Mercoledì 3 aprile 2024
Il Sud Sudan, alle prese con un caldo torrido, si avvia al voto. Ma questo alza la tensione e si potrebbe rischiare un conflitto interno. [Nella foto: Il vescovo Christian Carlassare, durante la Messa crismale dello scorso 27 marzo, nella Cattedrale della Sacra Famiglia della diocesi di Rumbek, in Sud Sudan. Credit photo: Fr. Luka Dor/Rumbek Diocese]
La siccità e la crisi economica, che comporta una svalutazione crescente della moneta locale, insieme all’incapacità della classe politica di organizzare le elezioni, le prime dall’indipendenza del Paese, continuamente rimandate perché chi detiene il potere non vuole perderlo, rappresentano sfide significative per il Sud Sudan. Questo Paese deve costruire il proprio futuro, ma mancano partiti con veri programmi di sviluppo. Anzi, le elezioni portano con sé il rischio di nuovi scontri, tanto che truppe ugandesi sarebbero arrivate nel Paese, forse chiamate proprio per evitare eventuali colpi di Stato. In questo contesto, come racconta Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, la comunità cattolica ha vissuto la Pasqua accogliendo l’invito a contribuire, ciascuno per quanto possibile, a costruire la pace e a favorire la riconciliazione.
Come sta vivendo la gente in Sud Sudan in questo momento, e quali problemi deve affrontare?
In questi mesi, qui è estremamente caldo, più del normale; il governo ha dichiarato l’emergenza e ha chiuso le scuole. Si possono raggiungere i 45 gradi, mentre normalmente si arrivava a 42. Queste temperature sono motivo di preoccupazione, e ci si interroga sulle conseguenze della desertificazione. Le persone qui dipendono ancora dall’allevamento del bestiame e dall’agricoltura, ma con temperature così elevate entrambe le attività saranno problematiche. È stata tagliata una grande quantità di alberi per realizzare una strada da Juba a Wau, sacrificando un’enorme quantità di mogani e altre piante su un’area di 200 metri di larghezza. Questo non cambierà il clima della regione, ma ora chi vive a bordo della strada che attraversa tutti i villaggi non ha più alberi. Inoltre, si solleva molto polvere, causando problemi respiratori a molte persone. Sarebbe utile piantare nuovi alberi, magari tre per ogni albero abbattuto, come aiuto.
Uno dei problemi persistenti è quello dei profughi e degli sfollati, ora aggravato dall’arrivo di molti dal Sudan, dove imperversa la guerra civile. Quanto pesano sulla vita del Paese?
Nel Sudan la situazione è catastrofica e le persone si stanno spostando; i sud-sudanesi che erano al nord si sono trasferiti al sud, portando con sé anche profughi. Nell’Alto Nilo sono arrivati 500mila profughi, e si prevede l’arrivo di ulteriori persone, anche se i sudanesi, di estrazione araba, non vedono il sud come una destinazione preferibile. A Rumbek non abbiamo ricevuto molti profughi; sono tornati qui quelli originari della zona. Sono arrivate circa mille famiglie, che si sono integrate nel territorio. Stiamo cercando di fare un censimento, soprattutto nelle parrocchie che celebrano la messa in arabo, per vedere quante ne sono arrivate. Se non sono cattolici, comunque, è difficile entrare in contatto con loro. La popolazione è in maggioranza protestante; i cattolici rappresentano il 15%.
La priorità, però, rimane la siccità?
Lo stato di emergenza dichiarato dal governo serve anche per portare la questione a un livello più alto, presso l’Unione Africana, per trovare fondi per intervenire. Il problema più pressante ora è il processo elettorale previsto per dicembre. Secondo gli accordi di pace si deve procedere alle elezioni: inizialmente previste per il 2022, sono state posticipate a quest’anno e rappresenterebbero le prime dall’indipendenza. Il conflitto del 2013 era scoppiato proprio per l’incapacità di organizzare le elezioni: il partito di governo non riusciva a decidere il candidato.
In attesa del voto qual è la situazione politica in questo momento?
Prepararsi per le elezioni è come aprire un vespaio. Maggioranza e opposizione governano insieme, ma ci sono divisioni interne anche all’interno dei due partiti, senza considerare chi nel governo non è rappresentato. Non esiste una costituzione definitiva, ma solo una di transizione non approvata. Gli sfollati rappresentano un terzo della popolazione e quindi è incerto dove voteranno; molti non sono registrati e non è chiaro chi abbia diritto di voto. Mancano anche i candidati; non è noto per quali partiti si presenteranno e in quali circoscrizioni.
C’è il rischio di un ritorno alle tensioni passate?
È possibile. La popolazione desidera elezioni per conferire legittimità a chi governa. Dall’indipendenza, 13 anni fa, il Paese non ha mai tenuto elezioni. Ma ora ci sono un presidente e cinque vicepresidenti; dopo le elezioni, ne rimarrebbe solo uno. Lo stesso vale per i ministri: la pace si è basata sulla condivisione del potere, assegnando un posto a ciascuno. L’opposizione propone di posticipare le votazioni di due anni, ma allora si ripeterebbe la stessa storia. Non serve posticipare se non si agisce comunque. Bisogna imparare nel tempo, iniziando con questi esercizi di democrazia che sono le elezioni, evitando violenze. Il partito di governo, quello di Salva Kiir Mayardit, il presidente, insiste per votare: pensa di poter vincere; tuttavia, si sta diffondendo l’idea di posticipare le elezioni di un po’, ma almeno avendo in mente una roadmap. Il vero problema, comunque, è l’assenza di partiti e programmi.
Però bisogna fare i conti anche con presenze straniere: cosa sta succedendo?
Gruppi della società civile sud sudanese stanno denunciando la presenza di forze militari straniere a Juba. Ci sono foto che dimostrerebbero l’arrivo di alcuni battaglioni per prevenire eventuali violenze. Si teme che il Paese possa ritornare in una situazione di conflitto o si voglia evitare il rischio di un colpo di Stato. La situazione economica è molto difficile. Il Paese non riesce a garantire l’estrazione del petrolio e si trova senza introiti. La moneta sta perdendo valore: al momento della firma dell’accordo di pace, un dollaro valeva 600 sterline sud-sudanesi; oggi ne vale 1.900. Una forte svalutazione non accompagnata da un adeguamento dei salari: nonostante il lavoro, la gente ha sempre meno potere d’acquisto e diventa più povera.
In questa situazione, come vi apprestate a vivere la Pasqua, e quali riflessioni vi induce sulla realtà del Paese e sulla condizione delle persone?
Le parrocchie di Rumbek hanno celebrato insieme la Domenica delle Palme. Il giorno più significativo delle celebrazioni è stato il Venerdì Santo, con una Via Crucis cittadina organizzata dai giovani, protagonisti anche di un pellegrinaggio per la pace. È durato tutta la mattina, attraversando le vie della cittadina. Si prega, ma lungo il percorso si svolge una rappresentazione teatrale della Passione di Gesù. Fuori dalle mura della Cattedrale avviene la crocifissione. È stato un momento profondamente vissuto dalla gente ed è anche ecumenico: molte persone non cattoliche si uniscono a noi e sentono come loro questa rappresentazione.
Qual è il messaggio che ha voluto dare ai fedeli quest’anno?
Ho parlato soprattutto del senso del cammino, della necessità di farlo insieme. Un percorso in cui la croce non può essere scaricata sugli altri ed è la croce di una società che ha bisogno di pace e di riconciliazione, da conseguire con l’impegno di tutti. Per questo è necessario sporcarsi le mani e cercare di risplendere della luce che Dio ci ha dato.
(Paolo Rossetti – Il Sussidiario)