Lunedì 29 luglio 2019
A 50 anni dal primo viaggio apostolico di un Pontefice in Africa – era il 31 luglio 1969 e Paolo VI conquistava la sua “Luna”, l’Uganda – sono ancora moltissimi i nodi irrisolti in quello che forse è il continente più complesso al mondo. Papa Francesco si recherà nuovamente in Africa dal 4 al 10 settembre, visitando Mozambico, Madagascar e Mauritius. Con una meta nel cuore: il Sud Sudan.
«Ho parlato diverse volte con Francesco di questo viaggio», rivela padre Daniele Moschetti, per anni provinciale della congregazione comboniana in Sud Sudan e ora in missione in una “periferia” diversa, a Castel Volturno, terra dei fuochi. All’attivo anche un incarico di advocacy (tutela dei diritti) all’ONU e un libro, Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità(Dissensi, 2017), nato lungo il cammino di Santiago e che ha la prefazione di papa Francesco. «Moltissimo dipenderà dalla capacità delle fazioni in Sud Sudan di unirsi in una coalizione».
Padre Daniele, la Presidenza della Conferenza episcopale italiana ha deliberato, per il quarto anno consecutivo, lo stanziamento di un milione di euro dai fondi 8xmille in favore della popolazione del Sud Sudan, ancora prigioniera di una delle peggiori crisi umanitarie del mondo: 7 milioni di persone alle quali manca il cibo, 2 milioni di sfollati e oltre 2 milioni di profughi nei Paesi limitrofi. È una scelta che potrà cambiare in meglio le cose?
Sicuramente è importante, soprattutto per i milioni di persone a rischio di fame. È una “goccia” fra i molti grandi bisogni delle società del nostro tempo, ma grande merito alla CEI per questa iniziativa, e a tutti gli italiani. È un’opera che si aggiunge alle altre già realizzate in Sud Sudan con i fondi dell’8xmille. Penso, ad esempio, al Centro per la Pace del Buon Pastore (di Kit, Juba, NdR), voluto dall’Associazione dei Superiori dei Religiosi del Sud Sudan. Si tratta di luoghi importanti, che anche durante la guerra hanno permesso di fare trauma-healing, incontri e soprattutto di parlarsi, per uscire dal circolo vizioso della guerra civile, e guardare avanti. Si tratta di un’opera di guarigione della memoria dalle ferite di quarant’anni di guerre.
Qual è al momento la situazione in Sud Sudan?
In questo momento siamo in un’impasse. Il 9 luglio è stato celebrato l’ottavo anno di indipendenza. Dopo otto anni, però, si registrano ancora scontri in varie parti del Paese. Mancano infrastrutture, trasporti, scuole, ospedali: erano stati costruiti, ma quasi tutti sono deserti o sono finiti distrutti dalla guerra. Purtroppo, la comunità internazionale non si fida più a dare aiuti economici al Paese, perché già molti soldi sono finiti nelle tasche e nei conti bancari dei leader militari ribelli che si fanno la guerra.
Quale sarebbe l’intervento prioritario nel Paese, ora?
Per prima cosa, accompagnare il dialogo fra le parti, perché è dal 2010-2011 che si cerca di fare almeno questo, ma ancora mancano i risultati. Sono molti gli interessi che lo impediscono: il Sud Sudan è ricchissimo di risorse, e non solo di petrolio. C’è una “corsa all’oro” e a tutto ciò che c’è sopra e sotto la terra. In questo, purtroppo, la comunità internazionale non aiuta. Bisognerà, poi, formare le persone per essere i quadri dirigenziali del futuro: è impensabile mettere l’avvenire del Sud Sudan nelle mani dei militari, spesso generali che hanno sotto di sé soldati di istruzione molto bassa o inesistente. La speranza saranno i giovani. La stragrande maggioranza della popolazione in Sud Sudan è composta da giovani sotto i 30 anni: sono loro il futuro, con la scuola, il lavoro, finalmente per costruire una pace che questo popolo non ha praticamente mai avuto.
Questo ci riporta in Italia, anzi in Vaticano, al ritiro ecumenico-diplomatico voluto dal primate anglicano Welby e da papa Francesco, che lo scorso aprile ha riunito a Santa Marta il presidente del Sud Sudan e i leader dell’opposizione.
Quando il Papa ha chiamato i leader delle varie fazioni che si combattevano era un momento strategico, perché sia lui che Justin Welby avevano già fatto molto per prevenire un eventuale ritorno alla guerra. Nel settembre dell’anno scorso è stato firmato un accordo di pace che ha coinvolto dieci fazioni ribelli, ognuna con un proprio esercito in guerra contro il governo. Quell’accordo, però, non è mai stato portato avanti fino in fondo, perché prima ancora di parlare di confini o di rivedere gli ambiti del governo, era prevista l’unificazione di tutti questi eserciti in un unico esercito nazionale. Nessuno ha fatto un passo in questa direzione dal settembre scorso, fino ad aprile, quando papa Francesco e Welby hanno invitato a Roma i leader militari per fare quel ritiro. Purtroppo è stato impossibile che un governo di coalizione partisse il 12 maggio di quest’anno, come invece era previsto. Francesco e Welby hanno, però, cercato di guardare all’aspetto più umano e spirituale della questione, ragionando non solo per fazioni e odi. Il paradosso è che i gruppi che oggi si combattono un tempo erano uniti contro il Nord per l’indipendenza. Dopo quella liberazione, che doveva essere così importante, oggi stanno invece condannando il loro Paese ad una guerra civile che negli ultimi cinque anni ha prodotto 400 mila morti, migliaia di stupri di donne e di bambine, bambini bruciati vivi, che si aggiungono ai milioni di morti per violenze, fame e malattie delle guerre precedenti. È un’assurdità che questo tempo ha portato. Francesco, insieme a Welby, ha fatto davvero un’azione profetica.
Il “bacio dei piedi” di papa Francesco ai leader sud-sudanesi ha colto di sorpresa. È stato apprezzato, criticato, ma forse anche poco compreso nel suo reale significato.
È vero. Il bacio dei piedi non era un fatto di sottomissione, per niente, ma anzi un gesto di dignità per il popolo del Sud Sudan.
Il legame del Papa con il Sud Sudan è evidente.
Ho parlato diverse volte con Francesco del viaggio che vorrebbe fare in Sud Sudan e che non ha ancora potuto fare. Ha già dovuto posporlo due anni fa. Se ne è riparlato con i leader ribelli a Roma, ma moltissimo dipenderà dalla loro capacità di unirsi in una coalizione, insieme al governo. Ci sono ancora sei mesi di tempo, anche per lasciar passare il periodo delle piogge, che rendono le comunicazioni ancora più difficili in un Paese già allo stremo. Ma il Sud Sudan ha veramente bisogno di pace.
[Simone M. Varisco – Caffestoria.it]