La parola di Dio di questa domenica ci ricorda anzitutto che siamo inseriti in un piano di salvezza che Dio realizza nella storia, in un’alleanza con noi, la quale ha preso avvio col patriarca Abramo (nostro padre nella fede), ha acquistato nuova consistenza con Mosè (il liberatore dall’Egitto e il legislatore dal monte), e ha avuto una svolta definitiva in Cristo (il Verbo incarnato). È la grazia di Dio, che ci ha avvicinato a lui e sollevato in un vincolo singolare di amore e comunione.

DALLA COMPASSIONE ALLA MISSIONE!
Matteo 9,36-10,8

Dopo il percorso quaresimale e pasquale e le grandi solennità, ritorniamo al tempo liturgico Ordinario, accompagnati dal vangelo di Matteo. Si tratta di riprendere "l'ordinarietà" della nostra vita cristiana, vissuta nella sequela di Gesù. Il vangelo di oggi ci introduce nel secondo dei cinque grandi discorsi di Gesù nel vangelo di Matteo. Il primo è quello programmatico sul monte delle beatitudini (capitoli 5-7). Dopo aver "parlato", Gesù ha "operato", guarendo "ogni malattia e ogni infermità" (capitoli 8-9). Questo secondo discorso, che occupa il capitolo 10 di Matteo, è chiamato il "discorso della missione".

Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. 

Questo discorso (come il primo, d'altronde!) parte da uno sguardo di Gesù, che gli tocca profondamente il cuore, uno sguardo di compassione. Come vorremmo sentire anche noi questo sguardo di Gesù quando ci sentiamo stanchi, sfiduciati e smarriti! Ma questo stesso sguardo si posa ancora sulle folle sofferenti di oggi, su ogni uomo e ogni donna, su di me e su di te! Perché ne dubitiamo? Per caso, questo sguardo di Gesù è diventato miope? o il suo cuore indurito? Non saremmo noi, forse, come quelle popolazioni dell'Africa occidentale (dove ho fatto missione) che credono sì in un dio supremo, Mawu, ma un dio che si sarebbe allontanato in cielo, per non essere disturbato dagli uomini, e avrebbe affidato la terra ai vodù, che la governano a loro piacimento?! Solo che i nostri vodù si chiamano diversamente: il destino, il caso, l'infortunio, la cattiva sorte, il malocchio... Ah Gesù, incrocia il tuo sguardo con il nostro e guariscilo!

Allora disse ai suoi discepoli: La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! 

La messe è abbondante?! Forse si riferisce al vasto campo da seminare! No, parla proprio di messe da raccogliere, che rischia di perdersi per mancanza di operai! E dove?! Non certamente qui, dove c'è solo zizzania! Ci domandiamo perfino se vale la pena ancora predicare il vangelo in questa società che sembra infischiarsene! Gesù, invece, con il suo sguardo di compassione, vede qui una messe da raccogliere nel suo granaio!

Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!».

Pregare per le vocazioni? questo sì! Ma perché il Padrone si fa tanto pregare? Non vede lui stesso che manchiamo di preti, di suore, di missionari?! E, invece, il Signore ci fa pregare per poter cambiare il nostro sguardo e rendere il nostro cuore simile al suo. Per poi... inviare noi! Eh sì, non pensa tanto ai preti e alle suore, lui pensa a noi. E qui l'affare diventa serio!

Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità.

Ecco che ci chiama e ci prepara, non ci manda allo sbaraglio in questo compito così immane. Si tratta, infatti, di lottare contro "gli spiriti impuri" che attanagliano la nostra società. Sono tanti: la guerra, la fame, l'ingiustizia, lo sfruttamento, il consumismo... Bisogna scacciarli e rimandarli all'inferno! Ma crediamo davvero in questo potere che ci ha dato il Signore, la forza dello stesso Spirito che operava in lui?

Si tratta, inoltre, di guarire "ogni malattia e ogni infermità", fisica e spirituale. Tutte! perché il Signore vuole promuovere l'integrità della vita e la nostra libertà. Ma attenti! noi siamo dei guaritori feriti, non immuni a queste infermità: l'egoismo, l'invidia, l'amore proprio, l'indifferenza, la paura, il dubbio, la violenza... 

I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì.

Sono dodici. Rappresentano le dodici tribù di Israele, tutto il popolo di Dio. Solo uomini? Non è questa una intenzione esclusivista di Gesù. Oggi ne siamo ben certi. È la totalità del numero dodici che importa. Notiamo, in primo luogo, che sono persone molto diverse, con i loro pregi e difetti, non certo "santi e capaci" come voleva Comboni dei suoi missionari. Non so quanti sarebbero adatti per entrare in seminario! Questo per dire che Gesù non cerca persone perfette, ma te e me!
Notiamo, inoltre, che gli apostoli sono nominati due a due. Non si tratta solo di una intenzione mnemonica, ma che non siamo franco-tiratori. Siamo dei testimoni, con una comunità alle spalle. Notiamo, infine, che nella "foto di famiglia" c'è una figura imbarazzante: Giuda. Perché? È un monito: Giuda può rappresentare ciascuno di noi!

Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 

Ai, ai, ai, Gesù ci invia tra i nostri, i vicini, quelli di casa. Preferirei andare in Africa!

Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

Mandati per testimoniare, con il sorriso e la gioia, con la bontà e il perdono, che il Regno dei cieli è vicino! Inviati ad operare prodigi, non quelli strepitosi di Padre Pio, ma i piccoli miracoli quotidiani, gratuiti e spesso inosservati, di gesti di amore capaci di guarire le ferite, di risuscitare la speranza di qualcuno, purificare i lebbrosi nell'anima e scacciare i demòni dai cuori! 
P. Manuel João Pereira Correia, comboniano
Castel d'Azzano (Verona), giugno 2023

Il cristiano anima del mondo

Es 19,2-6; Sl 99; Rm 5,6-11; Mt 9,36-10,8

La parola di Dio di questa domenica ci ricorda anzitutto che siamo inseriti in un piano di salvezza che Dio realizza nella storia, in un’alleanza con noi, la quale ha preso avvio col patriarca Abramo (nostro padre nella fede), ha acquistato nuova consistenza con Mosè (il liberatore dall’Egitto e il legislatore dal monte), e ha avuto una svolta definitiva in Cristo (il Verbo incarnato). È la grazia di Dio, che ci ha avvicinato a lui e sollevato in un vincolo singolare di amore e comunione.

Quest’alleanza è un dono dove risalta la precedenza divina. Cioè Dio sta all’origine della comunità dell’alleanza. Tuttavia è un dono che impegna e che va custodito. Nella sezione del vangelo di Matteo, il ruolo decisivo di Cristo, nella salvezza del mondo, appare quando egli associa alla sua missione messianica il gruppo dei Dodici inviandoli alle “pecore perdute della casa di Israele”.

Ciò che, a prima vista, colpisce in questa lista, è l’eterogeneità del gruppo: pescatori, discepoli del Battista, aderente al movimento anti-romano degli Zeloti (che propugnavano la liberazione della Palestina, anche con la lotta armata), un traditore, ecc. Risulta evidente che non abbiamo una comunità di perfetti o santi; sono uomini presi là dove erano. Questa diversità dei chiamati è segno che nel regno dei cieli c’è posto per tutti, e che il Signore non guarda al passato, ma alle attuali disposizioni del cuore.

Il particolare di Giuda Iscariota “che poi lo tradì” viene sottolineato in tutti i quattro vangeli. Il fatto di non omettere questa vergogna di famiglia, o di essere ricordati in quella compagnia che tradisce il Maestro, è una “memoria” costante di ciò che potrebbero essere anche loro. Cioè, i motivi della scelta non vanno ricercati nelle virtù degli apostoli, ma nella gratuità dell’amore misericordioso di Dio.

Giuda non è certo chiamato per essere traditore, lo diventerà poi. Ognuno rimane con la sua libertà per servire o tradire il Signore. Giuda il traditore non costituisce quindi una parte o missione assegnata in anticipo, ma una possibilità, un modo di rispondere o di non rispondere all’amore gratuito, alla chiamata o all’elezione divina. Non si poteva togliere dalla lista il nome “traditore”, perché Giuda è uno come ognuno di noi.

Quel nome può essere il mio/tuo primo o secondo nome. Siamo nel mondo di fronte alla presenza inquietante del “mistero del male”; presenza che posso/puoi ospitare anch’io/tu. Si tratta di stare vigilanti, nella preghiera, nei confronti del “Giuda” che può crescere silenziosamente dentro di noi, pronto a venire fuori al momento opportuno. Le persone più esposte sono quelle che si stimano tranquille e sono convinte della propria fedeltà osservando le infedeltà altrui.

“Vedendo le folle, ne sentì compassione”. Significativo è questo versetto, poiché ripone nella compassione di Gesù il motivo ispiratore della missione affidata agli apostoli. Nel suo vangelo, Matteo usa cinque volte quest’espressione “avere compassione” (Mt 9, 36; 14, 14; 15, 32;18, 21; 20, 34). Ne mette un accento particolare nell’azione di Gesù. Non si tratta di un vago sentimento o di una sensazione interiore passeggera, ma di un amore-intervento in direzione della miseria dell’umanità. Quindi “avere compassione” significa esercitarla in atto, cioè non limitarsi alle parole, ma produrre segni che il regno di Dio è già una realtà presente, operante, e non più una promessa remota.

Gesù infatti “chiamati a sé i dodici, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità”, segni che il regno di Dio è già presente. Essi sono resi partecipi del potere di Gesù di liberazione e di guarigione. Anche la Chiesa, oggi, ha lo stesso compito dei Dodici, cioè, annunziare il regno di Dio e prendersi cura di quanti nella vita sono in difficoltà. Gesù lo dice con la sua autorità divina e ne indica anche le modalità: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, ossia con la stessa liberalità di Dio, che dona senza attendere contraccambio. Un pastore è quindi inesistente quando non partecipa di queste dinamiche e quando non si caratterizza per la compassione. Un gregge che ha dei pastori che non hanno compreso il primato della persona, della misericordia-compassione e della bontà, è come se non li avesse. E questa immagine del pastore riguarda anche ogni battezzato (associato alla missione di Cristo) nel suo piccolo.

C’è inoltre il comando di “non andare fra i pagani”. Infatti, per gli inizi, occorre rimanere entro i confini di Israele. Cioè, gli eredi della promessa devono rimanere primi destinatari dei segni del regno di Dio. Ma quest’ordine non è definitivo; viene il momento in cui, dopo un rifiuto ostinato, occorrerà spingersi altrove. Di fatto, le porte dei pagani si apriranno ben presto. “Rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele”.

Inviando i Dodici apostoli, Gesù non intende mandarli a passare in rassegna le pecore vicine e fedeli o docili, devono piuttosto avvicinare quelle perdute (più numerose) che non rispondono all’appello. Quindi l’attività più qualificante dell’apostolo o del pastore è la ricerca. Non può preoccuparsi esclusivamente della custodia del gregge, delle pecore “docili”, trascurando la ricerca delle pecore abbandonate o allontanate.
Don Joseph Ndoum