Comboni ha amato Dio più di se stesso e del suo successo nel mondo

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Lunedì 11 novembre 2013
“Mi rimane solo da esprimere ai Padri Comboniani tutto l’affetto e la riconoscenza della Chiesa bresciana: rimanendo fedeli al loro fondatore ci aiutino a diventare una Chiesa missionaria, lieta di annunciare il vangelo nella vecchia Europa”, ha detto il vescovo di Brescia, Mons. Luciano Monari (foto), nell’omelia dell’Eucaristia del decimo anniversario di canonizzazione di san Daniele Comboni il 5 ottobre 2013 a Limone sul Garda.

Omelia del vescovo Luciano Monari
alla S. Messa in memoria di San Daniele Comboni
in occasione del decimo anniversario di canonizzazione.
Limone sul Garda
5 ottobre 2013

Che cosa può avere spinto Daniele Comboni, a metà del secolo xix a ideare e assumere un programma come “Salvare l’Africa con l’Africa”? a pensare e proporre un “Piano per la rigenerazione dell’Africa”? La cultura del tempo era etnocentrica, incapace di immaginare una crescita di civiltà che non significasse europeizzazione; gli interessi comuni erano orientati verso uno sfruttamento del continente nero e delle sue risorse, non certo verso uno sviluppo civile dell’Africa e la assunzione di responsabilità da parte degli Africani: libertà, autonomia, cultura africana erano di là da venire, impensabili. Eppure Comboni le ha pensate; era un genio? Credo sia più corretto dire: era un cristiano e dall’interno della sua fede ha tratto l’impulso a sperare nell’Africa e negli Africani.

È un esempio, Comboni, di quello che il vangelo di oggi ci propone: “Se aveste fede come un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe.” Questo non vuol dire che la fede sia un meccanismo da usare per fare cose impossibili, come spostare le montagne o sradicare gli alberi. La fede è sempre e solo l’atteggiamento attraverso cui la volontà di Dio passa dentro di noi e, attraverso di noi, si compie nel mondo. Comboni ha sognato in grande perché ha conformato i suoi desideri alle promesse di Dio; e ha osato in grande perché ha amato Dio più di se stesso e del suo successo nel mondo.

Dio ha creato l’uomo maschio e femmina, a sua immagine e somiglianza: dunque l’uomo, maschio e femmina, è chiamato a farsi carico del mondo creato da Dio e a portarlo alla sua perfezione, mantenendo un rapporto di obbedienza e di amore verso il Creatore. È vero: il peccato ha segnato profondamente il nostro vissuto e forte è la tentazione di ripiegarsi su se stessi, di porre l’autodifesa e l’autoaffermazione come obiettivo supremo dei nostri sforzi; ma è anche vero che la redenzione di Cristo è compiuta a favore di ogni uomo. La volontà di Dio “che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” è dunque una possibilità concreta; di più, è una volontà divina iscritta ormai in modo indelebile nel tessuto della storia. Comboni ha accolto questa volontà, l’ha fatta sua, si è considerato servo del Signore per il compimento del suo disegno. Il piano per l’Africa, dunque, è di Comboni: nasce dai suoi pensieri e dalle sue esperienze; ma il piano per l’Africa è di Dio in Gesù Cristo. E’ il cuore di Comboni che ha pensato e voluto i Padri Missionari del Sacro Cuore e le Pie Madri della Nigrizia; ma è la parola di Dio, lo Spirito di Dio che hanno plasmato il cuore di Comboni perché esultasse di fronte al sogno di un’Africa rigenerata e viva nella fede.

Se avesse a vivere oggi, forse, Comboni vedrebbe molto più chiaramente attraverso quanta fatica, quante sofferenze, quante delusioni sarebbe dovuto passare il suo sogno; ma vedrebbe anche quanta speranza e quale futuro stanno oggi davanti all’Africa. Il mondo occidentale si è arricchito sull’Africa ma, come sempre accade, la ricchezza lo ha snervato; come recita il cantico di Mosè: “si è ingrassato, impinguato, rimpinzato…e ha respinto Dio che lo aveva fatto.” Ha consumato molto e ha perso il desiderio di creare; sembra diventato impotente, incapace di fare figli e quindi di generare un futuro. Ha qualche sussulto di coscienza, come di fronte alla tragedia immane di Lampedusa, ma rimane bloccato su scelte immediate; corre dietro alle emergenze ma non riesce più a immaginare globalmente una migliore realizzazione di umanità, a impegnarsi per il bene di tutti, proprio di tutti – anche delle generazioni future. L’Africa, mi sembra, ha davanti a sé un futuro tumultuoso e difficile: la corruzione, la violenza, la povertà estrema, il tribalismo, la debolezza politica, la sanità, l’educazione… sono altrettante sfide ciascuna delle quali sembra impossibile da vincere. Non è difficile immaginare il peso di sofferenza che l’Africa sta pagando e pagherà nei prossimi anni. E però l’Africa si è mossa ed è diventata una generatrice di speranza. Mettersi al servizio di questo cammino africano – come ha fatto Comboni – è scelta lungimirante e promettente che i Comboniani sono chiamati a rinnovare e a diffondere.

Ci fermiamo qui? Dobbiamo allora sperare per l’Africa e disperare per l’Europa? No; decisamente no. Comboni ha sognato per l’Africa quando non c’erano molti motivi per sognare; non dovremmo noi poter sognare per l’Europa che conserva nonostante tutto patrimoni culturali immensi, tradizioni cristiane profonde, dottrine morali nobilissime, istituzioni ricche di storia e di saggezza? Credo che la fedeltà a Comboni ci obblighi a continuare l’amore per l’Africa ma anche a immaginare e desiderare un “Piano per la rigenerazione dell’Europa.” Quella che è finita è l’Europa del consumismo, del relativismo, dell’autosufficienza, l’Europa che faceva pagare il suo benessere al resto del mondo. Ma può nascere un’Europa nuova, più umile, più rispettosa degli altri, più creativa nel bene, più solidale nel progresso. Un tratto caratteristico che ha contribuito in passato alla grandezza dell’Europa – ci dicono gli storici – è stata la sua curiosità, la sua attenzione ai popoli diversi, alle diverse tradizioni; quello che può ancora fare grande l’Europa è trasformare questa positiva curiosità in solidarietà. Paolo VI ha spesso preconizzato una ‘civiltà dell’amore’ dove la persone, i gruppi sociali, le nazioni operassero solidali gli uni con gli altri, portando i pesi gli uni degli altri, arricchendo gli uni gli altri. L’idea è chiarissima e può diventare un punto di orientamento per l’Europa. Abbiamo bisogno però di persone che ci aiutino a capire che cosa concretamente significhi un amore per gli altri – per le persone, per le nazioni, per le culture, per le istituzioni.

Scriveva sant’Agostino che se verso tutti noi siamo debitori del medesimo amore, non con tutti bisogna usare la medesima medicina. Voleva dire che ‘amare’ non è solo un sentimento e nemmeno solo un comportamento generato dal sentimento dell’amore. Amare richiede anche l’intelligenza di capire che cosa è possibile fare e come sia possibile farlo; e richiede anche di comprendere quali scelte e comportamenti migliorino effettivamente la società delle nazioni: è perciò richiesto l’impegno di tutti: filosofi e sociologi, economisti e imprenditori, politici e amministratori, educatori ed esperti di comunicazione. Qui è richiesto anche l’impegno dei cristiani in quanto tali. Non perché i cristiani siano meglio degli altri, ma perchè hanno ricevuto un vangelo di salvezza che colloca l’esistenza dell’uomo sul fondamento incrollabile dell’amore di Dio, che apre davanti al cuore dell’uomo la speranza salda della promessa di Dio. Il profeta Abacuc, sconvolto dallo spettacolo delle ingiustizie che guastavano il suo mondo, si rivolgeva al Signore con un grido: “Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese. Il Signore rispose e mi disse: Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.”

Ritorniamo così alla fede: alla fede in Dio creatore che vuole la vita dell’uomo, alla fede in Cristo redentore che ha dato la sua vita per tutti. Questa fede ci permette di sperare: di sperare per l’Africa e per l’Europa, per ogni uomo. Deve però trattarsi di una speranza attiva, che non si limita ad attendere passivamente il futuro, ma che s’impegna a costruirlo con determinazione. La speranza vera è compromettente perché obbliga a puntare tutto sulla speranza; obbliga quindi a non vivere unicamente nel presente, col desiderio di sfruttarlo e di ricavare dal presente il massimo di soddisfazioni possibile; obbliga invece a piegare il presente in vista del futuro sperato, ad assumere la fatica del cambiamento con passione e insieme con umiltà. Sì, anche con umiltà, perché ciascuno di noi può vedere molto poco di ciò che realizza. Comboni ha operato molto – oggi lo vediamo con chiarezza. Ma nella sua vita ha visto poco; se avesse dovuto dare una misura del suo successo, forse sarebbe rimasto deluso. Ma a noi viene chiesto solo di dire: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.” Non è un mio progetto quello che servo ma il disegno di Dio; non è il mio successo che cerco, ma il bene dell’uomo; posso appassionarmi con tutto il cuore e nello stesso tempo sono libero dal bisogno di misurare i miei risultati. Nemmeno io so valutare quali siano le cose più utili che ho fatto perché Dio solo ha la visione completa del disegno e sa collocare nell’armonia del tutto ogni più piccolo frammento.

Come ultima cosa, mi rimane solo da esprimere ai Padri Comboniani tutto l’affetto e la riconoscenza della Chiesa bresciana: rimanendo fedeli al loro fondatore ci aiutino a diventare una Chiesa missionaria, lieta di annunciare il vangelo nella vecchia Europa, serena anche davanti alla scarsità dei frutti visibili perché fiduciosa nella promessa di Dio: “è una visione che attesta un termine e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà.”