Sabato 8 marzo 2025
In questi giorni sono stati arrestati due importanti esponenti vicini al vicepresidente Riek Machar, il ministro del Petrolio Puot Kang Chol e il generale Gabriel Duop Lam, numero due dell’esercito sud-sudanese. Aumentano quindi le tensioni tra i due ex contendenti Riek Machar e il presidente Salva Kiir, mettendo a rischio l'accordo di pace del 2018, dopo cinque anni di guerra. Abbiamo parlato della situazione in Sud Sudan con monsignor Christian Carlassare, vescovo di Bentiu.

In Sud Sudan l’accordo di pace siglato nel 2018 è a rischio. In questi giorni sono stati infatti arrestati due importanti esponenti vicini al vicepresidente Riek Machar, il ministro del Petrolio Puot Kang Chol e il generale Gabriel Duop Lam, numero due dell’esercito sud-sudanese. Machar accusa le forze fedeli al presidente Salva Kiir (ex contendenti durante il conflitto del 2013-2018 che provocò oltre 400.000 morti e milioni di sfollati) di essere l’artefice di queste operazioni. La violenza in Sud Sudan di fatto non è mai cessata del tutto e “la situazione è molto critica”, racconta al Sir monsignor Christian Carlassare, primo vescovo comboniano della nuova diocesi di Bentiu, nello Stato dell’Unità, nell’area amministrativa autonoma del Rouen. Una zona che sfiora i 38 mila chilometri quadrati con una popolazione di oltre 1.200.000 abitanti.

Mons. Christian Carlassare, vescovo di Bentiu, in Sud Sudan.

A Bentiu, circondati da un “deserto d’acqua”. La particolarità di questi territori, spiega il vescovo da Bentiu, è che a causa delle piene del Nilo, dei cambiamenti climatici e delle inondazioni, si vive come “come in un’isola chiusa da una settantina di chilometri di terrapieni, dove il livello dell’acqua è più alto del terreno. Abbiamo intorno a noi un raggio di 15/20 km di acqua alta un metro e mezzo/due. Un lago naturale ma molto innaturale perché una cosa del genere non era mai capitata prima”. “Siamo in un deserto d’acqua – così lo descrive – perché in questo territorio tutti gli alberi e i boschi sono morti. Con una grande perdita per le persone che ci vivono, perché non c’è più legna per cucinare, né si possono più raccogliere i frutti del bosco o cacciare gli animali. Il bosco era anche il luogo della produzione agricola: si andava, si ripuliva un pezzo di terra e si piantava per alcuni anni, poi ci si spostava in un’altra zona, perché in questo modo il terreno è più fertile. Quindi tante aree coltivabili sono andate perse. Così le persone si sono spostate verso terre più asciutte”.

In questi giorni “ci sono purtroppo ancora violenze”, conferma. L’ultima più preoccupante è quella nella contea di Nasir, che è teatro da metà febbraio di scontri tra le Forze di difesa popolare del Sud Sudan e la milizia White Army. “Il governo ha deciso di cambiare i militari presenti in quel territorio e ha mandato un nuovo contingente di milizie per disarmare le milizie White Army, ossia le nuove giovani reclute dell’opposizione – spiega –. Ma anziché mandare forze dell’esercito hanno usato altre milizie. I giovani della zona, armati illegalmente, ovviamente non hanno accettato l’arrivo di queste nuove truppe e ci sono stati scontri e morti. È il segno che c’è ancora un lungo cammino da fare a livello politico e sociale per l’unificazione in Sud Sudan”.

Tensioni tra gruppi etnici e iniziative di dialogo. A livello amministrativo “di fatto il Paese è spaccato in due o anche in tre, perché tutta la realtà dei Monti Nuba era già autonoma prima, anche se attaccata dal governo”. Esistono dei “confini immaginari ma molto reali, ossia i confini tribali, per niente definiti”, spiega monsignor Carlassare. “Per questo all’interno della nostra diocesi è in atto un processo di dialogo, tra i Nuer della zona dello Stato dell’Unità, e i Dinka Rouen, che popolano il territorio più a nord, chiamato Rouen Amministrative Area, un’area di amministrazione autonoma che era parte dello Stato dell’Unità ma ora indipendente. Ci sono ancora molte tensioni fra le due comunità – precisa -. Dal 2014 non c’era stato più dialogo fra questi due gruppi etnici. Ora finalmente è ripartito, così le due comunità possono portare i rispettivi problemi ad un tavolo comune. Purtroppo, quando le comunità si sentono vittime cercano di difendersi e chiudersi piuttosto che capire che anche l’altra comunità è comunque vittima. Bisogna chiudere quella catena e quel ciclo di vittimizzazione per vincere e superare ogni tipo di violenza. Questo è il cammino che stiamo vivendo come diocesi e come comunità civile nel territorio di Bentiu”.

Mons. Christian Carlassare, vescovo di Bentiu, in Sud Sudan.

L’altro grande problema è l’enorme afflusso di rifugiati dal Sudan a causa del cruento conflitto in corso dall’aprile 2023. Il porto di ingresso dei rifugiati sudanesi è l’Alto Nilo, verso Malakal (la diocesi di Bentiu è stata creata dividendo il territorio della diocesi di Malakal). In questa zona ci sono rifugiati sudanesi ma anche circa 800.000 sfollati interni, una percentuale importante se si considera che la popolazione è di 1.200.000 persone. Un primo sfollamento era dovuto al conflitto, poi dal 2019 dai cambiamenti climatici e dalle grandi inondazioni del Nilo.  “Da noi c’è una porta d’ingresso importante dove passano soprattutto i rifugiati Nuba – dice il vescovo comboniano -. Abbiamo tre campi di rifugiati nel nostro territorio, presenti ancora prima del conflitto in Sudan proprio per la situazione particolare dei Monti Nuba. Ovviamente con il conflitto sono aumentati, soprattutto a motivo della povertà”.

Aiuti umanitari a rischio a seguito delle nuove politiche americane? Al momento ci sono 130.000 persone nei tre campi profughi, la cui situazione umanitaria rischia di aggravarsi. “Le persone sono integrate nel territorio locale, con un grande intervento di aiuti da parte dell’Onu, in questo momento in pericolo a causa della nuova politica degli Stati Uniti – spiega -. Abbiamo già sentito parlare di grossi tagli di personale, qui del 50% in altre aree addirittura del 70%. In questo modo diminuiscono le possibilità concrete di poter portare aiuti in questa crisi umanitaria. Per esempio l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) sta già riducendo la sua presenza e le attività”. Proprio in queste ore la Corte suprema americana ha respinto la decisione del presidente Donald Trump di bloccare i fondi destinati agli aiuti umanitari tramite Usaid, quindi la situazione è in evoluzione.

Patrizia Caiffa – SIR