Roma, sabato 1 settembre 2012
Oggi “L’Osservatore Romano” pubblica una intervista al missionario comboniano spagnolo Miguel Ángel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, incarico affidatogli il 30 giugno scorso da Benedetto XVI. Segue l’intervista condotta da Gianluca Biccini.
È stato per vent’anni missionario in Egitto e Sudan. Ed è proprio lì che ha scoperto l’importanza del dialogo come «strumento per superare i conflitti e attingere insieme alle sorgenti della pace». Forte di questa consapevolezza e dell’esperienza maturata alla guida del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (Pisai) — di cui è stato preside dal 2006 — il comboniano spagnolo Miguel Ángel Ayuso Guixot si prepara al suo nuovo compito di segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, incarico affidatogli il 30 giugno scorso da Benedetto XVI. In questa intervista al nostro giornale il religioso sessantenne, succeduto all’arcivescovo Pier Luigi Celata (nominato il 23 luglio vice camerlengo di Santa Romana Chiesa), parla delle prospettive del dialogo tra le religioni con particolare riferimento ai rapporti tra cattolici e musulmani.
Lei viene da una famiglia numerosa e profondamente cattolica. Come ha inciso l’ambiente familiare nella sua formazione giovanile?
Sono nato il 17 giugno 1952 a Siviglia, in Spagna, quinto di nove tra fratelli e sorelle, in una famiglia di grande fede cattolica. Mi hanno molto colpito in proposito le recenti parole del Papa durante la veglia con le famiglie a Milano, quando gli è stato chiesto come immaginasse il Paradiso: Benedetto XVI ha accennato alla sua infanzia e alla sua gioventù, quando nella famiglia di origine c’era l’abitudine di partecipare tutti insieme alla messa domenicale e di ritrovarsi poi a casa per il pranzo. Anche nella mia famiglia la domenica si andava a messa insieme e poi ricordo che con mio padre ci recavamo a visitare gli ammalati e i poveri. Quindi, attorno alla tavola imbandita celebravamo tutti insieme il giorno del Signore. Qualcosa di veramente bello: mio padre ha sempre servito la Chiesa con amore e dedizione per gli indigenti e i bisognosi, benché avesse a carico ben nove figli. Penso che tra i nostri familiari, che hanno vissuto la fede in un modo silenzioso e generoso verso gli altri, siano germogliati semi di santità, Anche a me piacerebbe che il Paradiso fosse così.
Com’è nata la sua vocazione?
Da piccolo, frequentando il Colegio Claret, ho trascorso un anno nel seminario minore. Ma i miei genitori hanno preferito che continuassi gli studi fino alla maturità, per poi prendere una decisione meglio ponderata. Invece dopo gli esami, mi sono iscritto alla facoltà di legge dell’università di Siviglia. In seguito, durante un ritiro per giovani, ho incontrato un sacerdote a cui ho confidato le mie inquietudini vocazionali. Questo prete mi ha detto: non ti preoccupare sul quando e sul come, l’importante è pregare il Signore; e se scopri che hai la vocazione missionaria, ci penserà Lui ad aprirti la strada. Così è stato: poco dopo ho conosciuto i missionari Comboniani del Cuore di Gesù, attraverso la loro rivista e le loro pubblicazioni, e con lo stupore della mia famiglia sono entrato nella congregazione fondata da san Daniele Comboni. Era il settembre del 1973. Il 2 maggio 1980 ho emesso la professione perpetua. Nel frattempo ho proseguito la formazione ecclesiastica a Roma, studiando teologia alla Pontificia Università Urbaniana, e sono stato ordinato sacerdote, trentenne, il 20 settembre 1982.
Quali sono stati i suoi primi incarichi?
Sono partito missionario per l’Egitto e il Sudan: prima sono stato parroco al Cairo, poi direttore del centro catechetico nella diocesi sudanese di El-Obeid, che comprende come territori tutto il Kordofan e il Darfur. Nella parrocchia latina del Sacro Cuore in Abbasiyya, al Cairo, vicino alla cattedrale della comunità dei copti-ortodossi e non lontano dall’Università di al-Azhar, mi sono dedicato all’accoglienza e all’assistenza dei giovani sudanesi cattolici, presenti nella capitale egiziana per motivi vari: studio, emigrazione, rifugio politico e altro. Questa esperienza, sulla scia del fondatore, mi ha condotto poi in Sudan, dove mi sono dedicato al lavoro pastorale, catechetico e liturgico nella diocesi di El-Obeid. Era il tempo della guerra civile, un’esperienza dalla quale sono uscito provato ma molto arricchito sul piano umano e sacerdotale, perché attraverso la formazione dei catechisti abbiamo potuto assicurare un sostegno continuo alle nostre comunità cattoliche sparse in un territorio vastissimo, dove difficilmente i missionari stranieri potevano arrivare. In quelle situazioni estreme ho capito quanto importante sia il dialogo, come strumento per superare i conflitti e attingere insieme alle sorgenti della pace. Dunque attraverso queste esperienze pastorali ho scoperto, come ho affermato in diverse occasioni, quanto sia importante un dialogo di vita tra credenti.
Un tema, quello del dialogo, che continua a essere particolarmente attuale proprio in Egitto e in Sudan.
Direi di sì, vista la situazione che si vive in questi due Paesi. Nel primo, perché le trasformazioni tuttora in corso devono tenere conto di un elemento essenziale, che è all’origine della cosiddetta “primavera araba”, e cioè la rivendicazione del rispetto della persona umana e dei suoi diritti, e in particolare la libertà di espressione, il diritto a una vita dignitosa e via dicendo. Nel secondo, perché dopo la creazione del nuovo Stato del Sud Sudan, è auspicio comune che ci sia un vero sviluppo integrale per tutte le componenti etniche e religiose, al nord come al sud, nella costruzione di rapporti di giustizia e di rispetto del diritto internazionale. Si tratta di un cammino ancora lungo da percorrere, che dovrà essere accompagnato da un dialogo positivo e costruttivo. Il dialogo tra le religioni, benché non si occupi di questioni politiche, può dare il suo specifico contributo per il riconoscimento dei valori che sono alla base della giustizia e della pace, sia all’interno del Paese sia nei rapporti con altri Stati.
In un settore così delicato non si può improvvisare. Come si è preparato per lavorare in questo ambiente?
Ho conseguito la licenza in studi arabi e d’islamistica presso il Pisai nel 1982 e ho ottenuto un dottorato in teologia dogmatica all’università di Granada nel 2000. Quindi ho insegnato islamologia prima a Khartoum, poi al Cairo e, infine, a Roma, dove in seguito sono divenuto preside del Pisai. Ho anche presieduto vari incontri di dialogo interreligioso in Africa: dall’Egitto al Sudan, dal Kenya all’Etiopia e al Mozambico. Poi, come preside del Pisai, ho avuto la possibilità di partecipare a tanti incontri di dialogo in altri continenti: Europa, America, Australia. Davvero questi incontri sono stati di una ricchezza enorme, per il confronto accademico con diverse autorità e istituzioni, ma soprattutto con tanti uomini e donne di buona volontà, che credendo all’importanza del dialogo tra le religioni e tra le culture si sforzano di promuovere insieme il rispetto vicendevole, la mutua conoscenza e la cooperazione, che sono alla base del lavoro che la Chiesa porta avanti con grande dedizione fin dal concilio Vaticano II.
Conserva un ricordo particolare di questi incontri?
Qualche anno fa andai in Mozambico per tenere dei corsi sul dialogo interreligioso in vari diocesi di quel bel Paese. Arrivai una volta in un piccolissimo villaggio, nella foresta nell’entroterra del Nord. Dopo un incontro con la piccola comunità cattolica, mi recai a rendere una visita di cortesia all’autorità musulmana di quel villaggio sperduto. Con mia sorpresa, il capo musulmano, sapendo che venivo da Roma, mi ringraziò soprattutto per il messaggio del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso in occasione della fine del digiuno di Ramadan e mi informò, che grazie a quel messaggio, cristiani e musulmani del luogo avevano promosso un progetto di collaborazione nel villaggio. Mi rallegrai nel vedere l’importanza di tale messaggio emesso ogni anno dal nostro dicastero.
Il 3 agosto scorso è stato reso noto il messaggio di quest’anno, dedicato al tema dell’educazione dei giovani. Che riscontro prevede che abbia?
Attraverso le nostre rappresentanze pontificie nel mondo, tale messaggio raggiunge tutte le diocesi della Chiesa cattolica dove c’è una presenza musulmana. Spesso i musulmani in occasione delle nostre feste maggiori, ricambiano con visite e messaggi di auguri. Ogni anno il messaggio contiene un tema che poi servirà alla riflessione di musulmani e cristiani per trovare vie di applicazione nella vita quotidiana. Sono certo che anche il messaggio di quest’anno sarà molto fruttuoso per tutte le persone di buona volontà.
Come ha accolto la notizia della decisione di Benedetto XVI?
Il Papa mi ha onorato con questa nomina, che per me era assolutamente inattesa. Mi ha colto davvero di sorpresa: gli sono infinitamente grato di aver pensato a un comune missionario per questo incarico. Comunque sono cosciente che si tratta di una missione delicata, perché riguarda il dialogo ad extra della Chiesa cattolica con i credenti di altre tradizioni religiose. Sarà mia responsabilità assistere il cardinale presidente Jean-Louis Tauran nel portare avanti questa missione che comporta alcuni impegni prioritari: vigilare perché la via del dialogo sia praticata; stabilire relazioni con persone appartenenti ad altre religioni; impegnarsi negli studi, soprattutto con una visione della promozione umana; assicurare la formazione di persone impegnate nel dialogo.
Lei lavorerà a stretto contatto con un diplomatico di lungo corso e un grande esperto di dialogo interreligioso. Come vive questa responsabilità?
Sono stato consultore del Pontificio Consiglio già dal 2007, proprio l’anno in cui il cardinale Tauran ne è stato nominato presidente. Mi conosce molto bene, perché sono state le scelte della vita e l’azione della Provvidenza a far incontrare i nostri destini in non poche riunioni, dove ho percepito come egli abbia saputo apprezzare il mio comportamento. Il porporato francese sa anche che io non sono un diplomatico; semplicemente con un po’ di buon senso lavorerò al suo fianco, certo che avrò tantissimo da imparare. Nello stesso tempo, ringrazio la Provvidenza di avermi messo al suo fianco nella Curia romana, conoscendo il suo spessore sacerdotale, umano e diplomatico.
Quanto peserà nella sua attività futura la sua esperienza con l’islam?
Devo dire che per studio e per esperienza conosco assai bene i musulmani, con i quali la Chiesa cattolica desidera dialogare in tanti modi e luoghi. Ufficialmente, lo fa attraverso il nostro dicastero, che si occupa del dialogo con tutte le tradizioni religiose, non soltanto quella musulmana, benché questa comunità attiri un’attenzione particolare. Di fatto, all’interno del Pontificio Consiglio esiste una Commissione per i rapporti religiosi con i musulmani che non ha eguali per le altre religioni. Concretamente, il dialogo più strutturato all’interno del Pontificio Consiglio è con i partner musulmani — finora attraverso sei «canali» — coi quali si organizza normalmente un colloquio ogni due anni. Però quella dell’islam è una realtà alla quale si deve dare un’attenzione particolare, senza trascurare gli altri credenti. E tutto questo conferma l’importanza che Benedetto XVI attribuisce ai rapporti islamo-cristiani, i quali da parte nostra presuppongono una solida formazione nella fede cattolica e un’approfondita conoscenza della religione degli interlocutori.
Una consapevolezza maturata abbastanza di recente?
Non direi, visto che — per fare l’esempio di una realtà che conosco bene — il Pisai affonda le proprie radici nel lontano 1926, quando la società dei Missionari d’Africa (i Padri bianchi) aprì a Tunisi una casa per la formazione di sacerdoti e religiosi che si preparavano a vivere in ambiente musulmano; e che già nel 1964, l’Istituto venne trasferito a Roma e accolto con molto favore da Paolo VI. È però anche evidente che, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, l’Occidente ha capito che bisogna conoscere meglio il mondo musulmano, anche attraverso lo studio della lingua e della cultura arabe.
Necessità resa ancora più attuale dalla “primavera araba” iniziata lo scorso anno e tuttora in pieno svolgimento?
Infatti in un mondo sempre più globalizzato, questo fenomeno della “primavera araba” ha indicato quanto sia vitale che a tutti i livelli ci sia nella comunità internazionale un progredire del rispetto della dignità umana e dei diritti che ne scaturiscono. Del resto il Papa punta molto su questo aspetto. Perciò non gli saremo mai sufficientemente riconoscenti per il contributo personale a sostegno di questa causa.
È già stato scelto il suo successore al Pisai?
Questo lo deciderà la Congregazione per l’Educazione Cattolica, il cui prefetto, cardinale Zenon Grocholewski, è anche Gran Cancelliere dell’Istituto. Dovrà essere una personalità consapevole che il mondo musulmano non è monolitico ma molto variegato e sta cercando di promuovere ulteriormente un dialogo sia al suo interno sia all’esterno. E il Pisai a livello accademico sta collaborando da decenni affinché questo avvenga.
L’OSSERVATORE ROMANO, sabato 1 settembre 2012, pagina 8.