Domenica 11 febbraio 2024
Espropriati delle terre ancestrali e delle risorse, abusati e umiliati. I pigmei che da tempo immemore vivono nelle foreste del parco nazionale Odzala-Kokoua sono vittime da almeno un decennio di gravi violazioni dei diritti umani in nome della conservazione ambientale. [Nella foto: Uomo baka della Repubblica del Congo. Un suo parente ha subito un attacco da parte di guardaparco e successivamente è morto (Credit: © Survival). Testo: Nigrizia]

È davvero una brutta forma di green colonialism quella che si muove intorno ai parchi protetti in Africa. Non tutti, certo, ma spesso questi luoghi sono gestiti da organizzazioni estere, o addirittura charity, che in nome della salvaguardia ambientale – ma anche del divertimento di chi può permettersi cifre esorbitanti per l’ingresso – finiscono per danneggiare ambienti e popolazioni che in quei territori ci vivono da sempre.

È il caso dell’Odzala-Kokoua, nella Repubblica del Congo, uno dei 21 parchi gestiti da African Parks. Si tratta di un’organizzazione no-profit a cui è legato il nome del principe Harry, fino allo scorso anno presidente della charity e poi membro del Consiglio di amministrazione.

È proprio a lui che si è rivolta Survival International, movimento mondiale che si occupa dei diritti dei popoli indigeni, per denunciare lo stato di oppressione, le violenze e gli abusi a cui da anni è sottoposta la popolazione baka.

Atti compiuti dai guardiaparco armati assunti e pagati da African Parks. Stupri, torture, violazioni compiuti in nome della protezione del territorio. Un territorio da cui queste comunità sono state progressivamente allontanate in un’opera costante di espropriazione e limitazione degli spazi.

«Il principe Harry ci ha risposto dicendosi scioccato da queste rivelazioni e considerata l’importanza della nostra indagine e delle nostre denunce ci ha messo in contatto con il direttore di African Park» ci spiega Fiore Longo, direttrice della campagna di Survival per la decolonizzazione della conservazione, che ha condotto indagini sul campo.

Ma la risposta di Peter Ferahead, attuale direttore e tra i fondatori dell’organizzazione, è stata a dir poco risibile, visto che richiedeva ulteriori prove e notizie aggiuntive. Da sottolineare che qualche mese dopo, il principe Harry assumeva il nuovo incarico nel board di AP.

Ma a dimostrare l’indifferenza nei confronti delle accuse presentate da Survival c’è anche un report che risale al 2017 che riguarda l’intero bacino del Congo e che già dettagliatamente dimostrava il livello di violenza nei confronti dei baka e bayaka.

Un report – cui è seguita nel 2022 un’indagine del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) – risultato di inchieste, testimonianze, interviste sul campo che vanno avanti da tempo.

«Lavoriamo nell’area da trent’anni – sottolinea Longo – e abbiamo denunciato diversi casi di abusi contro i baka. Nel 2013 abbiamo contattato per la prima volta l’allora direttore dell’Odzala-Kokoua ma le risposte non sono mai state soddisfacenti».

Le violazioni dei diritti umani nei confronti dei pigmei sono dunque da tempo all’ordine del giorno e ribellarsi diventa oltremodo motivo di ritorsione, come è successo al marito di una donna stuprata – testimonianze, ripetiamo, raccolte dai ricercatori di Survival International – che ha tentato di ottenere giustizia ma è finito malmenato e umiliato.

Ai baka vengono rivolte accuse di distruzione del territorio, di caccia di frodo, addirittura di deforestazione. Eppure queste popolazioni (oggi se ne contano 40mila tra il Camerun, la Repubblica del Congo e il Gabon) hanno sempre vissuto nelle foreste o nelle vicinanze.

Per centinaia di anni hanno ricavato dalla natura il loro sostentamento, come cacciatori, raccoglitori ed esperti di erbe medicinali. «Quello che sta accadendo – afferma la ricercatrice – è che i baka non sono soltanto aggrediti fisicamente, ma hanno perso l’accesso alla loro foresta, quella che procurava loro cibo, il modo di curarsi e il luogo in cui venivano trasmesse tutte le conoscenze ai bambini, dunque alle generazioni future».

Insomma, la presenza del parco, creato dai colonizzatori francesi nel 1935 (African Parks è arrivato nel 2010) «provoca per queste popolazioni anche conseguenze che non sono visibili a livello mediatico, come la malnutrizione, oppure il fatto che sono costretti a lavorare in campi vicini sfruttati e malpagati».

Quello che sta avvenendo è un vero e proprio genocidio culturale o «genocidio verde» come lo definisce la ricercatrice di Survival International. Popolazioni destinate di questo passo a mischiarsi con un mondo a cui non erano abituati e che spazzerà via la loro storia, la loro cultura.

Suona ironica la presentazione che African Parks fa di se stessa, come organizzazione “che si assume la responsabilità diretta del ripristino e della gestione a lungo termine delle aree protette in collaborazione con i governi e le comunità locali”.

Peccato che negli anni l’evidenza dimostra che la “responsabilità” di cui si parla si tramuta per le comunità locali in sradicamento, perdita di spazi e identità, violenze. E tutto questo con la complicità di chi sa ma o finge di non sapere o non prende iniziative per evitare che questo accada. E persino con la complicità indiretta di chi sostiene, certo in buona fede, realtà che affermano di operare a beneficio dell’ambiente e delle comunità locali.

«Forse i donatori dell’organizzazione benefica – conclude Fiore Longo – ignorano ciò che sta realmente accadendo, proprio come i turisti che spendono 9.690 dollari per viaggi di quattro giorni per godersi l’Odzala Gorilla Discovery Camp nel parco nazionale Odzala-Kokoua del Congo».

Anche per questo Survival ha lanciato una campagna pubblica di pressione.

Nigrizia – Antonella Sinopoli (da Accra)