Martedì 26 gennaio 2016
“Mi sembra giusto farvi partecipi del cammino che stiamo facendo con la nostra gente delle “periferie” di Napoli in questi ultimi mesi, densi di avvenimenti. Il tutto è iniziato il 6 settembre scorso con l’uccisione, alle quattro del mattino, in Piazza Sanità, di un ragazzino di 17 anni, Genny Cesarano. Questo per mano di una banda di otto giovanotti su moto che sparavano all’impazzata, colpendo Genny alla schiena mentre fuggiva. Me lo ha raccontato uno dei giovani presenti in piazza. Sono le bande che terrorizzano il territorio per il controllo del mercato della droga. Le chiamano oggi le baby-gang, stese, paranza dei bimbi”, scrive Alex Zanotelli, missionari comboniano.

 

Lettera agli amici
MISSIONE
A NAPOLI

Carissimi, pace e bene!
Mi sembra giusto farvi partecipi del cammino che stiamo facendo con la nostra gente delle “periferie” di Napoli in questi ultimi mesi, densi di avvenimenti. Il tutto è iniziato il 6 settembre scorso con l’uccisione, alle quattro del mattino, in Piazza Sanità, di un ragazzino di 17 anni, Genny Cesarano. Questo per mano di una banda di otto giovanotti su moto che sparavano all’impazzata, colpendo Genny alla schiena mentre fuggiva. Me lo ha raccontato uno dei giovani presenti in piazza. Sono le bande che terrorizzano il territorio per il controllo del mercato della droga. Le chiamano oggi le baby-gang, stese, paranza dei bimbi.

Avevo sentito nella notte quegli spari, ma mi sembravano i soliti botti da fuochi d’artificio frequenti nel rione.

Al mattino, quando scesi in piazza, mi fu subito detto che Genny era stato ucciso. Avvisai subito il parroco, don Antonio Loffredo, informandolo dell’accaduto. Era la domenica mattina. Quando arrivò, gli dissi: “Non mi sento di celebrare la Messa in chiesa, con il sangue ancora fresco sulla piazza”. Avrei dovuto celebrare la Messa delle nove. Nonostante le proteste dei fedeli, non celebrai. “Sarebbe meglio – dissi poi al parroco – che noi preti celebrassimo un’unica Eucaristia in Piazza Sanità, antistante la Chiesa, dov’è stato ucciso Genny”. Il parroco accettò la sfida, ma non la polizia che ci pedinò per tutto il mattino, intimidendoci che non potevamo celebrare in piazza. Chiesi alla Dirigente perché il Questore avesse posto il veto. “Il Questore ha paura – mi disse – che, se voi celebrate in piazza, la gente del Rione scenda in piazza”. Le risposi seccamente: “Magari scendesse in piazza! Glielo dica al Questore!” Per la Messa che abbiamo celebrato a mezzogiorno, scelsi dei testi biblici appropriati, presi dal libro di Daniele: “Noi abbiamo peccato”, dal profeta Isaia: “Le vostre mani grondano sangue” e dal vangelo di Luca: “Se non vi convertite, perirete tutti”. Una parola forte che scosse l’assemblea cristiana in piazza. “Le nostre mani grondano sangue – dissi all’omelia – siamo tutti responsabili (chiesa compresa!) per la morte di questo ragazzino. Abbiamo tutti peccato. E se non cambiamo strada, periremo tutti. Non verrà nessuno a salvarci. Noi, popolo della Sanità, dobbiamo alzare il capo e urlare: “Basta!”

Dopo la celebrazione, la Dirigente della Polizia mi consegnò il decreto del Questore che proibiva la celebrazione in piazza. Sorrisi. Con stupore invece vedemmo una decina di donne del Rione arrivare in sacrestia. “Noi non possiamo accettare che i nostri figli finiscano così. Noi vorremmo organizzare una fiaccolata di protesta per le strade del Rione. Voi preti, potreste aiutarci?” Era la prima volta che delle donne della Sanità osassero tanto. “Siamo pronti ad aiutarvi”, rispondemmo. Preparammo la fiaccolata all’indomani con un’affollata assemblea in chiesa. Decidemmo di preparare uno striscione: “No Camorra!” e di piantare un albero di ulivo in piazza al posto di un albero tagliato dai ragazzini del Rione! All’indomani, 8 settembre, poco prima di far partire il corteo, mi accorsi che nessuno aveva preparato lo striscione. Recuperai a casa un rotolo di carta e vi feci scrivere: “NO CAMORRA!” Dietro a quella scritta, sfilò un lungo corteo con migliaia di persone. Ero commosso. Per la prima volta questo avvenne alla Sanità. Evidenti le tensioni durante il corteo!

Finalmente, il 10 settembre, il Questore, dopo tante nostre pressioni, permise il funerale pubblico di Genny, ma lo fissò alle ore 7.30 del mattino. Di nuovo il parroco mi chiese di presiedere l’Eucaristia. In una chiesa, S. Maria della Sanità, strapiena, ricordai a tutti che eravamo lì a celebrare il Dio della Vita che non può accettare la morte di un diciasettenne, conseguenza di quella ‘Bomba sociale’ che è la ‘Napoli malamente’. In questa metropoli vi sono due città, quella ‘malamente’ e la ‘Napoli bene’, due città che non vogliono incontrarsi! Chiesi alla gente della Sanità di avere il coraggio di alzare la testa contro le camorre e la criminalità ‘disorganizzata’ (tipica di Napoli!). Con altrettanta forza chiesi alle autorità di non abbandonare il Quartiere, ma di sostenere quelle piccole iniziative che stanno sbocciando nel Rione.

Una folla immensa ha vissuto con commozione quella celebrazione che si concluse alle nove. L’ordine perentorio del Questore era che doveva finire per le 8.20! Il popolo poi sfidò nuovamente il Questore portando la bara di Genny a spalla attraverso la Sanità, in un silenzio surreale, fino a Piazza Cavour (fuori dalla Sanità).

Pochi giorni dopo il funerale, il papà di Genny e i rappresentanti della cittadinanza attiva di Napoli, vennero a chiedere a noi preti di organizzare una marcia cittadina per chiedere i diritti di coloro che vivono nelle periferie e nel centro degradato. A Napoli siamo in clima elettorale ed è facile essere strumentalizzati. A nome dei preti della Sanità risposi che avremmo tentato di accompagnare una tale marcia, solo se i parroci che operano nelle zone a rischio, sia del centro come delle periferie, avessero deciso di essere a fianco di un popolo che vuole alzare la testa.

Così lentamente noi preti della Sanità abbiamo iniziato a contattare i parroci che operano nei quartieri popolari. Questa idea iniziò poi a contagiare tanti di loro. Riuscimmo anche a trovare un parroco che accettò di essere il portavoce di questo popolo in movimento, don Enzo Liardo.

Un altro fatto grave alla Sanità, ci ha ancora più motivato nella strada intrapresa. Il 14 novembre, alle quattro del pomeriggio, di nuovo in Piazza Sanità, piena di gente, due giovanotti in moto, sparando all’impazzata, hanno colpito uno dei boss della droga nel rione, Pierino Esposito, pure lui in moto. Padre di Ciro, ventunenne, ammazzato il 6 gennaio 2015, alla Sanità. Ferito, cadde a terra, ma i killer lo raggiunsero e gli spararono un colpo alla nuca. Sentiti i colpi, insieme con Felicetta e p. Arcadio Sicher, francescano, che ora opera con noi, ci precipitammo in piazza e ci trovammo davanti a un’altra tragedia. Coprii il corpo di Pierino con un lenzuolo. Nella sparatoria, un altro giovane che stava lavorando, Giovanni, si era beccato una pallottola in pancia. Fu portato subito all’ospedale ed è salvo per puro miracolo. Però ha ancora la pallottola in pancia e non potrà ritornare a lavorare. Un’altra tragedia familiare: Giovanni è sposato con un bimbo di otto anni.

Due giorni dopo questo tragico evento, abbiamo vissuto un momento forte, programmato da tempo, che ci ha dato forza e coraggio per continuare il cammino: il Patto delle Catacombe. Il 16 novembre infatti, molti sacerdoti, religiosi e laici impegnati di Napoli e fuori, sono venuti nelle Catacombe di S. Gennaro dei Poveri, situate nel Rione Sanità, per pregare e firmare un documento di impegni seri per far sbocciare una chiesa povera e dei poveri. In quella stessa data, cinquant’anni fa, una cinquantina di vescovi che partecipavano al Concilio – tra i quali il vescovo L. Bettazzi, presente con noi quella sera – erano scesi nelle catacombe di S. Domitilla a Roma impegnandosi ad uno stile di vita povero. Noi a Napoli abbiamo riformulato quell’antico Patto delle Catacombe per risvegliare in questa metropoli la fame e la sete di una chiesa povera capace così di camminare con gli impoveriti, gli ‘scarti’ del Sistema. “Ci impegniamo, in solidarietà con i poveri – così recita uno degli impegni – a rimettere in discussione il nostro Sistema economico-finanziario, i cui effetti devastanti tocchiamo con mano in questo Sud così martoriato e impoverito: sostenendo in maniera nonviolenta nella azione pastorale, i movimenti popolari che si impegnano a favore dei diritti fondamentali: lavoro, casa, terra!”

Quella splendida serata ci ha rafforzato, continuando con più gioia ad accompagnare questo popolo emarginato di Napoli, che tenta di alzare la testa.

Negli incontri con i preti abbiamo lentamente focalizzato i bisogni più urgenti della nostra gente, sempre più emarginata. In primo luogo quelli della scuola pubblica che ha bisogno di essere potenziata in termini qualitativi e quantitativi, una scuola di qualità, a tempo pieno fino a sera. E’ questo il vero bastione contro le camorre. Poi la sicurezza, non solo sulle strade – vigili, presidi di polizia –, ma anche sicurezza sociale con serie politiche per gli esclusi, per gli ‘scarti’ della società. Infine un’attenzione particolare ai giovani – il 70% dei nostri giovani è disoccupato – con inedite e nuove possibilità di lavoro.

In questi incontri come preti abbiamo anche maturato l’idea che non potevamo essere capopopolo o preti anticlan, ma semplicemente camminare con un popolo che aveva deciso di reagire. La lettera, infatti, che abbiamo poi scritto al governo, porta il titolo “Un popolo in cammino”. E’ quanto ci ha incoraggiato a fare Papa Francesco nei due discorsi ai movimenti popolari. Su questo documento si sono ritrovate le realtà di base napoletane, dai movimenti studenteschi a Libera, dai centri sociali ai comitati delle ‘periferie’ di Napoli. E’ con questo coordinamento che abbiamo deciso la manifestazione del 5 dicembre. Quel giorno si è visto scendere in piazza Dante e marciare fino a Piazza Plebiscito, sette-ottomila persone, accompagnate da una cinquantina di preti dietro un grande striscione: “Un popolo in cammino, per la giustizia sociale, contro le camorre”. Era la prima volta che i preti di tre zone a rischio della città scendevano a fianco della loro gente. Con una splendida giornata di sole è stata una gioia marciare per il centro di Napoli fino alla Prefettura, gridando: “No alle Camorre”, ma anche chiedendo giustizia per il popolo che vive nelle periferie. Come piccolo gruppo siamo saliti poi dal Prefetto per consegnargli la lettera, firmata dai parroci delle periferie e dalle organizzazioni civili, “Un popolo in cammino”. Il Prefetto, che ha riconosciuto che a Napoli si vive una “bomba sociale”, ha promesso di inviare la lettera al Consiglio dei Ministri per chiedere un intervento strutturale del governo, soprattutto per la scuola, la sicurezza e per i giovani. Il Prefetto ci ha promesso una risposta del governo entro fine gennaio. Nel frattempo abbiamo deciso di preparare un’assemblea cittadina che si terrà il 30 gennaio nella Chiesa S. Maria alla Sanità.

Un cammino il nostro che continua ad essere funestato dal sangue. Il 31 dicembre sera è stato ucciso a Forcella, un altro rione a rischio del centro, un altro giovane, Maikol, padre di due bimbi, mentre aspettava il fratello che terminasse il suo lavoro da barista. Un altro innocente, facilmente scambiato per un altro, Luigi Di Rupo, un pregiudicato, che è stato poi ucciso il 5 gennaio in un negozio dove si vendevano ‘calze’ di dolciumi per la befana E’ un massacro: 52 omicidi a Napoli lo scorso anno in questa faida senza fine per mano delle camorre.

Noi siamo decisi a camminare con questo nostro popolo ‘scartato’ della vita che ci ha donato Gesù, perché avessimo vita in abbondanza. “Queste radicali verità della fede diventano realmente vere, – diceva il vescovo, martire di El Salvador, mons. Óscar Romero – e verità radicali, quando la Chiesa si inserisce nel cuore della vita e della morte del suo popolo. Si presenta dunque alla Chiesa, come a ogni uomo, l’opzione fondamentale per la sua fede: essere in favore della vita o della morte. Vediamo con grande chiarezza che, in questo, la neutralità è impossibile. O serviamo la vita del popolo o siamo complici della sua morte. E qui si dà la mediazione storica dell’aspetto fondamentale nella fede: o crediamo in un Dio di vita o serviamo gli idoli di morte”.

E’ questa la nostra missione oggi in questo Rione Sanità, in questa Napoli ‘malamente’, che ha tanta voglia di vivere.
Alex Zanotelli
Napoli, 20 gennaio 2016