Mercoledì 7 ottobre 2015
In questi giorni di grande fermento mediatico e politico sul fenomeno dell’immigrazione, riportiamo un’intervista a Padre Daniele Moschetti [nella foto], originario di Varese. Padre Daniele ha 54 anni, è superiore dei Missionari Comboniani nella Provincia del Sud Sudan. Nella sua attività missionaria iniziata nel 1992, ha solcato medio Oriente ed Africa, in particolare Palestina, Kenya e Sud Sudan. Di passaggio in Italia, per via del Capitolo Generale dei comboniani in corso a Roma nel mese di settembre, ha accettato con generosa disponibilità la proposta di rispondere ad alcune nostre domande. Uno approccio alternativo, un punto di vista autorevole e disincantato, che ci aiuta a guardare dentro, ci invita a capire oltre. Oltre le immagini ormai quotidiane di uomini e di donne che per noi non hanno un nome, oltre le soluzioni facili e sommarie, oltre le opinioni comuni e le legittime paure… ci sono storie di vita, drammi umani che si intrecciano ad affari internazionali, a dinamiche globali che appaiono definitive e incontrollabili. Ricchezza e povertà, opulenza e miseria, superfluo e stenti, benessere e sopravvivenza. Poli opposti di un unico pianeta, quando l’umanità soccombe al sistema che essa stessa ha generato.
Intervista di Giulia Sergiacomo
P. Daniele Moschetti di passaggio in Italia, per via del Capitolo Generale dei comboniani in corso a Roma nel mese di settembre, ha accettato con generosa disponibilità la proposta di rispondere ad alcune nostre domande.
Il giovedì 1 ottobre 2015 P. Daniele ha visitato Papa Francesco e gli ha regalato il libro “Servitori del vangelo – Testimoni sulle orme di san Daniele Comboni in Sud Sudan”, recentemente pubblicato in Italia.
Padre Daniele, coloro che salgono sulle barche della speranza e della morte, da cosa scappano?
Scappano da guerra, miseria, povertà. Salgono su quelle barche in ricerca di un futuro migliore. In Africa il 70% della popolazione ha meno di 30 anni, con pochissime prospettive, nessuna opportunità.
Molti partono per poter offrire una forma sussistenza alla propria famiglia, magari numerosa, che rimane nel paese di origine. Partono per cercare un lavoro in Europa, come in tante altre parti nel mondo.
Il fenomeno migratorio che vediamo travolgere l’Europa, in realtà si sviluppa anche altrove.
E’ poco nota ad esempio la dinamica migratoria in atto Africa: vi sono milioni di profughi invisibili agli occhi dell’occidente, che migrano all’interno dei territori africani. Le nazioni africane ospitano numerosissimi campi di rifugiati o semplicemente di sfollati, all’interno del loro territori. Si tratta di stati già molto poveri, disposti ad ospitare sfollati provenienti da situazioni più difficili. Cominciamo a ringraziare l’Africa stessa che fa un enorme sforzo di autosostentamento. Oggi stiamo assistendo ad una migrazione numericamente biblica dai paesi del medio oriente (in particolare dalla Siria) e dell’Africa (Libia, Somalia, Eritrea). Sono paesi che soffrono terribilmente i regimi dittatoriali, situazioni assurde che noi non possiamo neanche immaginare.
Una moltitudine di profughi parte dall’Africa sub sahariana e attraversa il deserto. Coloro che sopravvivono e riescono a raggiungere la Libia, sono disposti a pagare a caro prezzo quello che sanno potrebbe il loro ultimo viaggio.
Queste persone accettano situazioni debitorie pesantissime pur di darsi o di dare alla propria famiglia un’opportunità diversa. Sanno benissimo di rischiare la vita. Ma non hanno altra scelta.
Vi porto l’esempio proprio del Sud-Sudan, il paese nel quale vivo. Si tratta di un paese nato nel 2011, quando un referendum ha sancito l’indipendenza dal Sudan, fra le macerie di 40 anni di guerra contro il Sudan e oltre due milioni di morti. Dopo soli due anni e mezzo di tregua è sprofondato nuovamente in una crisi politica evolutasi con una violenza inaudita in una guerriglia etnica di atroci dimensioni. Ora la popolazione è ridotta in miseria, stretta nella morsa di una politica corrotta, armata e asservita al potere di una élite che detiene per sé le risorse comuni senza condividere nulla con la popolazione. È un paese che dal dicembre 2013 ha speso 1 miliardo di dollari in armi e sistemi di controllo, in cui 400.000 bambini sono privati dell’istruzione elementare, e che nel 2014 ha arruolato 12.000 bambini soldato. Per il Sud Sudan, nel 2014, una compagnia cinese, con un solo imbarco, ha spedito 27 milioni di proiettili: se li allineassimo uno dopo l’altro, da Roma arriveremmo a Londra. Ecco da cosa scappano.
Nell’animo di questa gente vedi disperazione, rabbia o rassegnazione?
Disperazione e rabbia direi di no. Rassegnazione nemmeno. Anzi. Vedo fiducia e coraggio nella ricerca di condizioni di migliori, o di qualche opportunità per garantire un futuro alle loro famiglie. Sono vittime di governi totalmente disinteressati allo sviluppo della popolazione, al miglioramento delle condizioni di vita della gente. Ci sono paesi in guerra dove si assiste solo alla distruzione totale, nessuna garanzia per i cittadini.
Prendiamo ad esempio l’Eritrea. Qui la dittatura impedisce lo sviluppo di una vita normale. Il governo è totalmente indifferente allo sviluppo del paese, non si occupa nemmeno della semplice progettazione e realizzazione di strade e servizi. Il servizio di leva è obbligatorio a 19 anni, a tempo praticamente indeterminato, per donne e uomini. Non vi è alcun’altra opportunità per un giovane che si affaccia alla vita. Non esistono possibilità di emancipazione in un paese il cui territorio è totalmente militarizzato e che assiste indifferente ad un esodo continuo di migliaia di cittadini in fuga in varie direzioni. Migliaia di eritrei lavorano in tanti paesi africani e non. Si tratta di operai, professionisti, tecnici di alto livello, una forza propulsiva che sarebbe soltanto repressa nel loro paese. Non stiamo parlando di oziosi miserabili, ma di uomini che portano in se un potenziale di esperienze e professione, forza lavoro che viene disprezzata nel paese di origine. C’è una grande solidarietà fra eritrei, sono gente capace, colta, ma impossibilitata a dare il proprio contributo. Quelli di loro che vivono e lavorano in tutto il mondo (Inghilterra, Stati Uniti, Australia) contribuiscono a sostenere economicamente i connazionali in difficoltà, anche con investimenti concreti sui progetti che essi stessi sviluppano nel loro esilio forzato in paesi stranieri.
L’eritrea ha potenzialità di sviluppo enormi, sarebbe probabilmente fra i più evoluti paresi africani, se non dovesse soccombere sotto il peso della dittatura. Con le sue incantevoli risorse naturali e paesaggistiche, potrebbe essere un paradiso del turismo, invece è un inferno di povertà e miseria.
I popoli del sud del mondo sono arrabbiati nei confronti del nord del pianeta?
(padre Daniele sorride affettuosamente) Lo siamo molto più noi con loro, di quanto essi lo siano con noi. Nonostante, lo sappiamo bene, avrebbero il diritto di esserlo. Per decenni, per quasi un secolo abbiamo sfruttato i loro paesi, le loro risorse naturali e umane. Abbiamo praticato una forma di schiavitù che ancora oggi persiste attraverso un forma di neo-colonialismo economico. Abbiamo pensato e promosso lo sviluppo dei paesi ricchi a spese dei paesi poveri, abbiamo stipulato accordi politici ed economici con i loro governi dittatoriali, incuranti delle condizioni della gente. Abbiamo stretto amicizie a tradimento, investito su progetti e programmi industriali e commerciali, senza preoccuparci delle ricadute che avrebbero potuto avere sulla popolazione locale. E così ci ritroviamo tutti in un sistema-mondo praticamente impazzito. I popoli dell’occidente vogliono vivere una vita sempre più agiata, senza pensare che abbiamo condannato loro ad avere sempre meno.
Dobbiamo sentire la nostra responsabilità. Le multinazionali sono diventate ricchissime a spese dei paesi più poveri.
In tanti anni in africa, fatta eccezione di momenti veramente critici, non ho mai visto nella gente una forma di rancore verso l’occidente. Siamo noi quelli davvero arrabbiati. L’Italia è un paese in cui alcuni politici possono pontificare sul destino della gente e permettersi giudizi sommari ed infausti senza neanche conoscere le persone di cui stanno parlando. Quello che spesso sento in televisione, lo stile di approccio, il modo di parlare e apostrofare, è davvero razzista. Non controbilancia la realtà in quei paesi. Questo mi fa male come immigrato in Africa. Nei paesi del sud non c’è astio, odio nei confronti dei popoli del nord.
Non voglio indorare la pillola. Ma forse la nostra ignoranza ci porta a raffigurarci una “finzione” che nulla ha a che vedere con la concretezza delle cose.
Chi conosce la realtà che c’è dietro, con l’esperienza, vede quanto verso questi popoli l’occidente eserciti ancora, nei fatti, una forma concreta di schiavitù. E le forme di schiavitù non sono sostenibili a lungo andare.
O ci sarà un integrazione, o davvero ci daremo la mano, o sarà la guerra. E la guerra è a scapito di tutti. Pensiamo all’evento dell’11 settembre 2001. Poteva essere un’occasione per fermarsi a riflettere. Invece abbiamo, ancora una volta, deciso di rispondere con la forza. Non un sforzo ad individuare e rimuovere le cause, i motivi dell’odio e del desiderio di vendetta. Abbiamo convogliato tutti i nostri sforzi sulla questione della “sicurezza”, dovevamo garantire la sicurezza dell’occidente. E oggi? Cosa raccogliamo. Quale sicurezza? Una la sicurezza che non esiste più da nessuna parte.
Dobbiamo avere il coraggio di cambiare i rapporti. Vogliamo depredare le risorse e non vogliamo dare nulla? Non è più possibile. Queste persone non chiedono spasmodiche ricchezze, ma solo dignità. Nella povertà si instaurano rapporti semplici, relazioni vere. Purtroppo il mito dell’occidente porta loro stessi ad adeguarsi al mito del benessere a tutti i costi. Una integrazione vera non dovrà significare il trasferimento di massa nei paesi dell’occidente, no! Riconoscere la dignità ai migranti, non coincide con l’obiettivo di trasferire l’africa in occidente. Dobbiamo aiutare questi fratelli a vivere nel loro paese in modo dignitoso, senza uno sfruttamento maligno, incurante ed egoistico dei loro territorio e delle loro risorse.
Padre Daniele, pensi che ci sia davvero una possibilità di cambiamento? Loro cosa si aspettano da noi?
Dobbiamo essere critici, sforzarci di conoscere, comprendere e cercare la via dell’integrazione. Chiedere politiche economiche di reale sviluppo. C’è uno squilibrio enorme fra il nord e il sud. Dobbiamo esigere rispetto e dignità.
Il vecchio continente è ormai un continente vecchio. Numericamente non abbiamo alcuna speranza di contrapporci ad un popolo fatto di giovani.
La bibbia ci spiega molto bene che quando i popoli opulenti sono diventati ricchi, gli imperi sono caduti. Stiamo diventando un continente ricco che fa fatica, se continuiamo così ci aspetta solo la decadenza. Una decadenza ormai già visibile nella qualità dei rapporti, della comunicazione. Ci troviamo immorsati in un finto modernismo. In realtà non ci accorgiamo di essere noi stessi emarginati, come in un mondo irreale, perché non ci accorgiamo che la maggioranza della popolazione non vive come noi. Siamo privilegiati, e ci sentiamo comunque insoddisfatti. Dobbiamo farcene una ragione. Non possiamo star bene da soli.
La via c’è per trovare le soluzioni, ma ci deve essere la volontà.
Quello dell’immigrazione, oltre ad essere un business, è diventato uno strumento politico per trovare consenso. Questo non è leale, non è rispettoso, è inaccettabile nei confronti della dignità di queste persone che stanno vivendo dei veri e propri drammi. I politici pronunciano parole superficiali, e l’indomani possono rinnegarle. Ma la gente che vive queste situazioni, e muore, la vita non la riprende più.
Chi disprezza queste persone e fa della loro esclusione una propaganda mi fa davvero raccapricciare. Significa che abbiamo perso la memoria storica. Milioni di italiani, nel passato, sono andati all’estero per lavoro, erano poveri e disperati come loro oggi. Quando un popolo perde la memoria è finito. Per dare un futuro a questi bambini che crescono (Padre Daniele, sorridendo, indica i miei figli che da un pezzo hanno disonorato i buoni propositi di rimanere in silenzio e si rincorrono continuamente l’un l’altro) occorre mettere solide basi educative per una cultura dell’integrazione, del dialogo, della solidarietà tra le culture e le religioni. Pensiamo all’Islam, non tutti i fedeli islamici sono integralisti. Conosco famiglie che vivono in maniera molto bella e profonda la propria religiosità. Poi ci sono gli integralisti. Ma la loro non è una questione di religione. Tanti mussulmani sono morti per mano degli integralisti mussulmani stessi. Attenzione a farne un muro contro muro. Abbiamo anche noi la nostra storia, anche i cristiani hanno vissuto la stagione dell’integralismo violento. Pensiamo alle crociate. Certamente l’islam ha tanta strada da fare, ma anche il cristianesimo ha tanta strada da fare per recuperare i valori del Vangelo, anche le nostre comunità devono mettersi in cammino. Potrebbero essere questi profughi, che Dio chiama figli, un occasione per riprendere il cammino?
Intervista di Giulia Sergiacomo