Una nuova condizione, che sembra determinare tutte le altre e che è forse l’esigenza più alta, appare sotto la metafora di “portare la croce”. Cioè il discepolo deve essere pronto a condividere la sorte del maestro. La sentenza conclusiva (“Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”), che appare come un’applicazione riduttiva, non lo è, ma in realtà coglie un aspetto più sentito nella comunità di Luca.
Una scelta che impegna tutte le forze dell'uomo
Sap 9,13-18; Salmo 89; Fm 1,9-10.12-17; Lc 14,25-33
La parola di Dio di questa domenica sviluppa parecchi argomenti. La prima lettura ci presenta la riflessione di un sapiente di Israele sulla condizione umana e sulla sua fragilità. L’uomo da solo non è in grado di penetrare il mistero dell’universo. Da Dio soltanto egli può ricevere la sapienza necessaria per comprendere il senso dell’esistenza e per praticare il bene.
La seconda lettura ci parla di uno schiavo, Onesimo, fuggito dal suo padrone. Egli incontra Paolo, prigioniero a Roma, e si converte alla fede cristiana. Anche il suo padrone, Filémone, era cristiano Paolo rimanda Onesimo al suo padrone con una lettera di accompagnamento. Non grida allo scandalo della schiavitù, ritenuta allora una situazione normale; ma egli evidenzia quei sentimenti di carità che portarono in quella circostanza alla liberazione di Onesimo, e porteranno poi, con la diffusione del cristianesimo, al superamento della schiavitù.
Il brano evangelico riporta le condizioni proposte da Gesù a chi vuole essere suo discepolo: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” Colpisce subito il verbo “odiare” riferito ai rapporti familiari e perfino alla propria vita. Per un ebreo questo termine, per noi così forte, significa “mettere in secondo piano”, “amare meno”. Si tratta di non anteporre nulla o nessuno a Cristo, secondo l’esigenza radicale dell’unico Signore dell’alleanza. Una nuova condizione, che sembra determinare tutte le altre e che è forse l’esigenza più alta, appare sotto la metafora di “portare la croce”. Cioè il discepolo deve essere pronto a condividere la sorte del maestro. La sentenza conclusiva (“Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”), che appare come un’applicazione riduttiva, non lo è, ma in realtà coglie un aspetto più sentito nella comunità di Luca. In sintesi si potrebbe dire: un cristiano che vorrebbe rispondere alle esigenze della sequela di Cristo dovrebbe sapere che essa esige tre immolazioni: degli affetti, della vita e dei beni. Cioè il cristiano autentico deve amare Gesù più di ogni altra persona, deve essere pronto ad affrontare la morte e deve accettare di rinunciare ai suoi averi.. In altre parole: la libertà da tutti e da tutto è la condizione sine qua non per legare la propria esistenza a quella di Cristo. Si tratta di una scelta radicale che non consente ripensamenti.
Gesù lo conferma o illustra con due parabole. La prima utilizza l’immagine della costruzione di una torre di difesa. Nella seconda si tratta di un’ impresa militare in cui è in gioco non solo il prestigio del re, ma anche il destino del suo regno. Da queste due parabole, che prendono lo spunto dall’esperienza e fanno leva sul buon senso o sapienza comune, si può ricavare certe lezioni fondamentali per la nostra vita da cristiani: la costanza/perseveranza (una torre la cui costruzione non viene ultimata rappresenta un’impresa mancata; non si fanno le cose a metà: l’adesione a Cristo non può essere transitoria; ogni abbandono è tradimento), il realismo (bisogna valutare i rischi, considerare attentamente le cose e approntare i mezzi necessari per evitare il ridicolo del fallimento e per fare la propria salvezza) e l’audacia di consentire tutti i sacrifici necessari e proporzionati all’ampiezza del nostro ideale di salvezza eterna. Dobbiamo arrangiarci perché i fini producano i mezzi. Infatti, quando si tratta della salvezza eterna, la sola attrazione della meta dovrebbe essere sufficiente a creare sforzi.
Don Joseph Ndoum
Il Signore descrive due situazioni preoccupanti. La prima è la costruzione di una torre. Lavoro esigente a motivo della complessa organizzazione e dell’impegno economico. L’edificio è unico, ma le operazioni tante e differenti. Richiedono plasticità mentale che consuma tempo ed energie. Dato che ci si deve muovere molto, l’istinto è quello di muoversi subito. Ma Gesù impone due comandi sorprendenti: «Siediti!», «Calcola!». Gli imperativi sono così importanti da esser ripetuti in una parabola simile, ma più drammatica. C’è forte tensione tra due re. Come risolverla? Una guerra o un trattato di pace? È necessario prendere subito posizione, poiché è questione di vita o di morte. Ed ecco ancora il duplice comando del Signore: «Siediti!», «Esamina!». Persino da-vanti a situazioni angoscianti, Cristo esige di sedersi e considerare attentamente la faccenda. Sembra che la riflessione sia il primo passo del discernimento, vincendo l’attrattiva di un intervento svelto e generoso, ma forse disorientato.
Il gesto di sedersi, nonostante responsabilità gravose e incalzanti, manifesta una grande signoria sul proprio tempo. Non si tratta di “perdere tempo”, ma di “prendersi il tempo” necessario per intuire il da farsi, evitando l’esposizione alla ridicolaggine, segnalata dallo stesso Gesù. Il secondo gesto richiesto è “calcolare”, “esaminare ”; azioni evidentemente connesse allo studio. Studiare esercita a star fermi; quanto precisamente si evita se pressati da numerosi e complicati problemi. “Star fermi” è non solo condizione favorevole allo studio, ma anche a operazioni ben più dinamiche, addirittura connesse alla caccia e alla guerra, come colpire il bersaglio.
È risaputo che uno dei modi con cui l’Antico Testamento nomina il peccato è “bersaglio mancato”. Il peccatore è uno che sbaglia la mira. Magari individua l’obbiettivo giusto, ma sul più bello sbaglia. Mancare il bersaglio è questione di vita o di morte, poiché se non si cattura nulla si muore di fame e se non si allontana il nemico, si avvicina un pericolo letale. Il primo impulso davanti al nemico che avanza o la preda che fugge è muoversi subito. Così facendo, quasi sempre si sbaglia la mira. Per centrare un bersaglio in movimento (e quanto sono mobili le persone, la cultura, la società!) bisogna innanzitutto star fermi, regolando perfino il respiro, poiché il suo moto potrebbe sviare l’arco. Star fermi per calcolare la traiettoria della freccia, mirando non dove è ora l’obiettivo, ma dove sarà, altrimenti quando il proiettile termina la sua corsa, il bersaglio si troverà da un’altra parte e, con esso, quanto avrebbe favorito la nostra vita.
[Giovanni Cesare Pagazzi – L’Osservatore Romano]
Sap 9,13-18b; Sal 89; Fm 9b-10.12-17; Lc 14,25-33
Mentre l’uomo peccatore tenta di realizzare la felicità cercando di evitare tutto ciò che fa soffrire e tenta di mettere tra parentesi la morte, puntando unicamente su ciò che può offrire la vita presente, il cristiano è invitato dalla fede a guardare in faccia questa vita col massimo realismo. Attraverso la sofferenza ed anche la morte egli dà il suo apporto insostituibile alla riuscita della avventura umana. Se gli capita di conoscere la tristezza mentre il mondo gioisce, in realtà la sua tristezza è fecondità di vita. Egli sa che la morte è la via alla vita. Ma un tale progetto riesce soltanto nel seguire Gesù sotto l’impulso del suo Spirito.
Le due brevi parabole di Luca sono un severo avvertimento contro qualsiasi impegno superficiale. Prima di intraprendere una costruzione o una guerra bisogna sedersi a tavolino per fare i calcoli.
La fede è qualcosa di radicale e bisogna chiedersi se si è pronti a tutto. È la scelta di un uomo maturo che valuta fino in fondo quanto il messaggio cristiano gli propone. Non è fede di convenienza, né desiderio di appartenenza sociologica. Quando la fede penetra tutti i nostri atti, lo Spirito Santo ci rende sempre più conformi all’immagine del Figlio di Dio, Gesù, in modo da vedere la storia come lui, giudicare come lui, scegliere e amare come lui, sperare come insegna lui, vivere in lui la comunione con il Padre e lo Spirito. (…)
Mentre continua il cammino di Gesù verso Gerusalemme dove «deve compiersi il suo esodo» al Padre (Lc 9,51)attraverso la Croce e la Resurrezione, Gesù seguita a insegnare e a operare prodigi. Gesù battezzato mostra nella sua persona la relazione vera, cioè secondo verità e nella Sapienza dello Spirito Santo, che si deve stabilire tra gli uomini e Dio. Chi conosce il tuo pensiero, Signore, se tu non concedi la sapienza e non invii il tuo Santo Spirito? (cf I lett v.17).
Quanto fragile ed inconsistente è la vita degli uomini che si mostra tragicamente fondata sulle disuguaglianze e sullo sfruttamento, condizionata da pregiudizi ed esprimente tutto l’egoismo e la volontà di dominio di cui il cuore umano è capace.
Alla preghiera di Salomone fa eco la preghiera del salmista «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore sapiente» (cf Salmo responsoriale) e Dio stesso viene incontro alla nostra debolezza, donandoci la Sua Sapienza e nutrendoci con la Sua Grazia. La speranza e la fede illuminano anche il quadro più tetro della miseria umana, impedendoci di cedere alla disperazione. La Sua Bontà e Misericordia ci permettono di gustare una gioia piena.
Nell’amore di Cristo ogni ostacolo è vinto per raggiungere l’unità con Lui e i fratelli, viene superata infatti ogni distinzione di classe o di razza tra gli uomini. Un esempio di questa trasformazione radicale avvenuta in Cristo ci viene offerta dalla lettera di Paolo a Filemone (II lett.).
L’apostolo che interviene in favore dello schiavo Onesimo (in greco, “Utile”), non chiede una rivoluzione sociale; egli non intende abrogare dall’esterno le condizioni sociali e giuridiche del suo tempo (cf 1 Cor 7,20) ma vi immette lo spirito nuovo della fraternità e dell’uguaglianza in Cristo, che porterà necessariamente all’abrogazione della schiavitù.
I Padri della Chiesa nella grande sapienza mistagogica per far comprendere questa realtà utilizzavano l’immagine semplice ma efficacissima del cerchio: l’umanità, dicevano, èdisposta come su un cerchio al cui centro vi è Dio; più gli uomini si sforzano di avvicinarsi al centro, verso Dio, più si avvicinano gli uni agli altri. Più gli uomini si allontanano da Dio più sono lontani tra di loro.
In questa parte del “viaggio-esodo” verso Gerusalemme l’Evangelo di Luca ci presenta il destino dei giudei contemporanei di Gesù e prospetta la salvezza dei pagani (cf13,22-17,10). Tutti gli uomini sono chiamati ad essere suoi discepoli e Gesù proprio per questo non rinuncia mai a dispensare insegnamenti preziosi. Ricordiamo brevemente quanto è stato proclamato nelle ultime Domeniche:
Tra Gesù e il suo discepolo, ci dice l’Evangelo di questa Domenica, si stabilisce una relazione del tutto nuova ed originale, fondata su una comunione di vita, di idee, di metodi. Discepolo è colui che vive in Gesù e per Gesù e questi diventa per lui più che padre e madre, sposa…
Il primato di Cristo espresso nell’Evangelo di oggi non è un invito a fuggire dal mondo, ma ad assumere l’umano per orientarlo completamente a Cristo. (…)
Lo schema della pericope, due parabole (proprie di Luca) incluse tra due inviti alla rinuncia è il seguente:
vv. 25-27 1° invito alla rinuncia
vv. 28-32 due parabole
v. 33 2° invito alla rinuncia
v. 25 – «molta gente andava con lui»: l’insegnamento che segue viene rivolto alla gente che sale con Gesù verso Gerusalemme. Tra di loro vi sono anche i discepoli ma ora l’insegnamento è rivolto a tutti gli uomini che per questo lo seguono. Terminato il banchetto, Gesù riprende il cammino ma l’obiettivo dell’evangelista non è puntato su di Lui, ma sulla folla numerosa che lo accompagna. Nel terzo Evangelo la folla è con Gesù, cammina con Lui fin sul Calvario e dopo la sua morte si batte il petto in segno di contrizione. La folla “cammina con Lui”, ma non lo “segue”. Forse non ha ancora compreso le implicazioni del discepolato e per questo Gesù le si rivolge direttamente sottolineando due aspetti della sequela: lasciare e discernere.
v. 26 – «se uno viene a me e non mi ama…»: Il verbo grecoérchomai, (venire) tradotto con il medio indicativo presente sottolinea la sfumatura dell’interesse personale nella sequela. Comprendiamo che che le parole di Gesù non vogliono abolire il 4° comandamento (anzi si cf 18,20), ma rivelare leesigenze supreme e radicali della sua sequela:
lasciare tutto, compresa la moglie; luca lo specificherà ancora in 18,29;
rinunciare anche alla propria vita; è una sottolineatura propria di Luca; cf Gv 12,25.
La nuova traduzione CEI ha eliminato lo scandalo provocato dal verbo miséō – tradotto come “odiare” nella versione del 1974 – rendendolo, tramite l’uso di una circonlocuzione, come amore preferenziale: «Se uno viene a me e non miama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Nelle lingue semitiche, infatti, la preferenza è spesso descritta con vocaboli di contrasto. Matteo nel brano parallelo (10,37) riporta l’espressione originale di Gesù nel suo esatto significato: «Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me». Eppure a mio parere il verbo “odiare”, dato che risultava provocatorio era per questo più adatto allo stile tagliente del versetto lucano. Il senso del testo deve essere spiegato ma non dobbiamo cancellare la forza delle parole scelte dall’evangelista con l’ispirazione dello Spirito.
Notiamo anche che il verbo “odiare” è all’indicativo presente che è il tempo della realtà e descrive un’azione che si sta svolgendo ora, in questo momento con tendenza a durare verso un immediato futuro». Noi oggi chi amiamo di più?
«chi non porta la propria croce»: e non solo “prenderla”come dice Mt 10,38 per “venire a Gesù”(cfr Gv 6,35) è terribilmente duro, semplicemente impossibile. Croce e discepolato erano stati proposti come un binomio anche in 9,23. Mentre però in quell’occasione il testo sottolineava la perseveranza (ogni giorno), qui indica l’atto iniziale, la decisione di fare propria la vita del Cristo. Notiamo che Luca utilizza un verbo, bastázō, che riprenderà in At 9,15 per descrivere le sofferenze che Paolo “dovrà portare” per il nome di Cristo.
Essere discepolo in sintesi chiede di lasciare tutto ciò che è fonte di identità e di sicurezza, per deporre la propria esistenza nelle mani del Cristo, lasciando che lui la modelli a propria immagine e somiglianza. È abbandonare una coscienza di sé ed un passato noto, per un futuro imprevedibile, nel cui orizzonte compare la croce. Una scelta di questo tipo non s’improvvisa. Per questo Gesù chiede alle folle di fermarsi per valutare se stessi.
«essere mio discepolo»: l’espressione è ripetuta tre volte in questo brano (vv. 26.27.33). Seguire Gesù è metterlo al centro della propria vita: cf 8,19-21; 9,59-62; 11,27s; 12,51-53.
vv. 28-30 – «volendo costruire una torre»: Gesù racconta ora due brevi parabole. Costruire una torre non doveva costituire un grosso problema edilizio ed economico, ma qui forse si nomina la parte per il tutto, cioè si intende un intero palazzo.
«non si siede»: è l’atteggiamento di chi valuta attentamente le cose soppesando i pro e i contro.
«comincino a deriderlo»: gli uomini non sono teneri verso chi sbaglia i propri conti, così a quel povero uomo oltre al danno si aggiungerebbe anche la beffa.
vv. 31-32 – Anche questa parabola rimanda ad una situazione analoga, cioè un discernimento ma ancora più serio. Prima il danno era solo economico ora ci sono le vite dei soldati che non devono essere sprecate!
«gli manda un’ambasceria per la pace»: si rilegga l’insegnamento di 12,54-59. Ambedue queste parabole ci ricordano come sia importante riflettere prima di intraprendere un’impresa calcolando bene le possibilità di portare a termine quello che si inizia e “seguire Gesù” è certamente un’impresa grossissima da non decidere con leggerezza o temerarietà.
v. 33 – «chiunque di voi non rinunzia…»: l’espressione chesi riferisce ai vv. 26 e 27 anche se non sembra è unaconclusione delle parabole premesse. Le parabole indicano il comportamento prima di iniziare la sequela cristiana, la conclusione indica invece la condotta dopo aver fatto una scelta. Qui viene descritto un comportamento insipiente di persone già cristiane che per la fedeltà alla scelta fatta non si devono distrarre dalla meta per le preoccupazioni terrene (cf 8,11-15), non accampare scuse (14,18-20).
Si tratta di rinunciare a tutto (pâs) non a molto: «abbandonato tutto lo seguirono» (luca esplicita proprio l’abbandono di tutto, 5,11.28).
In conclusione possiamo ora dire in cosa consiste il richiamo del Signore? Non certamente nella cautela delle azioni, le parabole della torre e della guerra (= economia e violenza, cose per noi serissime!) sono introdotte da domande retoriche, che non chiedono una risposta: solo uno “stupido” infatti non riflette prima di agire. Chi sceglie Cristo, il discepolo non valuta più i rischi della sequela ma ha abbandonato tutto e porta la croce. Preso il coraggio irreversibile di tagli dolorosi nella sua esistenza, una volta per sempre, non desidera altro e non deve desiderare altro. Possiede Tutto, il Tutto che è il Signore con il suo Regno.
Non è una religione facile quella che Gesù propone alla folla che lo segue lungo la strada. L’Evangelo parla di «molta gente»: non si tratta dunque di parole rivolte in particolare ai monaci о ai religiosi, ma a quel vasto movimento popolare che il Cristo ha fatto sorgere in Palestina, e alla moltitudine di uomini di tutte le razze che nel corso dei secoli decideranno di camminare con lui. La maggior parte di loro ha scoperto nel suo Evangelo un libro meraviglioso, colmo di sapienza divina e di tenerezza profondamente umana. Ma che dire della durezza di certe pagine che esigono rinunce radicali? È ragionevole non preferire nulla all’amore del Cristo, neppure i legami dell’affetto più legittimo, e prendere la propria croce rinunciando a tutto per essere suoi discepoli?
Sicuramente no! Ma se vogliamo essere «ragionevoli», non avremo mai quel coraggio evangelico che contraddistingue gli autentici discepoli di Gesù. In un mondo dominato dal materialismo pratico e dai nuovi idoli del potere, del sesso e del denaro, ci vuole spesso dell’eroismo per continuare ad essere cristiani. L’Evangelo può aiutarci allora a riscoprire il prezzo della grazia: una grazia da conquistare, e non quella grazia a buon mercato di cui ci accontentiamo tanto volentieri.
D’altra parte, questi inviti al distacco radicale in definitiva sono sempre motivati dall’amore e dall’attaccamento a una persona: Gesù, senza del quale il cristiano è come un Cristoforo Colombo senza America; Gesù, che bisogna amare sopra ogni cosa. Perché lui per primo ci ha amati ed ha offerto se stesso per noi. Perché si diventa ciò che si ama. Se ami il denaro, diventerai un oggetto. Se ami il Cristo, sarai figlio di Dio.
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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