Padre José da Silva Vieira, comboniano in Etiopia: “La missione fa rivivere il Natale”

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Giovedì 16 gennaio 2025
In Etiopia siamo nel pieno del periodo natalizio. Mentre contempliamo questo grande mistero d’amore, attraverso il quale il Verbo ha preso la nostra carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14), dobbiamo chiederci in che modo l’Incarnazione informa la nostra missione e la influenza. Questa domanda mi è venuta in mente quando ho letto l’ultimo libro del teologo ceco Tomáš Halík, in cui rivolge dodici lettere a papa Raffaele sulla Chiesa oggi e su alcune strade per il futuro.

Nella terza lettera, intitolata "La missione del Profeta", scrive: «Il compito missionario del cristianesimo non può essere incentrato solo sulla propagazione di una visione del mondo o di un’ideologia; deve essere qualcosa di ben diverso: la continuazione del mistero dell’Incarnazione, della dinamica dell’Incarnazione di Cristo nella cultura e nella società, "il lievito e il sale"».

Questa citazione mi ha ispirato a guardare la missione con gli occhi del mistero del Natale. Il mistero dell’Incarnazione è il modello del nostro servizio missionario, che fa rivivere l’Incarnazione nello spazio e nel tempo.

La missione è kenosis

Le Scritture cristiane presentano tre racconti dell’Incarnazione di Gesù: i Vangeli di Matteo e Luca e la Lettera ai Filippesi. Giovanni, nel suo Prologo, compie un’acuta lettura teologica dell’evento, dalla creazione alla redenzione.

Matteo e Luca narrano l’annunciazione a Maria e Giuseppe e la nascita di Gesù a Betlemme. Tuttavia, preferisco leggere questo grande mistero attraverso l’inno cristologico che Paolo inserisce nella lettera ai cristiani di Filippi, capitolo secondo, versetti da cinque a undici: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!».

Questo testo è fondamentale per comprendere la missione cristiana di annunciare il Vangelo a tutte le creature fino agli estremi confini della terra.

L’obiettivo della missione della Chiesa è che ogni persona in cielo, sulla terra e sotto la terra adori il nome di Gesù e ogni lingua confessi Gesù Cristo come Signore, a gloria di Dio che è Padre.

Come possiamo raggiungere un tale obiettivo cosmico? Vivendo e proclamando la Buona Novella di Gesù che Dio ci ama, che è nostro Padre e Padre di tutta la creazione.

Santa Teresa di Calcutta diceva: «Gesù ha detto: “Sono stato mandato... Il Padre mio è all’opera...” Anche noi siamo stati inviati e anche noi dobbiamo continuare l’opera di diffusione dell’Amore del Padre». Questa, in poche parole, è la nostra missione!

Il metodo? Attraverso lo svuotamento e il dono di sé, prendendo come modello per il nostro servizio missionario la kenosis di Gesù, che svuota sé stesso.

L’Incarnazione di Gesù è stata il suo svuotamento di sé: «Svuotò sé stesso, assumendo la condizione di servo. Diventando simile agli uomini e, nel manifestarsi, essendo identificato come uomo». Diventa uno di noi, il nostro schiavo, muore come schiavo affinché diventiamo una cosa sola con Lui. «Più ci svuotiamo di noi stessi, più dolce sarà il bacio di Gesù sulla Croce», diceva Santa Teresa di Calcutta.

Arriviamo in missione pieni di ideali, tecnologie, metodologie, aspirazioni, sogni e paure.

La lingua locale è la prima sfida che dobbiamo affrontare. Imparare una nuova lingua, molte volte senza il supporto di una scuola di lingue e di un metodo, a venti, trenta o quarant’anni, accettare di tornare ad essere bambini che si sforzano di salutare e mormorare buongiorno in una lingua di cui non sapevamo l’esistenza è una grande sfida. Torniamo ad essere bambini!

In secondo luogo, siamo tutti etnicamente centrati. Siamo nati in una cultura concreta e impariamo la vita attraverso le dinamiche della cultura che abbiamo succhiato con il latte materno. Per diventare Guji con il popolo Guji, dobbiamo toglierci i sandali del nostro etnocentrismo. La cultura Guji è il suolo sacro sul quale stiamo attualmente (vedere Esodo 3,5).

Come Gesù si è fatto servo dell’umanità, anche noi dobbiamo diventare servi della nostra missione. Questa era la metodologia missionaria di Paolo. Ai cristiani di Corinto scrive: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero” (1 Corinzi 9:19).

La missione non è proselitismo, radunare il maggior numero possibile di persone nella Chiesa, al fine di ingrossare le statistiche di crescita annuale in competizione con l’Islam. La missione è il servizio a tutti. Il discepolo missionario è schiavo di tutti, servo, un samaritano che ha compassione delle persone ferite e maltrattate e si china per curarle e confortarle. Chinarsi è una posizione molto vulnerabile che può facilmente farci perdere l’equilibrio.

La Madre Maria è un grande esempio per noi. Dopo quel lungo e illuminante dialogo con l’angelo Gabriele, ella proclamò: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Luca 1,38).

Il cardinale Timothy Radcliffe, OP, commentando la risposta di Maria a Gabriele – e, attraverso l’Angelo, a Dio che lo ha mandato – scrive: «Se Maria è la “serva” di Dio, significa che non può essere “serva” di nessun altro. È la dichiarazione della sua libertà da ogni dominio umano».

Nella stessa linea di pensiero, il missionario-servo è esclusivamente al servizio del popolo con il quale vive il Vangelo che annuncia. La missione è un’alleanza sponsale tra il missionario e il popolo che serve nel nome di Gesù.

Noi missionari dobbiamo ripetere le parole dell’amata al popolo che ci accoglie: «Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me» (Cantico dei Cantici 7,11).  Ecco qual è la missione! Torneremo su questo punto più avanti.

Inculturazione

Dopo esserci svuotati di noi stessi come servi missionari, dobbiamo ora tradurre il messaggio cristiano nella lingua locale, in modo che il kerigma cristiano sia compreso e vissuto localmente.

Papa Francesco dedica tre paragrafi alle sfide dell’inculturazione della fede nella sua prima e programmatica esortazione Evangelii gaudium, La gioia del Vangelo (68-70).

Al paragrafo 69 scrive: «È imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo».

L’inculturazione è un sistema a doppio senso: il discepolo missionario porta il Vangelo a una cultura concreta attraverso il ministero dell’evangelizzazione, in modo che il Vangelo evangelizzi la cultura e si “inculturi” in quell’ambiente culturale per assumere le forme culturali che sono i semi della Parola già presenti nella cultura ospitante, a cominciare dalla lingua stessa.

Il Papa lo spiega al paragrafo 122: «Quando in un popolo si è inculturato il Vangelo, nel suo processo di trasmissione culturale trasmette anche la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza dell’evangelizzazione intesa come inculturazione».

Questa è un’osservazione molto importante: una volta inculturato, il Vangelo è parte integrante della cultura locale e si trasmette con la cultura stessa.

Al paragrafo 129, affida alle Chiese locali il processo di inculturazione: «Le Chiese particolari devono promuovere attivamente forme, almeno iniziali, di inculturazione. Ciò a cui si deve tendere, in definitiva, è che la predicazione del Vangelo, espressa con categorie proprie della cultura in cui è annunciato, provochi una nuova sintesi con tale cultura. Benché questi processi siano sempre lenti, a volte la paura ci paralizza troppo. Se consentiamo ai dubbi e ai timori di soffocare qualsiasi audacia, può accadere che, al posto di essere creativi, semplicemente noi restiamo comodi senza provocare alcun avanzamento».

L’inculturazione deve andare oltre la traduzione nelle lingue locali. È un compito che deve essere svolto dai credenti locali con tempo e pazienza. Noi missionari stranieri non siamo in grado di fare questo, perché, pur imparando le lingue e le espressioni culturali, veniamo pur sempre da fuori: la sintesi deve essere fatta dalla comunità che accoglie e ospita il Vangelo.

Dio mia madre

Il discepolo missionario viene munito del Vangelo che vivrà con le persone che evangelizza e dalle quali è evangelizzato.

Nel mio caso, c’è stato qualcosa che ha segnato il mio modo di dire Dio in modo inclusivo, aiutato dal modo in cui i Guji iniziano le loro preghiere tradizionali: invocano Dio come loro Padre e Madre, loro Nonno e Nonna, loro Trisnonno, Colui che li ha generati. Si tratta di una visione molto profonda del Mistero di Dio. Dio è sia maschio che femmina.

Questo è ciò che attestano le Scritture: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). Siamo a immagine di Dio quando integriamo mascolinità e femminilità.

Quanto a Dio che ci ha generato, l’intuizione si trova anche nelle Scritture: «La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato» (Deuteronomio 32,18, Bibbia di Gerusalemme).

Paolo, in visita all’Areopago di Atene, usò questa forma di evangelizzazione quando disse ai Greci: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”» (Atti 17,28).

Mentre ero in Sud Sudan, l’espressione religiosa che mi ha colpito di più è stata “Allah Karim”, Dio è generoso. La gente lo ripeteva spesso.

Scambio di doni

Il Natale è diventato la festa delle cose attraverso lo scambio di regali tra parenti e amici. Tuttavia, il motivo di questo scambio gioioso di regali a volte smarrisce la prospettiva. Entra Babbo Natale – quel vecchietto grasso e barbuto, vestito di rosso – ed esce il Bambino Gesù, colui del quale celebriamo il compleanno con il Natale.

I magi venuti dall’Oriente fanno parte della narrativa del Natale. Diciamo che sono tre perché hanno offerto tre doni: oro, incenso e mirra (Matteo 2,11). Tuttavia, potrebbero essere di più o di meno!

È bene notare che hanno reso onore a Gesù con i loro doni. Questi doni, a loro volta, rivelano l’identità stessa di Gesù, gli danno un senso: oro per il re; incenso per Dio; mirra per preparare il cadavere alla tomba. Così, attraverso i loro tre doni, i magi annunciano che Gesù è il Re-Messia atteso, che è Dio e il Servo sofferente: attraverso le sue piaghe, ci salva.

Sant’Agostino, riflettendo sul mistero dell’Incarnazione, pone una domanda interessante: «Quale grazia più grande avrebbe potuto Dio far sorgere in noi se non quella di far diventare il suo Figlio unigenito figlio dell’uomo, perché il figlio dell’uomo diventasse a sua volta figlio di Dio?».

Nel terzo Prefazio di Natale, preghiamo: «In Lui [oggi] risplende in piena luce il sublime scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza è assunta dal Verbo, la nostra natura mortale è innalzata a dignità eterna e noi, uniti a te in mirabile comunione, partecipiamo alla tua vita immortale».

Il mistero dell’Incarnazione è questo scambio spettacolare di doni tra il Figlio di Dio e i figli degli uomini: Gesù si è fatto uno di noi perché noi diventassimo una cosa sola con la Trinità divina.

Attraverso il nostro servizio missionario, offriamo il Vangelo, la vita della Chiesa, la liturgia, l’educazione, la salute, la promozione della donna, il lavoro, il microcredito, la lingua, gli studi culturali e molte altre cose.

Tuttavia, il nostro dono più prezioso è la nostra stessa vita offerta attraverso l’amicizia. Nel donarci, dobbiamo accogliere i doni della comunità ospitante: la sua amicizia, la sua intimità, il suo cibo, il suo modo di vivere, la sua cultura e la sua lingua, il suo amore e le sue ferite, per lasciarci curare dalla sua stessa fragilità.

Una volta avevo la pancia in subbuglio e un vecchio missionario mi disse: “Mangi con tutti e poi stai male. Quando ero qui, non potendo visitare tutte le famiglie, non ne ho visitata nessuna e non mi sono ammalato!”.

«Se questo è il prezzo della comunione a tavola con le persone con cui vivo, è un prezzo benedetto» risposi.

Credo, infatti, che l’Eucaristia abbia pienamente senso se esce dalla cappella o dalla chiesa per andare nelle case. La Messa passa dalla mensa eucaristica alle mense delle famiglie.

La missione è uno scambio di doni: il discepolo missionario offre la sua vita e la sua fede, e la comunità che lo accoglie lo accetta in qualche modo come uno dei suoi e lo ama in questo modo.

Mistero dell’amore

Nel mistero dell’Incarnazione, come in quello della missione, l’amore è sempre presente. Gesù disse a Nicodemo nell’intervista notturna: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Contemplando il mistero dell’Incarnazione, percepiamo lo straordinario amore di Dio per il mondo e il suo grande disegno di salvezza, non di condanna.

La missione senza amore non è missione. Papa Francesco scrive al paragrafo 208 di Dilexit nos, la sua lettera enciclica sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo: «Alla luce del Sacro Cuore, la missione diventa una questione d’amore, e il rischio più grande in questa missione è che si dicano e si facciano molte cose, ma non si riesca a provocare il felice incontro con l’amore di Cristo che abbraccia e che salva».

Come missionari, proclamiamo che Dio ci ama e introduciamo le persone all’esperienza dell’amore di Dio attraverso il nostro ministero d’amore. Per essere facilitatori dell’amore di Dio, dobbiamo prima di tutto vivere noi stessi quell’amore. È interessante notare che una delle parole chiave per la lettura del Documento finale del Sinodo sulla sinodalità è relazione/relazioni.

Il mistero pasquale di Gesù, l’altra faccia dell’Incarnazione, è l’espressione dell’amore in pienezza. Il quarto Vangelo introduce il racconto della passione di Gesù con le parole: «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).

L’autostrada dell’amore è una strada a doppio senso. Possiamo essere tentati dalla reciprocità dell’amore. Ma l’amore è un dono gratuito che contraddistingue la qualità del nostro servizio missionario. Amiamo solo perché amiamo. E basta!

Daniele Comboni, sei mesi prima di morire, scrivendo al suo formatore di Verona (Italia), chiedendo missionari santi e capaci per la missione in Sudan, scrive:

Dunque, quanto all’educazione religiosa ella continui come ha fatto sinora, e come intende di fare, perché io conosco bene e profondamente il suo spirito, e il suo intendimento: santi e capaci. L’uno senza dell’altro val poco per chi batte la carriera apostolica. Il missionario e la missionaria non possono andar soli in paradiso. Soli andranno all’inferno. Il missionario e la missionaria devono andare in paradiso accompagnati dalle anime salvate. Dunque primo santi, cioè, alieni affatto dal peccato ed offesa di Dio e umili: ma non basta: ci vuole carità che fa capaci i soggetti. (Scritti 6655)

È l’amore che ci rende capaci! Nella missione come in tutta la vita!

P. José da Silva Vieira,
Missionario comboniano che lavora fra i guji a Qillenso, in Etiopia