Giovedì 26 luglio 2018
La più giovane nazione d’Africa è dilaniata da una guerra civile che ha già provocato trecentomila morti e due milioni di profughi. I missionari sono accanto alla popolazione civile. Testimoni di terribili atrocità. «Oggi – spiega padre Daniele – nel cuore dell’Africa è in corso un disastro umanitario di proporzioni paurose. Una guerra che ha fatto trecentomila morti e due milioni di profughi. Bisogna riaccendere i riflettori su questa crisi dimenticata».

Gli aerei del Programma alimentare mondiale sorvolano i villaggi rimasti isolati dalla guerra per distribuire aiuti dal cielo. Centinaia di civili, affamati e sfiancati da mesi di combattimenti e isolamento, si sbracciano per intercettare gli aiuti. Ma il sollievo dura poco: fino a quando non si ode il rumore sinistro degli elicotteri militari in pattugliamento. All’improvviso tutti fuggono alla ricerca di un nascondiglio. Sulle capanne di paglia possono piombare sventagliate di proiettili. «La vita della gente del Sud Sudan è appesa ad un filo», commenta amaro Daniele Moschetti, comboniano, sette anni di missione nel martoriato Paese africano, di passaggio in Italia per presentare il suo libro Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità (con prefazione di papa Francesco; Dissensi Edizioni, pagg. 250, 14 euro). «L’ho scritto per rilanciare il grido di dolore di un popolo che non ha voce».

Padre Daniele Moschetti in Sud Sudan.

Una speranza recisa

«Oggi – spiega padre Daniele – nel cuore dell’Africa è in corso un disastro umanitario di proporzioni paurose. Una guerra che ha fatto trecentomila morti e due milioni di profughi. Bisogna riaccendere i riflettori su questa crisi dimenticata». Ma i diplomatici europei sono scappati da Juba, come pure i giornalisti che fino a pochi anni fa raccontavano e celebravano la favola della nazione più giovane del mondo. Il “Paese della speranza” – nato nel luglio del 2011, dopo oltre cinquant’anni di sanguinoso conflitto e un referendum che aveva sancito la secessione dal Sudan – è diventato un posto infernale. «Siamo testimoni di atrocità terrificanti: migliaia di donne stuprate, bambini castrati o bruciati vivi nelle capanne. Non c’è più traccia di umanità», racconta con voce scossa padre Moschetti, che certo non è un tipo facile da impressionare: prima di trasferirsi in Sud Sudan ha passato undici anni in Kenya, affiancando padre Alex Zanotelli e poi subentrandogli nella baraccopoli a Korogocho.

Le violenze sono iniziate ventiquattro mesi dopo la dichiarazione di indipendenza. Troppo fragili le istituzioni che avrebbero dovuto costruire da zero il nuovo Paese, inadeguata e divisa la classe dirigente designata a governare il periodo postbellico. La situazione precipita nell’estate del 2013, quando il presidente Salva Kiir, di etnia dinka, destituisce il suo vice Riek Machar, di etnia nuer, accusandolo di aver complottato contro di lui. Le truppe fedeli ai rispettivi leader politici si scontrano in un conflitto dal sapore tribale che ben presto si trasforma in guerra civile.

Nel gennaio 2015, dopo settimane di negoziati, governativi e ribelli firmano un cessate il fuoco. Ma l’accordo non regge. Nel luglio 2016, una nuova ondata di violenze scoppia a Juba, la capitale, e nelle regioni periferiche, provocando la fuga di decine di migliaia di sfollati. La siccità aggrava la crisi umanitaria, i morti si contano a centinaia.

Verso il baratro

Il resto è cronaca di questi giorni. «Il conflitto sembra essersi cristallizzato – spiega padre Daniele –. Ogni famiglia ha avuto i suoi morti, la popolazione è costretta a fuggire o a dipendere dagli aiuti umanitari». Le responsabilità? «Anzitutto dei leader politici, rimasti anzitutto dei capi militari, che si sono dimostrati incapaci di operare per il bene comune». Le lotte per il potere hanno sfibrato l’identità nazionale e fatto saltare i fragili equilibri di un territorio vasto e privo di infrastrutture, popolato da 64 etnie e destabilizzato da interferenze straniere. «In gioco ci sono le enormi ricchezze strategiche del Sud Sudan: acqua, terreni fertili, petrolio e chissà quanti metalli strategici».

Si combatte dappertutto. I crimini contro i civili li compiono sia le milizie ribelli che i soldati regolari, in una spirale di violenze e vendette incrociate che spinge il Paese verso il baratro. Solo la presenza dei caschi blu dell’Onu evita il peggio. Ma ogni giorno pervengono notizie di nuove stragi. «A portare soccorso e conforto alle popolazioni, oltre agli operatori sanitari presenti nei campi profughi, sono rimasti solo i sacerdoti e le religiose che animano parrocchie e missioni in una situazione di insicurezza sempre più preoccupante».

«Risorgerà»

Circa metà della popolazione è cristiana: soprattutto cattolici e protestanti (la parte restante professa i culti tradizionali). Papa Francesco e l’arcivescovo anglicano Justin Welby hanno annullato l’attesa visita ecumenica programmata per lo scorso ottobre. Il Consiglio nazionale delle Chiese, un organismo composto dalle principali confessioni religiose del Paese, protagonista nelle trattative di pace e di dialogo, puntava molto sul viaggio dei due leader spirituali.

«Purtroppo non c’erano le condizioni minime di sicurezza per realizzarlo – spiega Moschetti –. E forse non c’è stata la necessaria convinzione e la piena coesione di tutta la Chiesa locale. Ma il Papa mi ha confessato di voler visitare il Sud Sudan nel 2018. Sarebbe una grande benedizione per la gente. Cattolici e anglicani guardano con grande trasporto al Santo Padre. Sarebbe un grande segno di comunione. Oggi più che mai serve unità, riconciliazione: tra le religioni, tra le etnie, tra i militari. I giovani, in particolare, sono stanchi della guerra. Ci vorrà tempo per stemperare l’odio e superare i traumi. Ma sono certo che il Sud Sudan saprà lasciarsi alle spalle questo incubo, si rialzerà e sarà capace di risorgere dalle sue ceneri».
(Olivier Banda – foto di Bruno Zanzottera)
12.7.201