Martedì 26 marzo 2024
Padre Renzo Piazza è da 9 anni superiore della comunità comboniana più numerosa dell’Istituto, quella di Castel d’Azzano, che accoglie confratelli anziani e ammalati, la maggior parte italiani. Alla fine del suo servizio e in attesa di ricevere dall’Istituto nuove responsabilità, gli abbiamo fatto alcune domande: sul vissuto di questi ultimi anni, ma anche sulla missione, che rimane la sua grande passione.
Renzo, stai terminando il tuo servizio di coordinamento nella comunità comboniana di Castel d’Azzano, che è una comunità di assistenza ai confratelli anziani, malati e non auto-sufficienti. Che cosa ti porti via di questa esperienza?
Castel d’Azzano è un grande laboratorio di umanità e di spiritualità. Ho ricevuto il dono di vivere 9 anni in compagnia di circa 200 confratelli e di accompagnarne la metà all’ultimo incontro con il Signore. Il contatto con persone che hanno speso la vita a servizio del Vangelo e dei poveri, molti con un’esperienza di santità di vita alle spalle, è stata una grazia e una ricchezza. Tra questi, alcuni fratelli che avevo conosciuto nella mia infanzia, degli educatori del seminario minore, dei compagni di missione e qualche carissimo amico. Di altri ho scoperto la grande umanità e la santità di vita nei pochi mesi trascorsi assieme. Occasioni per stupirsi delle opere belle compiute da Dio e dagli uomini quando decidono di darsi la mano e collaborare insieme per la vita del mondo. In questi nove anni non mi è mancata la missione perché mi sono sempre sentito in missione.
In contemporanea il contatto e la collaborazione con gli operatori sanitari è stata un’altra scuola di vita. Vedere che assieme siamo riusciti a portare avanti una struttura sanitaria piuttosto complessa e una comunità comboniana riconosciuta come serena, è stata una consolazione.
Ci stiamo occupando bene dei nostri confratelli più fragili?
C’è una parola che mi ha accompagnato spesso nel riflettere sul servizio che mi è stato chiesto: l’inadeguatezza. E ce n’è un’altra se rifletto sul lavoro di insieme: stupore e riconoscenza. Per quanto uno riesca a fare, siamo lontani dal poter offrire ai nostri confratelli tutto quello che desiderano e sperano, soprattutto in termini di ascolto, compagnia, incoraggiamento. Mi rallegro quando vedo un confratello centenario spingere la carrozzina di un ottantenne e quando un ultranovantenne prepara la sua omelia come un giovane neo ordinato. Il “Salvare l’Africa con l’Africa” in questa casa si traduce nella disponibilità degli anziani ad aiutare i più fragili di loro.
Mi rallegro per la disponibilità dei confratelli dell’equipe a prendersi cura dei malati, ogni giorno, 24 h su 24.
Dal punto di vista sanitario mi sono rallegrato quando dopo una visita di ispezione dell’ASL hanno promosso la struttura a pieni voti in tutti gli aspetti che sono stati considerati.
A Castel d’Azzano avete accolto anche giovani in formazione, non solo comboniani ma anche di altre appartenenze religiose. Come hanno risposto a questo tipo di lavoro che avete loro presentato?
Sono stati una grande ricchezza per la nostra comunità, presenti al momento opportuno, ci hanno dato una mano per l’assistenza, il dialogo e il servizio ai nostri confratelli e nello stesso tempo hanno permesso ad alcuni di noi di prendere un po’ di vacanza e ci hanno arricchito con la loro diversità culturale. Noi abbiamo un’esperienza assodata dell’Africa e dell’America Latina, ma i seminaristi del Collegio Urbano hanno allargato i nostri orizzonti soprattutto verso l’Asia: Viet-Nam, Cina, Pakistan, India, Indonesia…
Puntuali e fedeli nel servizio, vita spirituale solida, capacità di far fronte agli imprevisti, buona relazione con i colleghi studenti … una benedizione per la nostra comunità. E ci consola il fatto che molti di loro, a distanza di tempo ci invitano a partecipare per il loro diaconato o la loro prima Messa… Ci danno un’immagine bella delle giovani chiese che abbiamo servito nel tempo.
Per te sono stati 9 anni di servizio, che si aggiungono agli altri vissuti in altri contesti, in Italia e in Ciad. Quali le esperienze che più ti hanno segnato nel tuo percorso missionario, dove più ti sei sentito realizzato? Cosa consideri più “comboniano” tra le tante cose che hai fatto?
Il Vangelo non ci invita a realizzarci come persone, ma a “perdere” la vita per ritrovarla. Dovrei rispondere che i momenti più difficili sono stati i più arricchenti, anche se si trattava di masticare amaro. E non sono mancati, soprattutto a livello relazionale. Ciò che mi ha dato soddisfazione è stato il collaborare con profitto assieme ad altri uomini e donne, religiosi e non, per un progetto comune: nella “pastorale di insieme” nella diocesi, a servizio dei catechisti o dei giovani universitari in Ciad, a servizio degli anziani e degli ammalti in Italia. Insegnare e curare i malati sono state attività che Gesù ha svolto per annunciare il Regno di Dio. Alleviare le sofferenze o la solitudine, accompagnare i confratelli negli ultimi giorni della loro vita, fare da tramite con i familiari e gli amici è stata un’esperienza bella dal punto di vista umano ed evangelico. Non tutto ha funzionato alla perfezione, ma le difficoltà sono state causa di crescita nella pazienza, nella sopportazione e nella capacità di affrontare e superare le difficoltà.
La missione è molto cambiata rispetto al passato. Oggi abbiamo, anche solo dal punto di vista dei numeri e delle percentuali, più cattolici praticanti in Congo o in Mozambico che in Italia e in Francia. Non esportiamo più la fede come abbiamo fatto nei secoli scorsi. Non siamo più punti di riferimento per le giovani chiese. Viviamo una missione capovolta: oggi vengono gli africani a lai tornare in Africa, cosavorare da noi. Cosa pensi che debba fare un istituto come il nostro?
Come missionario non mi sono mai sentito un “esportatore della fede”, visto che spesso l’ho trovata là dove non avevo seminato. Incontrando tanta gente semplice e buona ho scoperto che Dio era già presente nella loro vita e la loro fiducia in lui era ben radicata, forse a causa della grande povertà in cui si trovavano. La comunione tra le chiese dovrebbe fare spazio anche a questo tipo di scambio. Il nostro Istituto, nato per evangelizzare l’Africa, si trova ora arricchito dalle comunità che abbiamo evangelizzato che fanno dono dei loro figli per la causa del vangelo. E’ facile ora trovare “un po’ d’Africa al giardino, tra l’oleandro e il baobab”: sia nelle situazioni di “Nigrizia” nel mondo dell’immigrazione, sia tra gli operai del Vangelo che prestano aiuto alle nostre comunità. Secondo me il nostro istituto rischia di far evaporare il carisma se in Europa ci limitiamo a fare opera di supplenza in comunità invecchiate e prive di slancio missionario. La nostra missione non può limitarsi a raccontare quello che abbiamo fatto “laggiù”, senza sporcarci le mani nelle periferie esistenziali che sono attorno a noi oggi.
Che cosa ti piacerebbe fare tornando in Africa?
Tornare a parlare la lingua che avevo imparato nel passato, ormai 40 anni fa; tornare a condividere la polenta di miglio con la gente all’ombra dei manghi; stare in compagnia della gente nella loro vita semplice; e perché no? condividere quello che ho imparato in questi ultimi anni lavorando al servizio dei malati. Mi piacerebbe ritrovare gioia e consolazione in un progetto condiviso ricordando quanto diceva Daniele Comboni che il missionario “deve considerarsi come un individuo inosservato in una serie di operai, i quali hanno da attendere i risultati non tanto dell’Opera loro personale, quanto da un concorso e da una continuazione di lavori misteriosamente maneggiati ed utilizzati dalla Provvidenza”. Un progetto condiviso dura nel tempo, anche dopo la nostra partenza. Questo ci fa sentire inseriti nella chiesa missionaria, che è più grande del singolo missionario…
So comunque per esperienza che quando uno arriva in una missione c’è sempre uno scarto tra ciò che desidera realizzare e ciò che la missione concreta gli offre come possibilità di impegno e di servizio. Più che attaccarsi a una specializzazione o a un servizio particolare mi sembra importante essere attenti a quello che succede, perché in ciò che succede ci sono sempre molte richieste che vengono dallo Spirito e orientano il servizio missionario, che non può essere fabbricato o pensato al di fuori, in laboratorio, ma nel contesto in cui si è chiamati a vivere.
Nella “carta dell’evangelizzazione” della Provincia Italiana è scritto così: “I missionari sono anzitutto servitori della Parola di Dio e dei poveri in ogni parte del mondo”. L’annuncio della Parola mi ha interessato in Africa e in Italia. Vi ho consacrato – e spero di consacrarvi ancora – tempo, pazienza ed energie. Questo può essere fatto in tante maniere e in tanti contesti diversi. L’importante è che non si dimentichi l’essenziale, il Vangelo. Silvano Fausti scriveva con ironia: “Ti dico un grande segreto che molti nel futuro ignoreranno: l’evangelizzazione si fa con l’annuncio dell’Vangelo…” È bene non dimenticarlo.
P. Giovanni Munari, MCCJ
Missionari Comboniani