Sabato 12 aprile 2025
Per comprendere la complessità dello scenario sudanese è necessario riflettere sul passato, almeno da quando, nel lontano agosto del 1955, esplose il primo conflitto tra il Nord e il Sud del Sudan, prim’ancora che fosse proclamata l’indipendenza dalla corona britannica e sancita la creazione di un unico Stato. Alla guerra civile diede il via l’ammutinamento delle truppe di stanza nella città di Juba, un estremo tentativo per separare le sorti delle regioni meridionali dal resto del Paese avviato a diventare, il primo gennaio successivo, uno Stato arabo.
Dopo un’altalena di colpi di Stato e crisi istituzionali, in un Paese dove la vita politica si è sempre confusa con l’azione delle confraternite islamiche, d’accordo o più spesso in lotta tra loro, nel marzo del 1972 venne firmato ad Addis Abeba un accordo tra il governo dell’allora presidente Jafaar Nimeiri e i ribelli Anya Nya, comandati dal colonnello filo israeliano Joseph Lagu, che riconosceva l’autonomia del Sud, insediando a Juba un parlamento e un Alto consiglio esecutivo che fungeva da governo locale.
La pace, comunque sempre vacillante, durò solo un decennio, perché la questione meridionale rimase oggetto di accese controversie. Nel clima di sfida Est-Ovest della “guerra fredda” dei primi anni Ottanta, vennero alla ribalta i programmi di sviluppo allo studio nell’Alto Nilo (Upper Nile) dove erano stati scoperti ingenti giacimenti di petrolio. I sudisti pretendevano che la raffinazione del greggio avvenisse nella regione meridionale, ma Khartoum prefigurò, nei suoi progetti a tavolino, una strategia monopolistica. Non a caso, proprio in quel periodo, la compagnia petrolifera Chevron mise a punto un piano per sfruttare il bacino di Bentiu, 120 chilometri a ovest di Malakal, mentre la Snam-Progetti, azienda italiana che faceva capo all’Eni, si aggiudicò l’appalto per la costruzione di un oleodotto che sarebbe servito a far affluire il greggio a Port Sudan, sul Mar Rosso.
Come se non bastasse, i sudisti divennero sospettosi nei confronti di una colossale opera ingegneristica, quella del canale di Jonglei, studiata per bonificare le vaste zone paludose prossime al Nilo, recuperando a fini agricoli l’acqua che andava perduta per l’evaporazione. Il canale divenne uno degli obiettivi della guerriglia, detta Anya Nya II, capitanata in un primo momento da Cherubino Kwanyin Bol, a cui succedette poco dopo il colonnello John Garang. Fu quest’ultimo, nel 1983, ad organizzare politicamente e militarmente l’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla). La goccia che fece traboccare il vaso fu certamente la decisione del regime di Nimeiri di estendere a tutto il Paese la legge islamica, con la promessa che i “non musulmani” non sarebbero stati menomati nei loro diritti. Da allora, la seconda guerra civile imperversò causando morte e distruzione nelle tre amministrazioni separate di Equatoria, Alto Nilo e Bahr el-Ghazal. Indipendentemente dal colpo di Stato incruento del 6 aprile 1985, che destituì Nimeiri mentre era in visita negli Stati Uniti (la meta del suo viaggio ebbe, a detta degli osservatori, un valore emblematico delle alleanze in atto), lo Spla si rivelò al mondo come movimento antigovernativo d’ispirazione marxista-leninista, con l’appoggio incondizionato del “Negus Rosso”, il leader etiopico Menghistu Haile Mariam.
Dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989, Garang cercò di dare allo Spla una nuova immagine internazionale, con l’appoggio del governo di Washington, evocando addirittura le Crociate nel suo progetto politico e militare, dando in particolare al suo impegno una connotazione religiosa in difesa dei cristiani del Sudan meridionale, una componente comunque minoritaria, non solo nel Nord ma anche nel Sud del Paese, territorio fortemente animista. Con il graduale dissolvimento del regime sovietico, la fazione sudanese della Fratellanza musulmana guidata da Hassan el-Turabi (un intellettuale poco amante delle cariche pubbliche che assunse il ruolo di ideologo del fondamentalismo islamico sudanese oltre che di eminenza grigia del regime) sostenne l’ennesimo golpe, il 30 giugno 1989, stavolta del generale Omar Hassan Ahmed el-Beshir, ispirando una politica dichiaratamente antioccidentale.
Durante il primo mandato presidenziale di Bill Clinton, il Sudan finì nella lista degli “Stati Canaglia” ritenuti dagli Usa sostenitori del terrorismo. Il governo di Khartoum venne accusato sia di fornire uno dei principali covi di al-Qaida fondata da Osama bin Laden, sia di ospitare membri dell’Hezbollah libanese, dell’egiziana Gama’at al-Islamiyya, di al-Jihad, della palestinese Islamic Jihad, di Hamas e dell’organizzazione Abu Nidal. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, il Sudan condannò ogni atto violento contro i civili, e da allora il regime di el-Beshir si sforzò di prendere le distanze — sul piano formale, s’intende — dal terrorismo. Intanto, sebbene nel secondo conflitto sudanese abbiano perso la vita oltre due milioni e mezzo di persone, la voce della società civile — Chiese, associazioni, gruppi, movimenti ecumenici — fu quasi sempre inascoltata perché fuori dalle regole della cosiddetta “realpolitik” incentrata sul teorema clintoniano “Trade not Aid” (“Commercio non Aiuti”).
Furono invece gli interessi petroliferi, a lungo andare, a dare sostanza al negoziato tra Nord e Sud. A tal proposito, all’inizio del 1999 venne completato l’oleodotto che collega la ricca area dei giacimenti petroliferi con Port Sudan grazie alla “China National Petroleum Corporation”, maggiore investitore estero in Sudan, oltre che principale fornitore di armi al regime di Khartoum. Il 30 agosto dello stesso anno salpò la prima petroliera carica di seicentomila barili di greggio, destinati alla raffineria Royal Duth Shell di Singapore. Lo stesso giorno il Fondo monetario internazionale promosse il Sudan da Paese “inaffidabile” a Paese “affidabile”, incoraggiando così investitori e capitali stranieri. Da parte sua, la successiva amministrazione statunitense di George W. Bush, spinse all’inverosimile affinché si giungesse il 9 gennaio 2005 a un accordo tra el-Beshir e Garang, siglato a Nairobi (Kenya), elargendo cospicue somme ad ambo le parti.
È chiaro, dunque, che l’intesa sulla ripartizione dei proventi del greggio, siglata in sede negoziale tra governo e ribelli, ma non del tutto precisata dal punto di vista dei confini, abbia rappresentato e continui ancora oggi a rappresentare un fattore destabilizzante nelle relazioni tra gli ormai due Paesi. Com’è noto, la consultazione referendaria, svoltasi nel Sud Sudan dal 10 al 15 gennaio del 2011, si risolse in un trionfo plebiscitario dei secessionisti, tra i quali però due anni dopo, nel dicembre del 2013, esplose una nuova guerra civile tra gli uomini fedeli al presidente Salva Kiir Mayardit — erede di Garang morto il 30 luglio 2005, quando il suo elicottero precipitò per cause mai effettivamente accertate — e i seguaci del suo antagonista, Riaek Machar. Il conflitto si concluse formalmente nel 2018, ma potrebbe riaccendersi a seguito della decisione di Salva Kiir di mettere Machar agli arresti domiciliari insieme alla moglie, ministra degli Interni.
Nel frattempo, nel Nord le cose vanno di male in peggio. Da ormai due anni, è in corso un confronto armato tra le Forze di intervento rapido (rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto anche Hemedti e il governo militare sudanese del generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan; un autentico bagno di sangue ai danni della stremata popolazione civile. Né si può dimenticare, in questo contesto, la riacutizzazione del conflitto nella regione sudoccidentale sudanese del Darfur, esploso drammaticamente nel 2003 e tuttora latente, dopo aver provocato centinaia di migliaia di morti e oltre tre milioni di profughi tra le etnie dei Fur, Masalit e Zaghawa, a opera delle forze — non formalmente governative, ma sotto il controllo di el-Beshir — all’epoca chiamate “Janjaweed” (la cui etimologia più probabile si traduce in italiano con “demoni a cavallo”), comandate proprio da Hemedti.
Come se non bastasse, le relazioni tra i due Paesi stanno diventando incandescenti da quando nel febbraio scorso è nata un’alleanza tra vari movimenti armati, i maggiori dei quali sono le rsf di Hemeti e l’splm/a-n di Abdel Aziz al Hilu, che controlla da anni i Monti Nuba nel Sud Kordofan e vasti territori nel Blue Nile, in funzione anti al-Burhan. Va considerato che l’splm/a-n ha sempre goduto di un supporto logistico e politico speciale dal Sud Sudan, essendo nato dall’splm, il partito al potere a Juba dal momento dell’indipendenza. Se ne evince che i due Sudan stanno nuovamente entrando in rotta di collisione e contribuendo ad aggravare la situazione nell’intera regione. Un vero e proprio disordine legato al controllo dei pozzi petroliferi, a rivalità politiche, etniche e personali. Col risultato che il termine “sudanese” — poco importa se del Nord o del Sud — è diventato nei decenni sinonimo di “perpetuo belligerante”.
P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano