “salario” della giornata. Quella Parola celebrata e condivisa ha segnato il nostro cuore.
Giovane pretino, assegnato al postulato di Coimbra (Portogallo), ricordo di essere rimasto (quasi) “scandalizzato” nel vedere che l’Eucaristia comunitaria durava soltanto mezz’ora. La mia prima “lotta” da giovane formatore è stata quella di portarla almeno a 45 minuti.
Credo che una “vita comunitaria” vivace e gioiosa nasca (senza volere assolutizzare, naturalmente) attorno all’Eucaristia, celebrata come momento privilegiato di fraternità.
Non ho particolarmente buona memoria nel ricordare il passato, per cui evoco più volentieri gli ultimi anni, vissuti nella comunità della casa provinciale di Lomé-Cacaveli (Togo). Uno dei momenti più belli che abbiamo vissuto come comunità è stato quello della celebrazione dell’Eucaristia la sera del lunedì, giornata comunitaria. La condivisione di vita, orientata e illuminata dalla Parola, ha rinsaldato i nostri rapporti, malgrado le nostre forti differenze culturali, caratteriali, di sensibilità e di età. Il più anziano è andato in cielo recentemente: Fr. Silvano Salandini.
Vi confido (senza voler giudicare) che certe Eucaristie celebrate piuttosto in fretta (da pasqua ebraica) e ad orari quanto mai “sconvenienti” (da cacciatori!) mi lasciano il cuore piuttosto freddo e insonnolito. Forse una maggiore attenzione nel discernimento dell’orario più opportuno e una maggiore generosità del tempo assegnato all’Eucaristia potrebbero essere il “segreto” per aprire il “giardino chiuso” della Sposa (Cantico 4,12) e farci entrare insieme allo Sposo per mangiare e bere con Lui ed inebriarsi dei suoi beni (5,1).
Questa doppia mensa della Parola e dell’Eucaristia sono le due braccia della “Madre” o “Sposa” che ci convoca attorno a sé, ci fa sentire a “casa nostra”, fa crescere il “senso di famiglia” e di fraternità: “Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai di ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti di ulivo intorno alla tua mensa” (Salmo 128,2-3).
La mia prima esperienza di missione in Africa (Togo-Ghana-Benin) dopo 7 anni di formatore in Portogallo è stata particolarmente forte ed entusiasmante, come, d’altronde, per la maggioranza di noi, suppongo. E questo, malgrado le difficoltà iniziali, inerenti alla nostra missione di “portatori della Parola”, cioè lo sforzo dell’inserimento in una nuova cultura (mi sono letto e schedato tutto quello che ho trovato sulla cultura ewe) e lo studio della lingua locale (oltre che il francese che non padroneggiavo).
I primi mesi sono stati particolarmente euforici. P. Antonio Oliveira, un connazionale, con cui avevo lavorato in Portogallo, mi ha accolto nella missione di Afanya (Togo). La simpatia e l’accoglienza della gente e l’amore che sentivo per loro (con una buona dose d’ingenuo filantropismo) mi rendevano sorridente e mi facevano sentire bene in mezzo a loro. Anche qui – di certo mi scuserete – sperimentavo disagio e sofferenza per certi modi troppo sbrigativi (quando non bruschi e aspri) nell’accogliere la gente, che certo non facevano onore e strada alla Parola. Col tempo ho capito che talvolta si trattava di una “facciata” di difesa, una strategia per far fronte al mare di bisogni e di sofferenze dei poveri, dinnanzi ai quali ci si sentiva impotenti. Spesso, dietro certi caratteri scabrosi si nascondeva amore vero, capace di sacrificarsi per la gente.
L’entusiasmo del “primo amore” non è stato senza ombre. La mia prima destinazione è stata Liati (Ghana). Ben presto ho dovuto affrontare le difficoltà reali della vita missionaria. Non solo quelle fisiche come la malattia (dopo poco più di un anno ho dovuto essere rimpatriato). Infatti ero arrivato a Liati in un momento particolarmente critico e delicato, di forte e grave tensione dovuta all’allontanamento forzato di un confratello. È stato il mio “battesimo di fuoco”.
Poi sono arrivate le prime difficoltà apostoliche. Liati era formata da una trentina di comunità disperse in un contesto a maggioranza protestante e in parte animista. Erano comunità piuttosto piccole, caratterizzate dalla povertà di mezzi e spesso anche di personale. Quando andavo a visitare alcune di queste piccole comunità particolarmente “sgangherate”, sentivo tutto il peso di quel “portare la Parola”. Il sorriso (che grazie a Dio non mi è mai mancato) nascondeva spesso la sofferenza che portavo dentro.
Talvolta, guidando la vecchia Land-Rover, che spesso aggravava ulteriormente la situazione, lasciandomi per strada mentre andavo verso quelle comunità, il cuore mi si stringeva e piangeva davanti alla prospettiva di trovarmi solo davanti ad un gruppetto di cristiani o catecumeni mezzo amorfi, con un povero catechista che a mala pena capiva l’inglese. Anche a me veniva da gridare come Elia o Geremia e altri: Basta, non ce la faccio più! Davanti a quel povero “resto di Yahwè”, io poveraccio, mezzo balbuziente (nella lingua locale e nell’inglese che non padroneggiavo), sentivo cadere sulle mie fragili spalle tutto il peso della celebrazione.
Tante volte il Signore ha dovuto ripetere e gridare alle orecchie del mio cuore quanto detto a Giosuè: “Non ti ho io comandato: Sii forte e coraggioso? Non temere e non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio” (Giosuè 1,9). E allora quante volte ho sperimentato con stupore come quella Parola s’impossessasse di me e dell’assemblea, riscaldandoci il cuore, e si finiva nella gioia della festa. Questa poi si prolungava davanti ad un bel piatto di riso con un pezzo di pollo, quando ero fortunato, o magari attorno a una grande calabasse di vino di palma condiviso allegramente.
La Parola aveva operato il miracolo. Ma prima mi aveva chiesto di “offrire” il mio corpo e il mio cuore, quali i 5 pani d’orzo per la moltiplicazione del pane. La Parola ama e vuole “incarnarsi”. Si direbbe che, da quando l’ha fatto nella carne docile e il cuore accogliente del Logos, ci ha preso gusto.
L’esperienza “d’incarnazione” mi ha aperto gli occhi per vedere e apprezzare la bellezza e le prodezze della Parola incarnata in tanti confratelli, magari dovendo lottare ancora con le pietre, i cardi e le spine. Con quanta simpatia e riconoscenza ricordo P. Eugenio Petrogalli che, con il suo entusiasmo e zelo apostolico, mi ha iniziato al lavoro missionario a Liati. Non vorrei farne un elenco ma mi permetto di menzionare semplicemente un altro esempio: P. Fabio Gilli che continua a illuminare tanti di noi con la Parola che esce dalle sue labbra dopo aver attraversato il crogiuolo dell’esperienza di cecità.
Credo che non onoriamo la Parola quando ci limitiamo a vedere i limiti e i difetti delle persone: dei nostri confratelli e della gente. Tra i sassi e i rovi ci sono pure delle spighe dorate che ondeggiano al vento. Ognuno di noi porta in sé degli spazi di bontà, accoglienza e fecondità dove la Parola ha operato il miracolo della fioritura.
Incarnare la Parola comporta dei rischi. Rischi per la Parola e per noi stessi. La nostra umanità geme sotto il “giogo” di questa Parola anche se, con la grazia, dovrebbe essere “soave e leggero” (Mt 11,30). Talvolta la nostra struttura umana e psicologica non regge davanti alle esigenze di una vocazione portatrice della Parola e, magari, la presunzione o la negligenza ci hanno portati a fidarci troppo delle nostre forze e ad essere poco attenti alle nostre debolezze. Il fatto è che la Parola viene “mortificata” nella debolezza della carne e nella distrazione dello spirito. Viene “indebolita” nelle nostre parole senza fiato o addirittura “incatenata” dalla nostra contro-testimonianza (2 Timoteo 2,9).
In questi ultimi anni i pastori della Chiesa sono stati “dati in spettacolo al mondo” (1 Corinzi 4,9), un triste spettacolo di debolezza e di miseria che addolora tutti. La Parola appare crocifissa nelle vittime che abbiamo offeso. Mostrando attenzione verso di loro, siamo chiamati a curare le ferite inflitte alla Parola stessa dalla parola seduttrice e avvelenata del nemico che fin dall’inizio muove guerra alla Parola (Genesi 3,1-5). Nelle piaghe di queste vittime si nascondono quelle del Signore, il Logos crocifisso. E noi le baciamo.
Mi viene da pensare che anche le piaghe inflitte dal peccato nel cuore del “portatore della Parola” vanno rispettate. Quando riconosciute con umiltà e pentimento, anche quelle sono assunte dal Crocifisso. Anche quelle vanno baciate e curate con compassione.
Come provinciale ho dovuto talvolta guardare queste ferite mio malgrado. Ci viene la tentazione di “coprirci la faccia” (Isaia 53,3). Dopo tutto, ognuno porta in sé le proprie debolezze. Quelle degli altri ci ricordano le nostre. Avere il coraggio di “toccare” quelle ferite ci rende umili e compassionevoli e aiuta anche noi perché solo “perdonando” gli altri possiamo perdonare noi stessi e guarire da certi ricordi.
Ma entrare in intimità con l’altro ci fa vedere non solo la sofferenza della debolezza ma anche la voglia di redenzione, il desiderio sincero di lasciarsi plasmare dalla Parola, di lasciarsi “rifare” dalle mani del vasaio (Geremia 18,6). E questa può essere l’occasione per una nuova rifioritura, forse meno appariscente perché i rami presentano le ferite inferte dalla tempesta, ma i frutti sono più maturi e più dolci. Conservo un ricordo profondo di amicizia e di apprezzamento per certi confratelli che, con determinazione, hanno intrapreso il cammino della liberazione, affrontando il deserto della purificazione o la via dolorosa del Calvario.
Alla fine, tutto è grazia. Anche gli sbagli e le debolezze. In un messaggio recente, scritto alcune settimane prima del suo ritorno al Padre, P. Francesco De Bertolis mi diceva: “Leggendo le tue righe mi son tornati in mente i pochi anni passati con voi a Roma – tra i più belli della mia vita… compresi gli sbagli… Gli sbagli ‘imparati’ nella vita valgono molto di più di quelli mai fatti”. Conservo questo messaggio come una ultima perla di saggezza umana e cristiana.
Chi siamo noi per giudicare? Il cuore dell’uomo è un mistero di luci ed ombre. La Parola ha corso i suoi rischi fidandosi di noi, pur conoscendo la nostra debolezza. Ha “scommesso” su di noi e talvolta è stata “fortunata”, altre volte meno. Anche noi, “uomini della Parola”, abbiamo “rischiato”. Nessuno ci ha garantito che tutto sarebbe andato liscio: che avremmo trovato le condizioni ideali per crescere come persone; che avremmo trovato delle comunità accoglienti che ci avrebbero sostenuti nel momento di debolezza; che saremmo stati all’altezza di affrontare tutte le situazioni di stress cui ci avrebbe sottoposto il servizio alla Parola.
Ma, in un modo o nell’altro, prima o poi, la Parola finirà per condurci, tutti quanti, a quella “cima” dove essa è stata innalzata ed “esibita” nella persona di Cristo, il Logos. Là dove nessuno vorrebbe andare, né Pietro e tanto meno noi, ma neanche Gesù. La Parola finirà crocifissa in noi. Può esserlo in tanti modi, spesso nella malattia o nell’anzianità. Le mie due stampelle, fedeli “compagne” da alcuni mesi, talvolta mi rammentano le due travi della croce! È stato il cammino del Maestro, cosa potrebbe aspettarsi il discepolo?
Ricordo ancora la viva impressione che mi fece il nostro confratello P. Ivo do Vale, quando gli ho fatto visita per l’ultima volta all’ospedale di Viseu (Portogallo) nell’estate del 2009. Una vita appassionata della Parola, che tanta “grazia” aveva trovato sulle sue labbra, adesso era lì trasfigurata dal cancro. Eppure in quel corpo ormai senza “grazia” la Parola risplendeva, in un modo nuovo, in tutta la sua Bellezza, nel sorriso di serenità, nella parola di fiducia e nell’atteggiamento di abbandono di P. Ivo. Ma tutti conosciamo tantissimi di questi esempi. Ci fa bene “visitarli” nelle nostre case di accoglienza per gli anziani e ammalati. Là si rivela un altro volto della Parola, quello penultimo, ed è importante saperlo riconoscere e accogliere.
Ma diciamolo pure: se la Parola ha rischiato su di noi e noi abbiamo scommesso la nostra vita sulla Parola è perché in fondo avevamo una forte speranza che entrambi ne avremmo guadagnato. Credo che la grande maggioranza possa dire con me che siamo contenti e felici di essere Comboniani e che nessuna tristezza potrà essere talmente forte da sopraffare questa gioia e serenità profonda (Salmo 16). Se avessimo avuto cento vite, le avremmo tutte spese per la Missione della Parola. L’investimento si è rivelato ottimo.
Nella vita di ogni Comboniano non sono mai mancate le gioie, oltre alle sofferenze del ministero collegate anche alla nostra condizione di “pietre nascoste”, come ci ricordava Comboni nel famoso capitolo X delle Regole del 1871. Non credo che il desiderio di tanti confratelli, molti dei quali anziani e malandati, di “ritornare in missione” sia per andare alla ricerca del “sacrificio” o per puro zelo missionario. È perché il Signore ci ha dato tante consolazioni in mezzo al pianto della semina (Salmo 126,6).
Che gioia vedere le comunità che avevamo iniziato ad Adidogome-Lomé (Togo) vent’anni fa con un gruppetto di giovani, sotto una tettoia di foglie di palma, sono diventate comunità fiorenti e addirittura nuove parrocchie. Un po’ di sano “trionfalismo” ci fa bene! Bisogna permettere che la Parola festeggi anche i suoi “successi” e mostri la sua vitalità. Certi atteggiamenti di voler tarpare le ali dell’entusiasmo di queste comunità nascenti sono come pretendere che il seme della Parola rimanga sotterrato per sempre e non si sviluppi nell’albero frondoso che è chiamato a divenire (Matteo 13,31-32).
Come non gioire nel vedere la gente che dalle prime ore del mattino fino a tarda sera passa singolarmente o a piccoli gruppi nella nostra cappella di Cacaveli-Lomé, per condividere gioie e pene con la Parola-Presenza umile e fedele nel Tabernacolo? O come non intenerirsi davanti alle folle di penitenti che, dal primo pomeriggio fino alla sera tardi del sabato, facevano la fila per cercare nel sacramento della riconciliazione la Parola-Misericordiosa che perdona e riconforta?
Come non gioire nel vedere crescere il numero di confratelli di altri continenti e culture che stanno prendendo il relè per continuare con nuove energie la “corsa della Parola”? È il nostro sogno, incompiuto nella nostra vita, che continua in loro.
Oggi, guardando indietro per alcuni momenti, verso la vallata, possiamo vedere meglio i diversi tornanti del sentiero della nostra vita, malgrado la lontananza nel tempo. E ci rendiamo conto di come siamo stati condotti per mano (Osea 11,3-4). Scopriamo che noi “portatori della Parola”, in realtà, siamo stati, noi stessi, “portati dalla Parola”.
La Parola è nostra Madre, nostra compagna, prima di essere “seme” da noi sparso. Più riflettiamo sulla nostra esperienza più scopriamo con stupore come la Mano di Dio ci abbia condotti lungo la nostra vita e percorso vocazionale. E sentiamo che quelle parole dette a Geremia erano indirizzate anche a noi: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho chiamato” (Geremia 1,5).
In prossimità della mia ordinazione, il mio papà mi fece questa confidenza: “Figlio mio, prima che tu fossi concepito (sono il primogenito di sette figli), con tua madre abbiamo fatto una preghiera a Dio offrendogli il nostro primo figlio, se fosse stato maschio. Il Signore ha accolto la nostra offerta! Non ho voluto dirtelo prima per non condizionarti”.
Come non vedere il “dito” di Dio, per esempio, nella mia maestra delle elementari che mi presentò all’animatore vocazionale comboniano passato nel mio sperduto villaggio il quale, malgrado il suo entusiasmo e simpatia, non era riuscito a convincere nessuno ad andare in seminario? La sua parola fu portavoce della Parola che quel giorno gettò le reti nel mio cuore!
Come non vedere il “dito” di Dio in quelle due ragazze inglesi con cui ho lavorato in un ristorante londinese durante le vacanze dell’ormai lontana estate del 1977, che, allo scoprire che ero seminarista, mi hanno incoraggiato ad andare avanti? Le loro parole semplici ma sincere hanno dato una forza nuova alla Parola che portavo in me. Avevo paura di dare alla Parola il mio “sì” definitivo con i voti perpetui. Ciò che quelle ragazze hanno “visto” in me, ha risvegliato il fascino della Parola. E lì, in quel ristorante, quel giorno ho detto il mio “sì” definitivo alla Parola che nel cuore mi prometteva di dare un senso alla mia vita. Un senso che quei numerosi giovani compagni di lavoro non avevano ancora trovato.
Quante volte la Parola mi ha sorpreso nel sorriso di un bambino, nella parola piena di saggezza di un anziano animista, in un gesto di simpatia di uno sconosciuto. Mi è venuta incontro nel gesto amico o nella parola di incoraggiamento del confratello con cui vivevo. Mi ha toccato il cuore con la testimonianza di fiducia e di semplicità dei poveri. Mi ha edificato con gesti di generosità di alcuni cristiani impegnati nella comunità cristiana.
La Parola si è presa veramente cura di noi!
La prima Parola d’ingresso e accoglienza nel “mondo a venire” che un missionario si aspetta di ascoltare è: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco… prendi parte alla gioia del tuo Padrone” (Matteo 25,21). Sperando che la Parola che ci giudicherà sarà quella che noi abbiamo annunciato come Parola di Misericordia.
La Parola non ci consegna in mano al Giudice ma ci depone amorosamente nelle Mani di Dio. La Parola ci porta “la promessa di entrare nel riposo” (Ebrei 4,1). “Affrettiamoci dunque ad entrare in quel riposo” (Ebrei 4,11). La Parola, prima ancora di essere oggetto della nostra azione, è una Parola che cerca e offre riposo, primizia di quel “riposo” definitivo dell’Amore che soddisferà finalmente ogni ricerca e sete del cuore umano (Salmo 127; 131).
Una delle mie più belle esperienze di pace e serenità, in questi ultimi anni, è stata la pratica della Lectio Divina. La Parola mi ha offerto un vero riposo spirituale e psicologico. Da alcuni anni, per coronare la Lectio sul vangelo del giorno leggo un brano del Cantico dei Cantici (che ho suddiviso in 30 porzioni, una per ogni giorno del mese). Lo prendo come 4° momento della Lectio, cioè la “contemplazione”. “Contemplare” il Cantico dei Cantici, insieme col coltivare la “comunione dei santi” (particolarmente nella recita del rosario), sono le mie due più grandi gioie “spirituali” in questi ultimi anni. Il Cantico è la Parola fatta danza e ritmo, bellezza e fascino, giovinezza ed entusiasmo, gioia ed emozione, amore e passione. Lasciarsi portare dalla contemplazione di questa Parola è lasciarsi coinvolgere in una danza inebriante che rende leggeri i piedi e riempie il cuore di gioia di vivere.
Il riposo nella Parola rinnova il suo portatore per risvegliarlo ogni mattina (Isaia 50,4), contagiandolo con quella urgenza della missione incarnata in Gesù (Marco 1,35-39). La Parola non ha riposo (e quindi neanche il suo portatore) finché l’Oggi del sabato di Dio non sia arrivato.
Concludendo con questa Parola di riposo, mi rendo conto di avervi invece stancati con tante mie parole. Perdonatemi! Prevedendolo, ho suddiviso questa condivisione in 7 punti (7 per arrivare al riposo!). Così qualcuno può prenderla in pillole, o magari scegliere qualche punto, o semplicemente lasciar perdere questo “fogliettone”!
Ma, se mi permettete ancora, formulerei un “ultimo desiderio”, in questo giorno della nascita di Comboni: che il Sogno annidato nel cuore di Comboni attraverso la Parola uscita dal Cuore di Cristo possa ravvivarsi anche in noi e risplendere in tutto il suo fascino per incendiare tanti altri cuori!
Roma, 15 marzo 2012
P. Manuel João Pereira Correia
Missionario comboniano
1. UNA PAROLA APPASSIONANTE
Condividere il nostro rapporto con la Parola: l’esperienza iniziale di essere “sedotti” dalla Parola, il ruolo avuto nella nostra vita, le nostre debolezze personali nei suoi confronti.
2. UNA PAROLA CELEBRATA E CONDIVISA
Condividere le nostre esperienze riguardo alla celebrazione e condivisione sulla Parola nelle nostre comunità.
3. UNA PAROLA INCARNATA
Condividere dei fatti o delle circostanze concrete della nostra esperienza personale riguardo alle implicanze di essere “portatori della Parola”.
4. UNA PAROLA CROCIFISSA
Condividere i nostri sentimenti e atteggiamenti davanti alle debolezze e contro-testimonianze personali e collettive.
5. UNA PAROLA FIORITA
Condividere delle esperienze concrete sulla potenza e fecondità della Parola di Dio nel nostro apostolato.
6. UNA PAROLA CHE CI PORTA
Condividere delle esperienze personali sulla presenza continua e discreta di Dio che guida e conduce la nostra storia.
7. UNA PAROLA DI RIPOSO
Condividere la nostra esperienza personale di preghiera sulla Parola di Dio: consolazione, incoraggiamento, stimolo apostolico.