I discepoli di Emmaus raccontano il loro incontro con Gesù, e Lui si fa presente. È così che avviene: quando la Chiesa racconta e celebra Gesù, Lui appare. Eppure Lui viene sempre in modalità destabilizzante, perché noi non abbiamo categorie mentali per la risurrezione!
La Grande Domenica della santa allegrezza
“Di questo voi siete testimoni”
Luca 24,35-48
La Chiesa celebra il mistero della Pasqua durante 7 settimane, da Pasqua a Pentecoste, un periodo di cinquanta giorni, il tempo della “santa allegrezza”, considerato dagli antichi padri della Chiesa “la grande domenica”. Queste sette domeniche ci invitano a celebrare la Pasqua... sette volte (la pienezza!). Per tutto questo tempo, la preghiera liturgica era fatta in piedi, come segno della risurrezione: “Noi consideriamo che non ci è permesso digiunare o pregare in ginocchio di domenica. La stessa astensione la pratichiamo con gioia dal giorno di Pasqua fino alla Pentecoste” (Tertulliano).
Domenica scorsa abbiamo ascoltato le apparizioni del Risorto agli apostoli, il primo e l'ottavo giorno, raccontate da Giovanni. Oggi sentiamo la versione dell'evento secondo l'evangelista Luca. Con questo si concludono le (tre) domeniche in cui il vangelo ci presenta dei racconti sulla risurrezione.
1. Le tre apparizioni di Luca
Nel capitolo 24, conclusivo del suo vangelo, Luca ci racconta tre apparizioni: 1) la prima, al mattino di Pasqua, quella degli angeli alle donne, presso il sepolcro vuoto; 2) la seconda, nel pomeriggio dello stesso giorno, l'apparizione del Risorto ai due discepoli in cammino verso Èmmaus; 3) la terza, in serata, l'apparizione di Gesù agli Undici, a Gerusalemme.
Il racconto si conclude con l'ascensione al cielo. Notiamo bene che tutto avviene nello stesso giorno, il giorno di Pasqua! È una giornata estremamente lunga! Come conciliare questo con quanto raccontano gli altri evangelisti? Bisogna ricordare che i vangeli sono stati scritti alcune decine di anni dopo gli eventi. I fatti erano ormai noti nell'ambito delle comunità cristiane, tramandati oralmente. Gli evangelisti, scrivendo il loro vangelo, tengono conto non solo della storia, ma pensano, soprattutto, alla situazione delle loro comunità. Cioè, hanno un'intenzione teologica e catechetica. Qui Luca vuole mettere in rilievo la domenica del cristiano e il suo rapporto stretto con la Pasqua del Signore. Si tratta di un artificio letterario. Infatti, l'inizio degli Atti degli Apostoli presenta le cose un po' diversamente: “Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni” (1,3).
2. La fatica a credere nella risurrezione
Tutti i vangeli sottolineano la difficoltà dei discepoli a credere nella risurrezione, fino al punto che Gesù “li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore” (Marco 16,14; Luca 24,25). D'altra parte, Gesù ci teneva a farsi riconoscere perché da questo dipendeva il futuro della Missione. “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!”. Siccome gli apostoli stentavano ancora a credere, Gesù chiese loro qualcosa da mangiare. “Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro”. Può un corpo risorto mangiare?! Si tratta forse di una forzatura dell'evangelista per sottolineare la realtà della risurrezione del corpo di Gesù. Pietro dirà al centurione Cornelio: “Noi abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (Atti 10,41). Questa affermazione rimarca non solo la veracità della resurrezione, ma pure la ripresa del rapporto di intimità di Gesù con i suoi. Inoltre, San Luca, scrivendo per le comunità di cultura greca che svalutavano il corpo ritenendolo prigione dell'anima, vuole mettere in evidenza la realtà della risurrezione del corpo.
La fede nella risurrezione è stata frutto di un cammino faticoso, dove non sono mancati dubbi, incertezze e paure. Questo, da una parte, ci rincuora nella nostra fatica a credere; dall'altra parte, è per noi una prova che la risurrezione non è una invenzione degli apostoli.
3. La risurrezione, la chiave del senso della vita
La risurrezione è la più grande delle verità della nostra fede e l'oggetto primordiale del nostro annuncio: “Di questo voi siete testimoni”! La risurrezione è il “vangelo”, la buona notizia che il cristiano è inviato ad annunciare. Tutto il resto viene come conseguenza. E la prima conseguenza è che, se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo con lui. La sua risurrezione e la nostra sono in certo modo intercambiabili, secondo San Paolo: se Gesù è risorto, risorgeremo anche noi con lui (vedi Romani 6) e, d'altro canto, “se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto” (1 Corinzi 15,13). Con la risurrezione professiamo che la vita ha un “senso”: non va verso il nulla, ma verso la sua pienezza. Se non crediamo nella risurrezione, professiamo il non-senso della vita: “l'uomo è una passione inutile” (Jean-Paul Sartre), un “essere votato alla morte (Heidegger).
Per un cristiano credere nella risurrezione può sembrare qualcosa di ovvio ma, purtroppo, non è cosi. Nel 2009, in una inchiesta condotta in Francia, solo il 13% dei cattolici rispose di credere nella risurrezione, mentre il 40% disse di credere che ci sia “qualcosa” dopo la morte e il 33% che non ci sia niente! Tre anni fa (2021), in una inchiesta fatta in Italia, risultò che solo il 20% degli italiani crede nella risurrezione dei morti. Molti ripetono ogni domenica: “Credo la risurrezione della carne e la vita eterna” o “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, ma non è affatto scontato che lo che dicono con le labbra lo credano davvero nel loro cuore. Che poi sia un vero controsenso a dirsi cristiano senza credere nella risurrezione lo affermava perentoriamente già San Paolo: “Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio... Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1Corinzi 15,14-15.19). Togli la risurrezione e tutto l'edificio crolla. Il cristianesimo sarebbe stato la più grande farsa della storia.
4. Testimoniare la risurrezione
“Di questo voi siete testimoni”, dice Gesù agli apostoli alla conclusione del vangelo. Oggi lo dice a noi. Come possiamo testimoniarlo? Coltivando in noi, con l'aiuto della grazia, la coscienza di essere già risorti con Cristo e di vivere nel “terzo giorno”, nel Giorno ultimo e definitivo, quello della risurrezione, anche se le piaghe della nostra croce sanguinano ancora. Gesù non ha voluto che le sue guarissero prima delle nostre. Egli porta le nostre piaghe e quelle di tutti i crocifissi della storia. Come curare queste piaghe? Prendendoci cura dell'umanità sofferente attorno a noi!
Per la riflessione personale: confronta la tua fede nella risurrezione con quanto afferma San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, capitolo 15.
P. Manuel João Pereira Correia mccj
Verona, aprile 2024
Mangiare insieme, aprire la mente, diventare testimoni
Commentario a Lc 24, 35-48
Leggiamo oggi l’ultima parte del capitolo 24 di Luca. Dopo l’episodio dei due discepoli di Emmaus, che riconoscono Gesù nel “partire il pane” e che tornano a Gerusalemme per condividere quello che hanno vissuto, Luca ci racconta come Gesù si manifesta a tutto il gruppo, nel cenacolo, dove la comunità è radunata, anche se piuttosto triste, confusa e piena de dubbi. Nel testo che leggiamo oggi possiamo trovare molti spunti di meditazione. Io mi trattengo soltanto in tre:
Luca ci racconta che, visto che i discepoli erano rimasti sotto shock e stentavano a credere quello che vedevano, Gesù domandò un po’ di cibo e si mise a mangiare davanti a loro. Mangiare con qualcuno è sempre stato un gesto di grande significato sociale. Mangiare assieme unisce le famiglie, accresce le amicizie, stabilisci vincoli sociali… e perfino favorisce gli affari.
Per quello che ci dicono i vangeli, Gesù andava frequentemente a mangiare nelle case delle persone più diverse: per festeggiare un matrimonio (Cana), per celebrare una nuova amicizia (con Levi), per trovare dirigenti sociali (farisei)… Gesù comparava anche il Regno di Dio con un banchetto a cui ci invita Dio. Mangiare assieme è un segno della nuova fraternità umana che Gesù ha annunciato nel nome del suo Padre celeste; e di questa fraternità, sigillata con il suo corpo e sangue consegnati sulla croce, è anticipazione l’ultima cena.
Gesù ha fatto della cena comunitaria un segno della sua presenza tra i discepoli, compagni nella lotta in favore del Regno di Dio in un mondo frequentemente ostile. Certo che tutto può essere falsato, come succede con certe cene ipocrite, che non sono quello che appaiono. E questo può capitare anche con il grande sacramento della presenza viva di Gesù in mezzo a noi: l’Eucarestia. Possiamo falsarla, e di fatto lo facciamo. Ma, se la viviamo onestamente, l’Eucarestia diventa il grande segno di una umanità rinnovata, di una Chiesa che ascolta la Parola a condivide il pane. Se viviamo l’Eucarestia sinceramente, Gesù è presente tra di noi, la comunità cresce nella comunione (inclusa la condivisione dei beni necessari per la vita) e l’umanità trova nel suo seno questo fermento di vita nuova, capace di farla crescere in giustizia, pace, riconciliazione e amore.
Gesù apre loro l’intelligenza per capire le Scritture a partire da quello che stanno vivendo, e per capire quello che vivono a partire dalle Scritture. Questo capitava già quando Gesù camminava sulle strade della Galilea e della Giudea. Precisamente per questo Gesù era il Maestro: aveva parole luminose, chiare, rilevanti, che erano come delle lampade che illuminavano la realtà. Ascoltandolo era facile capire come, per esempio, guarire un paralitico era più importante che seguire alcune norme religiose; che il Padre si rallegra tanto quando un suo figlio pentito torna a casa dopo una brutta esperienza; che aiutare un sconosciuto ferito ci fa diventare veri figli del Padre… che la sua propria morte trovava un senso nella fiducia assoluta e nell’amore definitivo di un Dio che non ha paura di “perdere” la propria vita per amore.
Per tutto questo, fino a oggi, e per secoli futuri, i discepoli ci raduniamo regolarmente: per ascoltare la parola di Gesù, per farci illuminare da essa in un dialogo fecondo tra vita e parola. A partire della vita cappiamo meglio la parola e, leggendo la parola, cappiamo la vita. E in tutto questo esperimentiamo che Gesù vive in mezzo a noi e ci accompagna nel nostro camminare.
Ascoltare la parola luminosa di Gesù, mangiare con Lui e con la comunità dei discepoli, esperimentare la presenza dello Spirito nella mia vita e nel mondo, è il più grande dono che ho mai potuto ricevere. Questo ha trasformato la mia vita, facendomi sentire figlio amato e fratello tra fratelli. Per questo, come Pietro e Paolo, come Luca e tantissimi altri discepoli, anche io sono un testimone, un missionario, qualcuno che vuole condividere con il mondo il dono ricevuto. Diventare testimoni di Gesù nel mondo è la più fascinante missione che una persona può avere.
La missione non è una carriera orgogliosa per fare proseliti di una setta, neanche propaganda di una ideologia o diffusione di un sistema religioso… La missione ci fa umili testimoni di un dono ricevuto: una Parola che da senso alla nostra vita nel mondo, anche in mezzo a contradizioni, nostre ed altrui; una fraternità che impariamo a costruire giorno dopo giorno, non perché noi siamo migliori degli altri, ma perché siamo discepoli, disposti a imparare, anche se questo grandioso progetto del Regno ci supera grandemente; una esperienza dello Spirito che, secondo la promessa di Gesù, ci guida, nella libertà e nell’amore, in mezzo a difficoltà, contradizioni e peccati.
Grazie, Gesù per la tua Parola; grazie per la tua cena di fraternità; grazie per il tuo Spirito che ci accompagna e ci guida in questa dolce missione di diventare tuoi testimoni, “per la vita del mondo”.
Antonio Villarino, MCCJ
Toccare Cristo per poi pensare secondo Cristo
I discepoli di Emmaus raccontano il loro incontro con Gesù, e Lui si fa presente. È così che avviene: quando la Chiesa racconta e celebra Gesù, Lui appare. Eppure Lui viene sempre in modalità destabilizzante, perché noi non abbiamo categorie mentali per la risurrezione!
Gesù, a fronte della paura dei discepoli, mostra di essere reale e accessibile. Cristo non è un’idea, non è uno spirito, non è astratto, esoterico o impalpabile, ma ha carne e ossa. I discepoli lo incontrano con i loro sensi, vedendolo, toccandolo, ascoltandolo, mangiando con lui. La dimensione intellettuale — turbata dalla risurrezione — è ricollocata al suo posto, ma non viene disprezzata.
Il Padre non ci ha dato l’intelligenza per errore. La comprensione, però, è un risultato, non la condizione previa. La ricezione razionale è parte di un tutto, e Gesù se ne occupa appositamente: «Aprì loro la mente per comprendere». Comprendere si deve, il problema è: quando? Come? Prima Gesù si fa sperimentare corporalmente, e allora può aprire la mente dei discepoli.
Normalmente noi partiamo dalle idee per arrivare alle cose, e senza un bagaglio di convinzioni non muoviamo un passo. Eppure, già nell’Alleanza dell’Esodo, il popolo diceva una cosa curiosa: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24, 7). Eseguire e poi recepire. Prima si segue Cristo per tre anni, si fa esperienza della sua morte e risurrezione, e poi si inizia a capire. C’è un esercito di cristiani che prova inutilmente a risorgere per deduzione. Non si può servire il mondo con una testa pesante di schemi, ma per un atto di sequela che diventa luce interiore.
Dobbiamo ripensare l’educazione cristiana: per molto tempo siamo partiti dai dogmi per arrivare alla vita cristiana, con risultati discutibili, ma la Chiesa dei primi secoli faceva l’esatto contrario. Forse è tornato il tempo di educare la prossima generazione di cristiani partendo dal fargli toccare Cristo con esperienze concrete, perché sappiano, poi, pensare secondo Cristo.
[Fabio Rosini - L'Osservatorio Romano]
Aperti all’intelligenza delle Scritture
At 3,13-15.17-19; Salmo 4; 1Gv 2,1-5; Lc 24,35-48
Il filo conduttore di questa domenica è suggerito dalle parole di Pietro, nella prima lettura. Egli colloca la vicenda di Gesù, il " Santo e il Giusto", sullo sfondo della fede biblica nel "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri". Egli ha risuscitato dai morti quel Gesù, autore della vita – che i Giudei hanno rinnegato, chiedendo che fosse liberato un assassino, Barabba –, e lo ha costituito fonte di salvezza mediante il perdono dei peccati.
Alla fine, Pietro invita al pentimento e alla conversione, condizioni sine qua non per avere il perdono dei peccati. Questa tematica del discorso di Pietro viene ripresa nella seconda lettura con un altra terminologia, che è anche un po’ difficile: "vittima di espiazione per i nostri peccati". E' una perifrasi del vocabolo greco, hilasmòs, che significa espiazione e/o propiziazione. Non si tratta di un' idea di colpa da espiare attraverso una corrispondente punizione o sofferenza – Dio non è così, cioè vendicativo. E' per questo che l'autore della lettera accosta al termine hilasmòs quello di parakletos (avvocato-intercessore). Viene allora messa in evidenza il ruolo mediatore e salvatore di Gesù, cioè la sua "espiazione – propiziazione" universale come intercessione efficace. Gesù è infatti il Giusto che rimane fedele a Dio, anche nella sofferenza e nella morte, facendosi carico, sul modello del "doulos – servo" di Isaia, dei nostri peccati. Per quanto riguarda il brano evangelico, esso è tratto dall’ultimo capitolo del vangelo di Luca. Al centro troviamo l'episodio di Emmaus, preceduto dalla visita delle donne al sepolcro vuoto e seguito dall'apparizione su cui meditiamo questa domenica.
I tre racconti seguono uno schema comune ben preciso, scandito da tre momenti successivi: l'iniziativa divina (inattesa, sorprendente), il riconoscimento (lento, difficoltoso, con dubbi, incertezze e paure), la missione (cf. "Di questo voi sarete testimoni"). Infatti un incontro col Signore è sempre teso verso l'avvenire, cioè non può essere ridotto all' effimero. "Pace a voi", dice il risorto agli apostoli. Questa parola, rivolta anche a noi oggi, dovrebbe essere accolta come un seme nella profondità del nostro essere e diventare esigenza, ostinazione, passione. Tuttavia, la pace non è un punto di partenza, ma di arrivo, che comporta fatica, combattimento, dominio su di se stessi. Prima ancora che "gridata" e richiamata sulle piazze, la pace deve essere "irradiata" personalmente. Non è un sogno, ma una possibilità. Si tratta di una forza superiore a quella dell'odio, della vendetta e della violenza. "Stupiti e spaventati, credevamo di vedere un fantasma".
Il terzo vangelo pone l'accento sulla realtà del corpo di Gesù, il vivente: "Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho". Gesù ricorre ad un'ulteriore prova: Egli chiede di poter mangiare nella loro presenza. Cristo Risorto vuole quindi essere considerato non come un fantasma, che mette paura. Il rapporto coi suoi è un rapporto di amore e di amicizia. Dove c'è amore, non c'è più posto per il timore. Chi teme non è perfetto nell'amore (1GV4,18). Se crediamo davvero nella risurrezione di Cristo, non c'è più nulla che giustifichi i nostri timori. Neppure il peso del peccato. Le nostre colpe non sono più grandi del perdono di Cristo. I nostri peccati non riusciranno mai ad esaurire la sua misericordia. Però, non c'è salvezza senza conversione. Da cui questa raccomandazione di Paolo: "vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (2Cor5,20). Non è facile lasciarsi riconciliare, però la salvezza consiste in questo. Alla fin fine si tratta di lasciarsi amare da Dio.
Don Joseph Ndoum
Missione pasquale è annuncio del Perdono
Atti 3,13-15.17-19; Salmo 4; 1Giovanni 2,1-5; Luca 24,35-48
Riflessioni
La storia dei due di Emmaus finì in modo sorprendente. La presenza di Gesù, che accompagnava i due discepoli in cammino verso Emmaus (Lc 24,13s), si concluse con la scoperta di quel misterioso viandante, che spiegava loro così bene le Scritture, che riscaldava il loro cuore e che ha spezzato il pane... “Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista... Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme” (Lc 24,31.33). A questo punto inizia il brano odierno di Luca (Vangelo) con gli Undici apostoli e i Due di Emmaus che si scambiano le esperienze circa le apparizioni di Gesù Risorto (v. 34-35). Finalmente, alla fine di quel giorno - il primo del nuovo calendario della storia umana - Gesù in persona appare a tutto il gruppo e dice: “Pace a voi!” (v. 36).
L’esperienza pasquale dei discepoli, che vedono e riconoscono il Signore risorto, diventa annuncio, anzi si trasforma nel fondamento stesso della missione degli apostoli e della Chiesa di ogni tempo e luogo. Il testo lucano di oggi è tutto un annuncio pasquale e missionario: i Due di Emmaus parlano del loro incontro con il Risorto e gli Undici sono mandati da Gesù a predicare “a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (v. 47).
Gli apostoli non erano dei creduloni, fecero difficoltà ad accettare che Gesù fosse risorto. San Luca cerca di provarlo con insistenza: dapprima dicendo che erano sconvolti, spaventati, turbati, dubbiosi, lo credevano un fantasma (v. 37-38); e poi, ci tiene a fornire prove concrete della corporeità del Risorto. Da parte sua, Gesù insiste nel dire: “Sono proprio io!” (v. 39). E fornisce prove palpabili che è proprio Lui, lo stesso Gesù in “carne e ossa”: mangia davanti a loro una porzione di pesce arrostito (v. 42), li invita a guardare e toccare mani, piedi, costato (v. 39). Alla fine i discepoli si arrendono e credono: le ferite della passione sono ormai i segni visibili e tangibili che c’è identità e continuità fra il Cristo crocifisso e il Cristo risorto.
Normalmente, salvo circostanze o esami speciali, le persone sono identificate dal volto. Gesù invece vuole che i discepoli - Tommaso, in particolare- lo riconoscano dalle mani, dai piedi e dal costato. “Il richiamo è alle ferite impresse dai chiodi e dalla croce, apice di una vita spesa per amore. Anche da risorto, il corpo di Gesù conserva i segni del dono totale di sé... Anche il cristiano sarà riconosciuto dalle mani e dai piedi... L’annuncio della risurrezione di Cristo è efficace e credibile solo se i discepoli possono, come il Maestro, mostrare agli uomini le loro mani e i loro piedi segnati da opere di amore” (F. Armellini). L’annuncio si fa con la parola e soprattutto con i fatti!
Le tre letture neotestamentarie di questa domenica pasquale hanno un filo conduttore comune: la conversione e il perdono dei peccati. Ambedue - conversione e perdono - hanno la loro radice nella Pasqua di Gesù e sono parte essenziale dell’annuncio missionario della Chiesa. Pietro (I lettura) lo dichiara nella piazza pubblica il giorno di Pentecoste: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (v. 19). E Giovanni (II lettura) esorta amorevolmente i ‘figlioli’ a non peccare, ma se ciò capitasse, c’è sempre una tavola di salvezza: “abbiamo un avvocato... Gesù Cristo il giusto... vittima di espiazione per i peccati di tutto il mondo” (v. 1-2).
Questa bella notizia della salvezza ci è offerta come dono dello Spirito Santo, il quale, per Luca e per Giovanni, è collegato al perdono dei peccati. Tale connessione è messa in evidenza anche nella nuova formula dell’assoluzione sacramentale, come pure in una orazione della Messa, dove si invoca lo Spirito Santo, perché “Egli è la remissione di tutti i peccati” (cfr. preghiera sulle offerte, sabato prima di Pentecoste).
Nel Vangelo di Giovanni, l’istituzione del sacramento della riconciliazione per il perdono dei peccati avviene proprio nel giorno di Pasqua: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi” (Gv 20,23). Il perdono dei peccati è, quindi, un regalo pasquale di Gesù. Per san Luca “la conversione e il perdono dei peccati” sono la bella notizia che i discepoli dovranno predicare “a tutti i popoli”, nel nome, cioè per mandato di Gesù (Lc 24,47). Sono i doni del Crocifisso-Risorto, sono i veri segni della Missione. Perché “Gesù Cristo è il volto della Misericordia del Padre”, come ha spiegato più volte Papa Francesco in occasione del recente Giubileo Straordinario della Misericordia (2015-2016). Il Papa ritorna con frequenza sul tema della misericordia: invita tutti a praticare le opere di misericordia, affinché “non viviamo una fede a metà, che riceve ma non dà, che accoglie il dono ma non si fa dono”. Egli esorta caldamente ad “abbracciare il Sacramento del perdono”, perché “è il Sacramento della risurrezione, è misericordia pura”, come ha dichiarato anche domenica scorsa (11.4.2021). (*) A ragione, quindi, il grande teologo moralista Bernardo Häring chiama la confessione il sacramento dell’allegria pasquale.
Parola del Papa
(*) «Gesù offre ai discepoli lo Spirito Santo. Lo dona per la remissione dei peccati (Gv 20,22-23)… Come quei discepoli, abbiamo bisogno di lasciarci perdonare, dire dal cuore: “Perdono, Signore”. Aprire il cuore per lasciarci perdonare. Il perdono nello Spirito Santo è il dono pasquale per risorgere dentro. Chiediamo la grazia di accoglierlo, di abbracciare il Sacramento del perdono. E di capire che al centro della Confessione non ci siamo noi con i nostri peccati, ma Dio con la sua misericordia. Non ci confessiamo per abbatterci, ma per farci risollevare. Ne abbiamo tanto bisogno, tutti… Cadiamo spesso. E la mano del Padre è pronta a rimetterci in piedi e a farci andare avanti. Questa mano sicura e affidabile è la Confessione. È il Sacramento che ci rialza, che non ci lascia a terra a piangere sui pavimenti duri delle nostre cadute. È il Sacramento della risurrezione, è misericordia pura. E chi riceve le Confessioni deve far sentire la dolcezza della misericordia… di Gesù che perdona tutto. Dio perdona tutto… E chiediamo la grazia di diventare testimoni di misericordia. Solo così la fede sarà viva. E la vita sarà unificata. Solo così annunceremo il Vangelo di Dio, che è Vangelo di misericordia».
Papa Francesco
Omelia nella domenica della Divina Misericordia, 11.4.2021
P. Romeo Ballan, MCCJ