Lunedì 15 novembre 2021
La COP26 di Glasgow comincia in un clima di grandi attese. Dal fallimento del vertice di Madrid che l’ha preceduta sono passati due anni, caratterizzati da fenomeni climatici estremi in tutte le parti del mondo: picchi di temperature mai viste prima, siccità e incendi devastanti, scioglimento dei ghiacci e del permafrost, alluvioni catastrofiche e i piccoli stati insulari sempre più minacciati dall’erosione con l’innalzamento del livello del mare. C’è dunque una profonda consapevolezza nell’opinione pubblica ed una pressione sulla classe politica perché si agisca subito ed in modo radicale per contenere la crisi climatica. [Fr. Alberto Parise, al centro nella foto]
Oramai non ci sono più dubbi – o meglio, illusioni del contrario – che tali cambiamenti siano dovuti alle attività umane e che rimanga un tempo molto breve per evitare di raggiungere dei punti di non ritorno, cioè quando l’aumento della temperatura porterà ad ulteriori, più intensi ed irreversibili cambiamenti climatici. Il rapporto dell’IPCC (la commissione intergovernativa di scienziati per l’analisi dei cambiamenti climatici) pubblicato a fine luglio osserva che molti dei cambiamenti osservati nel clima sono senza precedenti in migliaia, se non centinaia di migliaia di anni, e alcuni dei cambiamenti già messi in moto sono irreversibili in centinaia o migliaia di anni.
Tuttavia, come rileva il rapporto, riduzioni forti e sostenute delle emissioni di anidride carbonica (CO2) e di altri gas serra limiterebbero i cambiamenti climatici. Dunque, sappiamo cosa si deve fare e che bisogna intervenire subito. E le buone intenzioni non mancano. C’è stato un fine lavoro diplomatico nell’ultimo anno perché la COP26 possa dare avvio ad una svolta. Anzitutto, il fatto di non rimandarla, come alcuni chiedevano, a causa della pandemia. Poi la costruzione di relazioni di fiducia, condizione essenziale per poter arrivare ad un consenso quando ci sono interessi opposti in gioco, e di obiettivi condivisi da raggiungere. L’accordo di Parigi prevede di contenere il riscaldamento globale a fine secolo almeno entro 2°C rispetto ai livelli preindustriali, meglio ancora entro 1,5°C. Tenuto conto che al momento siamo già arrivati a 1,1°C, lo spazio per intervenire è ormai minimo. Per i paesi insulari del Pacifico, ad esempio la differenza tra 1,5°C e 2°C è la loro scomparsa dalla superficie della Terra.
La diplomazia è riuscita a porre la soglia di 1,5°C come l’obiettivo da raggiungere. La scienza ci dice che allora bisogna ridurre le emissioni del 45% (rispetto ai livelli del 2010) entro il 2030 ed avere un saldo zero delle emissioni entro il 2050. Per questo la presidenza della COP ha invitato gli Stati a sottoporre nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni in vista della conferenza. Dall’analisi dei nuovi dati, risulta che siamo sulla traiettoria di un aumento di temperatura di 2,7°C a fine secolo e che, anziché ridurre le emissioni, nel 2030 queste aumenteranno del 13,7%.
Il problema di fondo è che la svolta arriverebbe con la graduale ma sostenuta eliminazione dei combustibili fossili. Ma fare questo comporterebbe nell’immediato una contrazione dell’economia in tutto il mondo e questo nessun governo lo vuole. Si vorrebbe invece una transizione tranquilla, senza shock al sistema. In altre parole, continuare a bruciare combustibili fossili per far crescere l’economia mentre si creano i presupposti per passare alle energie rinnovabili, senza mettere in discussione il sistema economico dominante. Ecco perché i piccoli stati insulari, i popoli indigeni, i giovani e le organizzazioni della società civile sono profondamente delusi da questi negoziati.
Siamo ancora lontani dal traguardo, ma c’è comunque speranza. Basta guardare all’accelerazione impressa fin qui: prima dell’accordo di Parigi la traiettoria andava verso i 6°C di aumento di temperatura; con l’accordo parigino è scesa a 4°C ed ora, con gli impegni presi a Glasgow, siamo nella zona tra 2,4°C e 1,8°C. La differenza tra i due termini dipenderà dalla disponibilità di finanziamenti per i programmi di riduzione delle emissioni e di adattamento agli impatti dei cambiamenti climatici.
Rimane parecchio da fare e anche se la conferenza ha deluso le aspettative, ha almeno fornito degli strumenti per concretizzare una più efficace azione per il clima. Anzitutto, le parti hanno concordato di ripresentare annualmente delle verifiche e revisioni dei piani di abbattimento delle emissioni, anziché ogni 5 anni come previsto dall’accordo di Parigi. Sono state finalizzate le regole di rendicontazione sulle emissioni, pendenti da 6 anni, che permetteranno di rendere pienamente operativo l’accordo di Parigi.
C’è poi l’accordo sulla fine della deforestazione entro il 2030, quello sulle vetture a zero emissioni entro il 2035, che impegna un terzo del mercato globale dell’auto; lo stop ai finanziamenti internazionali al carbone e la riduzione di questa fonte di energia, e soprattutto l’impegno a raggiungere il saldo zero di emissioni di gas ad effetto serra entro il 2050 da parte del 90% delle economie mondiali. Certamente rimangono sfide enormi, come ad esempio quella del finanziamento della transizione e della velocità di quest’ultima. Ma l’obiettivo complessivo non è ancora al di là delle possibilità di raggiungerlo.
La diplomazia, pur fondamentale, non sarà sufficiente. Servirà una forte spinta dal basso per fare la pressione necessaria sui governi affinché alzino le proprie ambizioni di riduzione dei gas serra e agiscano solertemente; ma soprattutto per superare l’approccio che vuole un semplice adattamento del sistema economico che ha provocato e continua ad aggravare la crisi climatica.
Fr. Alberto Parise, MCCJ, a Glasgow