Mi piace pensare allo Spirito che fa diventare tua lingua la Parola di Dio: tua lingua e tua passione e tuo cuore. Ricordo l’impressione – sì, direi l’emozione – che provammo a Gerusalemme, quando una sera vedemmo davanti al Tempio i giovani ebrei danzare abbracciati – così come si abbraccia la creatura amata – abbracciati al rotolo della Torah, della Bibbia. Quasi una sorta di innamoramento.
Le quattro Pentecoste
Giovanni 20,19-23
La Chiesa celebra oggi la grande solennità della Pentecoste, la festa della discesa dello Spirito Santo, cinquanta giorni dopo Pasqua, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli (vedi prima lettura). La Pentecoste, che significa “cinquantesimo giorno”, dal greco, era una festa giudaica, una delle tre feste di pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme: Pasqua, Pentecoste e Festa delle Capanne (la festa autunnale del raccolto). Era una festa agricola, chiamata la “festa della mietitura e dei primi frutti”, e si celebrava il 50° giorno dopo la Pasqua ebraica. È chiamata anche “Festa delle Settimane”, per la sua ricorrenza di sette settimane dopo la Pasqua. Alla festa agricola venne associato il ricordo del dono della Legge o Torah per mezzo di Mosè al monte Sinai.
La Pentecoste cristiana è il compimento e la conclusione del periodo pasquale. È la nostra Pasqua, il passaggio ad una nuova condizione, non più sotto il regime della Legge, ma dello Spirito. È la festa della nascita della Chiesa e l’inizio della Missione.
Le letture della festa in realtà ci presentano quattro venute dello Spirito Santo o quattro modalità, diverse ma complementari, della Sua presenza. Direi che si tratta di quattro “Pentecoste”!
1. La Pentecoste sulla Chiesa
La prima lettura (Atti 2,1-11) ci presenta una venuta dello Spirito dirompente, impetuosa, irresistibile, infuocata: “Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo”. È una venuta che suscita stupore e meraviglia, entusiasmo ed euforia, consolazione e coraggio. È assolutamente gratuita, imprevedibile e mai programmabile. Sono casi eccezionali. Ne troviamo alcuni nel libro degli Atti, ma ci sono stati anche nella storia della Chiesa, non sempre così appariscenti e irruenti, ma sempre di grande fecondità. Infatti, a questa Pentecoste segue sempre una primavera ecclesiale. Dio sa quanto ne abbiamo bisogno, nell’inverno ecclesiale che stiamo attraversando in occidente! Solo la preghiera incessante nel cenacolo della Chiesa, la pazienza umile del seminatore e la docilità allo Spirito possono ottenere una simile grazia!
2. La Pentecoste sul Mondo
L’effusione dello Spirito si estende a tutta creazione. È Lui “che fa vivere e santifica l’universo” (preghiera eucaristica III). È Lui che “porta pollini di primavera nel seno della storia e di tutte le cose” (Ermes Ronchi). Per questo con il Salmista abbiamo invocato la Pentecoste su tutta la terra: “Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra” (Salmo 103). Questa dovrebbe essere una preghiera tipica del cristiano: invocare la Pentecoste sul mondo, sulle dinamiche che reggono la nostra vita sociale, sugli eventi della storia. Tutti si lamentano di “quanto va male il mondo”, degli “spiriti cattivi” che lo animano, ma quanti di noi facciamo “l’epiclesi” (invocazione) dello Spirito perché scenda sulle persone, le situazioni, gli eventi nella nostra quotidianità?
3. La Pentecoste dei Carismi o del Servizio
L’apostolo Paolo nella seconda lettura (1Corinzi 12) richiama la nostra attenzione su un’altra epifania dello Spirito: i carismi. “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito… A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune…. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo…” Oggi parliamo molto di carismi e di condivisione dei servizi ecclesiali, ma c’è un crescente e inquietante disimpegno delle nuove generazioni. Il sacramento della confermazione, la “Pentecoste personale”, che dovrebbe diventare il passaggio ad una partecipazione piena nella vita ecclesiale, è purtroppo il momento della diserzione. Segno evidente che abbiamo fallito l’obiettivo dell’iniziazione cristiana. Cosa fare? La Chiesa dovrà diventare un grande Orecchio e potenziare le sue antenne per percepire la Voce dello Spirito in questo particolare momento storico. Oserei dire che il problema più grave è la mediocrità spirituale delle nostre comunità. Preoccupati di salvaguardare l’ortodossia e il buon ordine della liturgia, abbiamo perso di vista l’essenziale: l’esperienza di fede!
4. La Pentecoste domenicale
La liturgia ci ripropone il vangelo dell’apparizione di Gesù Risorto della sera di Pasqua (Giovanni 20,19-23). Un vangelo tutto pieno di risonanze pasquali:
“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Questo vangelo è chiamato “la piccola Pentecoste” del vangelo di Giovanni perché qui Pasqua e Pentecoste coincidono. Il Risorto offre lo Spirito la sera di Pasqua. Tutto il contesto fa pensare all’adunanza domenicale e all’Eucaristia. È lì che lo Spirito aleggia sulle acque della paura della Morte e porta la pace e la gioia della Vita. Bisogna riscoprire il ruolo preminente dello Spirito. Questo è il Suo tempo. Senza di Lui non possiamo proclamare che “Gesù è Signore” (Corinzi 12,3) né invocare “Abba! Padre!” (Galati 4,6). Non c’è Eucaristia senza l’intervento dello Spirito. Quindi, entriamo nell’Eucaristia supplicando nel nostro cuore: Vieni, vieni, Spirito Santo!
Per concludere, come navighi nel mare della vita: a remi o a vela?
Noi respiriamo lo Spirito Santo. Lo Spirito è il nostro ossigeno. Senza di Lui la vita cristiana è legge e dovere; è un remare continuo, con sforzo e fatica. Con Lui è la gioia di vivere e di amare; è la leggerezza di navigare a gonfie vele. Adesso che, dopo il periodo pasquale, riprendiamo il tempo ordinario, con il tran tran della vita, come ti appresti a navigare: con la forza dei remi o lasciandoti portare dal Vento che soffia sulla vela dispiegata del tuo cuore?
P. Manuel João, comboniano
Castel d’Azzano (Verona) – maggio 2023
Spirito di misericordia,
pace, unità, sanazione e missione
Atti 2,1-11; Salmo 103; 1Corinzi 12,3-7.12-13; Giovanni 20,19-23
Riflessioni
La Pentecoste è una festa di meraviglie! “Li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio” (I lettura, v. 11). La sorpresa scuote la gente di Gerusalemme e gli Apostoli stessi, in quel mattino di Pentecoste. Tanti popoli diversi (sono nominati ben 17 popoli), con lingue differenti, parlano un linguaggio comune: sono tutti sintonizzati nel parlare delle grandi opere di Dio (v. 8-11). Lo Spirito Santo, che è appena disceso sulla comunità riunita nel Cenacolo, è l’autore di questa meraviglia: cioè del superamento di Babele e del passaggio ad una vita di comunione fraterna e di impulso missionario. Infatti, a Babele la confusione delle lingue aveva provocato la dispersione dei popoli che, con atteggiamento orgoglioso ed egoista, volevano costruirsi una città e farsi un nome (Gen 11,1-9); mentre a Gerusalemme, quando lo Spirito scende, popoli diversi riescono a capirsi e a comunicare le grandi opere di Dio. A Babele parlavano tutti la stessa lingua, ma nessuno riusciva a capire l’altro. A Pentecoste parlano lingue diverse, eppure tutti si capiscono come se parlassero un’unica lingua. Nel cuore delle persone, lo Spirito sposta il centro di interesse: ormai non è più la ricerca egoista di sé stessi o di farsi un nome, ma è il vivere in Dio e narrare le sue opere, a beneficio di tutta famiglia umana.
La festa ebraica di Pentecoste era divenuta progressivamente un memoriale delle grandi alleanze di Dio con il suo popolo (con Noè, Abramo, Mosè, Geremia, Ezechiele…). Ora, al culmine della Pentecoste (v. 1) c’è il dono dello Spirito, che ci è dato come definitivo principio di vita nuova: è Spirito di unità, di fede e di amore, nella pluralità di carismi e di culture. S. Paolo (II lettura) attribuisce chiaramente allo Spirito la capacità di rendere la Chiesa unita e molteplice nella pluralità di carismi, ministeri ed attività (v. 4-6). Lo Spirito vuole una Chiesa ricca di doni diversi, ma unita; una Chiesa che non cancella, ma sa valorizzare le differenze. Perché sono una ricchezza! Lo Spirito realizza la convivialità delle differenze: non le annulla e non le omologa, ma le salva, le purifica, le custodisce, le arricchisce, le armonizza. (*) Papa Francesco ci ricorda che la Pentecoste è la festa della nascita della Chiesa; è il “compleanno della Chiesa”.
Lo Spirito Santo è il frutto più grande e più bello della Pasqua, già dall’ultimo respiro di Gesù morente, che segnò l’inizio della vita nuova nello Spirito. In senso pieno, il testo “spirò/emise lo spirito” (Lc 23,46; Gv 19,30) si può tradurre: “consegnò/trasmise lo Spirito (Santo)”, preludio di Pentecoste. Inoltre, nella sua risurrezione Gesù soffia lo Spirito sui discepoli (Vangelo): “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati” (v. 22-23). È lo Spirito di vita e della misericordia di Dio per il perdono dei peccati. E quindi è Spirito di pace: con Dio e con i fratelli. È lo Spirito di unità nella pluralità. È lo Spirito della missione universale, anzi è il protagonista della missione che Gesù affida agli apostoli e ai loro successori (cfr. RMi cap. III; EN 75s.): “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” (v. 21). Sono parole che vincolano per sempre la missione degli apostoli e dei fedeli cristiani con la vita della Trinità: il Figlio è il primo missionario inviato dal Padre a salvare il mondo, con l’amore (Gv 15,9); e lo Spirito impulsa tutta la Chiesa alla missione e nel cammino verso l’unità dei cristiani.
Il soffio di Gesù sugli Apostoli la sera di Pasqua (v. 22), per l’evangelista Giovanni è già la Pentecoste ed evoca la creazione nuova, che è opera dello Spirito: Egli trasforma dal di dentro ogni persona e la apre ad accogliere il dono della salvezza in Cristo. In modo vero, anche se per cammini a noi invisibili, lo Spirito dispone i cuori delle persone, anche dei non cristiani, per il necessario incontro salvifico con Cristo, come insegna il Concilio: “Dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (GS 22; è un testo coraggioso che Giovanni Paolo II cita tre volte nella Redemptoris Missio, n. 6.10.28).
Strettamente legata all’opera creativa e rinnovatrice dello Spirito è anche la Sua capacità di sanare e guarire l’anima e il corpo delle persone. Si tratta di un’energia reale ed efficace, verso la quale esiste una particolare sensibilità nel mondo missionario, anche se spesso difficile da discernere. L’azione risanatrice raggiunge a volte anche il corpo, ma molto più spesso tocca lo spirito umano, sanandone le ferite interiori ed effondendo il balsamo della riconciliazione, della consolazione e della pace. La Chiesa ha davanti a sé campi sempre nuovi per la sua attività missionaria ed è chiamata a lavorarvi con crescente slancio e creatività. Fiduciosa nell’azione dello Spirito!
Parola del Papa
(*) “Lo Spirito Santo, mentre realizza la diversità di grazie e di ministeri, è principio dell’unità della Chiesa… Solo lo Spirito Santo può suscitare la diversità, la molteplicità e, nello stesso tempo, operare l’unità… È Lui che armonizza la Chiesa, perché, come dice san Basilio il Grande, «Lui stesso è l’armonia»... L’unità non è principalmente il risultato della nostra azione, ma è dono dello Spirito Santo. Essa tuttavia non verrà come un miracolo alla fine: l’unità viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino… Invochiamo dunque fiduciosi lo Spirito, perché guidi i nostri passi e ognuno senta con rinnovato vigore l’appello a lavorare per la causa ecumenica; Egli ispiri nuovi gesti profetici e rafforzi la carità fraterna tra tutti i discepoli di Cristo, «perché il mondo creda» (Gv 17,21) e si moltiplichi la lode al Padre che è nei Cieli”.
Papa Francesco
Lettera nel 25° dell’enciclica Ut Unum Sint, 24 maggio 2020
P. Romeo Ballan, MCCJ
Il Vangelo di Giovanni racconta che «mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù» (Gv 20, 19). I discepoli dopo la risurrezione del Signore sono colmi di inquietudine e incertezza, e qui c’è una certa somiglianza con lo stato d’animo che stiamo vivendo un po’ tutti in questa fase della pandemia. La presenza di Gesù Eucaristia è tornata a essere tangibile, è possibile partecipare alla messa e confessarsi, però respiriamo insicurezza e siamo logorati da una certa ansia sottintesa, che si protrae da molte settimane e non accenna a finire.
La Chiesa è nata in un clima tutt’altro che sereno e pacifico, e si è fondata su persone che non avevano un programma chiaro di quello che avrebbero dovuto fare, e neppure si sentivano tanto adeguate. L’ultima raccomandazione di Gesù era stata proprio un invito a non pretendere di avere tutto sotto controllo: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere». Ma la raccomandazione non sarebbe stata sufficiente senza la promessa che la completava: «Ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1, 7-8).
Il racconto del Vangelo prosegue dicendo che Gesù «soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”» (Gv 20, 22-23). Per prima cosa lo Spirito Santo rende gli apostoli capaci di perdonare, cioè di fare quello che solo Gesù ha insegnato a fare, dando l’esempio. In una lettera all’amico Tolkien, dopo un litigio, Lewis afferma che perdonare equivale a questo: «Se un uomo mi ha rubato qualcosa, io davanti a Dio affermo che gliel’ho regalato». Pur con le loro inadeguatezze, gli apostoli fin dall’inizio hanno fondato la loro azione sul perdono ricevuto da Gesù e donato tra di loro.
La seconda conseguenza della venuta dello Spirito Santo è che gli apostoli superano la paura di uscire dalle porte chiuse delle loro incertezze. Nella Pentecoste conservata alla National Gallery di Londra, Giotto fotografa l’istante nel quale i Dodici ricevono la luce e il fuoco dello Spirito, che si vede nei loro sguardi che si risvegliano, mentre la stanza dove sono rinchiusi sembra divenuta troppo piccola e le porte stanno per spalancarsi, come intuiscono i due passanti che stanno origliando.
Il mondo non è un luogo rassicurante, non lo è stato per gli Apostoli e spesso non lo è per noi che usciamo per strada bardati con guanti e mascherine. Lo Spirito Santo però viene per renderci capaci di vincere le nostre paure e percorrere proprio le strade di questo nostro mondo del 2020, «fino ai confini della terra» (At 1, 8). Con il coraggio e la forza della comprensione, andando incontro agli altri fin lì dove ci hanno ferito, regalando loro il perdono anche se non se lo meritano, come Dio fa ogni giorno con ognuno di noi.
La Chiesa e il mondo hanno bisogno, oggi come agli inizi, di apostoli che si aprono veramente agli altri, a tutti, per costruire insieme. Cristiani capaci di andare d’accordo, perché non prendono troppo sul serio i propri punti di vista personali in tante materie opinabili. La dottrina è senz’altro fondamentale, come lo era agli inizi della Chiesa. «Dove però si danno delle lacerazioni, dove si alimenta amarezza, invidia, ostilità, lì non c’è Spirito Santo. Una conoscenza priva d’amore non viene da lui», insegna Ratzinger, che individua un segnale che forse non ci aspetteremmo per discernere la presenza dello Spirito: «Dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo».
La capacità di perdonare, coraggio, gioia unita a una certa sana leggerezza apostolica sono caratteristiche degli “evangelizzatori con Spirito” di cui parla Papa Francesco: «Andiamo avanti, mettiamocela tutta, ma lasciamo che sia Lui a rendere fecondi i nostri sforzi, come pare a Lui».
di Carlo De Marchi
L'Osservatore Romano
Un alito di vita
Gv 20, 19-23
Ricevete lo Spirito Santo…
Più ancora che le porte del cenacolo, quella sera, chiuso era il cuore degli Undici, barricato dentro le proprie convinzioni e riserve, paralizzato dalle proprie paure. Le tenebre della sera che incombeva erano figura di ben altre tenebre, di quelle dell’incapacità di credere alla risurrezione del Maestro. La chiusura era stata la reazione dei discepoli all’annuncio recato loro da Maria di Magdala di aver visto il Signore. Tra gli Undici c’erano anche Pietro e il discepolo che Gesù amava, i quali avevano toccato con mano che quella mattina era davvero accaduto qualcosa. Ma nulla. C’era qualcosa cui essi attribuivano un potere superiore a quello del Signore: per timore dei Giudei… Ripenso a tutte quelle situazioni cui io attribuisco un potere paralizzante di fronte al quale finisco per concludere: neanche Dio può farci più nulla.
Eppure, Dio non si rassegna. Dio non pronuncia mai l’espressione che sovente affiora sulle nostre labbra quando con disincanto e disarmati ripetiamo: non c’è più nulla da fare. Dio non lo fa mai. Dio ripete sempre: ricevete lo Spirito Santo! Dalla parte della vita, fino alla fine, anche quando tutto sembra portare i segni evidenti del fallimento manifesto. Smettetela – dice Dio – di continuare a voler sistemare un passato attraverso l’unico mestiere che a volte finisce per assorbirvi: quello di riempire di fiori la morte. Oh, se siamo esperti di questo mestiere mentre dobbiamo riconoscerci analfabeti dello stile di Dio!
Ricevete lo Spirito Santo…
Come non pensare all’antico profeta Ezechiele che guardando la situazione del suo popolo che si era allontanato dal Signore lo paragonava a una sterminata distesa di ossa di fronte alle quali si sente ripetere: potranno queste ossa rivivere?
Immagino il Signore che guarda la mia vita e rivolge a me questa parola: padre Antonio, potranno queste ossa rivivere? E il riferimento non è anzitutto a qualcosa di esterno a me: il riferimento è alla mia, alla nostra situazione interiore di fronte alla quale con disincanto verrebbe da concludere che per virtù propria non potranno rivivere. Poi certo, il riferimento è a questa stagione ecclesiale nella quale prevale lo scoramento e la fatica propri di quelle stagioni in cui sembra mancare il respiro.
Cosa può significare celebrare ancora la Pentecoste se non sentirsi ripetere che non è ancora la fine e Dio non cessa di riversare il suo Spirito e non già perché finalmente la situazione sia ideale ma, forse, proprio perché essa sembra allo sbando?
Quella sera il Signore si rese presente – venne Gesù, stette in mezzo a loro – in mezzo a una comunità che conosceva bene fragilità e paure. A loro consegnò il dono della pace che nulla a che vedere con una esistenza al riparo da lotte e tensioni, nulla da spartire col nostro bisogno di starcene in pace. La pace donata dal Risorto, infatti, è quella capacità di riconoscere che se la paura e la fragilità sono evidenti, ben più grande è la fiducia in colui che vince il male grazie a una misericordia insperata.
Non è forse questo il compito della comunità cristiana inviata per essere segno di nuovi inizi, di possibili germogli nella misura in cui si lascia condurre dallo Spirito Santo e non già da logiche strategiche che nulla hanno da spartire con il Vangelo?
Un’altra storia è possibile, dice Dio, ma occorre tanta audacia da parte nostra per farla nascere.
Ricevete lo Spirito Santo…
Al termine di questo unico grande giorno di Pasqua iniziato con una luce nella notte del male e della morte, il cero pasquale verrà spento e collocato accanto al fonte battesimale. Ma la sua luce continuerà ad ardere grazie alla nostra disponibilità a perdonare: a chi rimetterete i peccati… Il riferimento non è soltanto a una prassi sacramentale ma ad uno stile relazionale.
Perdonare è donare attraverso le ferite ricevute, è fare del male subìto l’occasione di un gesto di amore. Se tu non perdoni, l’altro non potrà cambiare.
Il nostro perdono il segno che il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita.
Don Antonio Savone
http://acasadicornelio.wordpress.com/
Lo Spirito Santo guida il cristiano
a scoprire il senso della vita
At 2,1-11; Salmo 103; 1Cor 12,3b-7.12-13; Giovanni 20,19-23
La beata Pentecoste ci ricorda tre eventi principali: l’effusione dello Spirito Santo su Maria e gli Apostoli nel cenacolo, la prima predicazione del vangelo in Gerusalemme e il formarsi della prima comunità cristiana o la nascita della Chiesa. Il protagonista (nascosto) di tutte queste Vicende è lo Spirito Santo.
Il nome Pentecoste deriva dal fatto che questa festa veniva celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua. Essa coincideva nell’Antico Testamento con la festa della mietitura, giorno di rendimento di grazie durante il quale erano offerte a Dio le primizie dei prodotti della terra. Era inoltre occasione per un pellegrinaggio alla città santa, eco o/e coronamento del pellegrinaggio pasquale, commemorazione annuale dell’alleanza, quando nel Sinai venne data la legge totale.
Invece, la festa cristiana commemora la Pentecoste che seguì alla morte di Gesù; essa fu segnata dal dono dello Spirito Santo che inaugurò una nuova creazione e il tempo della Chiesa. La Pentecoste segna dunque il culmine dell’opera divina di salvezza e la vocazione della nuova comunità del Risorto all’ universalismo. È la pienezza della Pasqua o il mistero pasquale totale.
La coincidenza di data con la festa giudaica indica che la figura ha cessato il suo compito, che perché si è entrata nelle realtà, quella della nuova Alleanza.
La Pentecoste non è quindi la festa dello Spirito Santo, intesso come persona divina in se stessa, ma è celebrazione di un avvenimento salvifico, cioè uno di quegli interventi di Dio che nella realizzazione del piano della salvezza decidono in modo unico e definitivo della sorte del mondo. Questo evento consiste principalmente nel dono dello Spirito: "L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è donato" (Rm5, 5).
I Padri della Chiesa hanno paragonato questo “battesimo nello Spirito Santo”, che segna l’investitura apostolica della Chiesa, al battesimo di Gesù, il quale segnò l’inizio del suo ministero pubblico.
Il fatto che la gente di diversa lingua comprenda la lingua nella quale parlano gli Apostoli dice che prima comunità messianica si estenderà a tutti i popoli. La divisione operata a Babele (Gn 11,1-9) trova ormai la sua antitesi e il suo termine positivo. Il miracolo della confusione e dispersione.
Nella Pentecoste cristiana, il dono dello Spirito Santo prende il posto della Legge. Si realizza così il sogno dei profeti che annunciavano l’alleanza fondata sul dono interiore dello Spirito di Dio a tutti (Ez.36, 27).
Insomma, la Pentecoste è la celebrazione di quello dono insuperabile fattoci dal Risorto. Lo Spirito, che è presenza di Dio in noi, riversa su di noi i suoi doni, che ci rendono attenti alle ispirazioni divine e ci orientano al bene.
Quando ci vengono pensieri buoni, è lo Spirito che ci visita. Evidentemente, tutti quanti che invocano e sono guidati dallo Spirito hanno sempre idee e hanno, acceso in loro, il fuoco dell’amore vero ed autentico (l’agapè). E veramente, se facciamo spazio allo Spirito, Egli interviene sempre con efficacia nella nostra vita.
Manda, Signore, il tuo Spirito, perché rinnovi la faccia della terra.
Don Joseph Ndoum
La piccola Pentecoste
Omelia di don Angelo
Ancora questo gioco: avviene nell’ottavo giorno, come suggerisce il Vangelo di Giovanni, o il giorno di Pentecoste, come suggerisce il libro degli Atti, il dono dello Spirito. Forse è impoverire lo Spirito Santo questa pretesa di imbrigliarlo in un’unica manifestazione. Ed è anche bello pensare che l’avevano ricevuto la sera di Pasqua e ancora l’attendevano: e non è una finta, un far finta, è un anelito vero: vieni, Santo Spirito!
E vorrei partire in questa riflessione proprio dalla Pentecoste piccola, quella senza clamore, quella che avviene la sera di Pasqua, al calare delle ombre, mentre chiuse erano le porte: “Alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati saranno rimessi….”. Uno Spirito – voi mi capite – per essere liberi interiormente, liberi da ciò che ci rinchiude dentro, il peccato. Vedete, la libertà – quella interiore – è grande dono, forse dono ancor più grande della libertà esteriore.
I rabbini si chiedono perché Dio non avesse dato la Torah – la legge – a Israele immediatamente dopo l’esodo dall’Egitto, ma molto dopo sul Sinai. E rispondevano che era più facile per Dio far uscire Israele dall’Egitto che far uscire l’Egitto da Israele.
Come è vero! Quanto è più difficile recuperare la libertà dentro, quant’è più difficile disintossicarci dentro, quant’è più difficile espellere i faraoni che ci comandano dentro.
Manda, Signore, il tuo Spirito a renderci liberi dentro. E ci faccia sempre più convinti che ciò che conta è come siamo dentro. Ci aiuti a sfuggire all’inganno di una società che privilegia l’immagine, la maschera.
Il tuo è uno Spirito d’interiorità
I nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre passioni, le nostre scelte siano nella rettitudine e nella libertà.
A questo riguardo è suggestivo pensare che ai tempi di Gesù la festa ebraica di Pentecoste era la festa della Rivelazione, la festa del dono della Legge sul Sinai. Nel racconto della Pentecoste cristiana molti di voi avranno notato alcune significative assonanze: il vento, il fuoco, il miracolo delle lingue. Secondo un noto midrash sul monte Sinai ogni parola uscita dalla bocca di Dio si divise in settanta lingue, così che ogni popolo sentiva i precetti divini nella propria lingua.
Mi piace pensare allo Spirito che fa diventare tua lingua la Parola di Dio: tua lingua e tua passione e tuo cuore. Ricordo l’impressione – sì, direi l’emozione – che provammo a Gerusalemme, quando una sera vedemmo davanti al Tempio i giovani ebrei danzare abbracciati – così come si abbraccia la creatura amata – abbracciati al rotolo della Torah, della Bibbia. Quasi una sorta di innamoramento.
Manda, o Signore, il tuo Spirito.
Ci liberi dal gelo di una religione ridotta a un elenco di definizioni da credere, o a un prontuario di norme da osservare.
Ci faccia parlare con te, seguire te, pensare a te con il cuore di chi ama.
Lo Spirito di Gesù ci fa – lo dicevamo – uomini e donne dell’interiorità ma non certo uomini e donne dell’intimismo. La Pentecoste è anche festa di uno Spirito che ci scuote, che apre le porte, che conduce sulle piazze, fuori dai nostri recinti protetti, nel rischio della vita, nella imprevedibilità della vita.
“La fede non è un fatto crepuscolare, umbratile, da vivere solo nella penombra delle chiese. La fede è un fuoco. La fede la si gioca allo scoperto, nella città, nelle piazze, nella vita di tutti i giorni” (L. Pozzoli).
Ma – vorrei aggiungere – non alla maniera dei ciarlatani: lo Spirito è anche pudore, è discrezione, è ascolto, è trasalimento per la voce misteriosa, per i segni improvvisi che solo chi è abitato dallo Spirito – quello vero! – sa sorprendere.
Non abbiamo – no, non abbiamo conosciuto lo Spirito, il vero Spirito di Dio, se come cristiani diamo l’impressione di essere “impegnati” a lottare e a vincere più che a comprendere e a contemplare.
Vieni, Santo Spirito tu che sei vento impetuoso ma anche brezza leggera,
tu fierezza ma anche dolcezza,
tu rigore ma anche amabilità,
tu assolutezza della verità ma anche tenerezza della misericordia.
Omelia di don Angelo
http://www.sullasoglia.it
PENTECOSTE
Giovanni 20,19-23
Lectio
19 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”.
È indicato il giorno “tē hēméra ekéinē”=quel giorno (della Resurrezione) nel quale inizia la nuova creazione, =tē mia sabbátōn=il primo della settimana. Il luogo non viene precisato. L’annuncio che Gesù è risuscitato non toglie i discepoli dalla paura per la loro incolumità in quanto anch’essi sono ricercati (nell’interrogatorio il sommo sacerdote interrogò Gesù riguardo i suoi discepoli, 18,19). Non è sufficiente sapere che Gesù è risuscitato, ma occorre sperimentarlo presente. Gesù si presenta ponendosi al centro (stette in mezzo) della comunità. Questa dell’evangelista è una indicazione teologica: la comunità cristiana è centrata unicamente in Gesù, unico punto di riferimento e fattore di unità.
Viene sottolineato il contrasto tra il timore dei discepoli e la pace che Gesù comunica loro. Perché questa comunicazione di pace diventi effettiva deve essere accompagnata da gesti che la concretizzino.
20 Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
La pace di Gesù scaturisce dai segni del suo amore per i discepoli. Quell’amore che ha fatto sì che lui si consegnasse dando la vita per i suoi rimane impresso per sempre nella sua carne. Si realizza quanto Gesù aveva loro promesso: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia”(16,22). Il timore per i Giudei lascia il posto alla gioia per il Signore. Se avevano paura della morte che potevano infliggere le autorità, ora sperimentando Gesù resuscitato, sanno che nessuno può togliere la vita all’uomo.
21 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”.
L’incarico ricevuto dai discepoli è quello di prolungare la missione di Gesù per essere manifestazione visibile dell’amore del Padre; per questo Gesù comunica loro la sua stessa capacità di amare.
22 Detto questo soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo.
Il verbo “soffiò”= enephiúsēsen da =emphiusáō è lo stesso usato dall’autore del Libro della Genesi nel racconto della creazione del primo uomo: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7 LXX). Gesù aveva detto: “è lo Spirito che dà la vita… le parole che io vi ho detto sono Spirito e sono vita” (6,63). Questa, per Giovanni evangelista, è la Pentecoste di At 2,1.
La pienezza di vita che Gesù risuscitato possiede viene trasmessa ai suoi. Il dono dello Spirito effettua come una nuova creazione. Questo soffio è lo spirito vitale che permette all’uomo di diventare un essere vivente (Sap 15,11), dotato di un principio di vita che è la partecipazione alla vita stessa di Dio e che ogni creatura deve accogliere sempre di più nella propria vita! L’uomo da corpo animale/materiale (essere animale) è diventato corpo spirituale (essere spirituale) [cfr. 1Cor 15,44], cioè se prima faceva conto principalmente sulla sua umanità ora può far conto sullo stesso Spirito di Gesù. La forza dello Spirito è contenuta nel messaggio, per questo Gesù comunica lo Spirito al momento di inviare gli apostoli a trasmettere agli uomini le parole ricevute dal Padre. Gli uomini devono prendere coscienza sempre di più di questa Presenza per giungere alla pienezza di vita, quella della nuova e definitiva creazione, portata a termine in Gesù.
23 A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Questo incarico di Gesù non riguarda solo alcuni della comunità, ma è rivolto a tutti. Compito della comunità è prolungare l’attività di Gesù. Come Gesù non è venuto per giudicare ma per salvare: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.” (3,17); e “Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo.”(12,47) così compito della comunità non è giudicare gli uomini ma offrire loro una proposta di vita che li conduca alla pienezza. Non si tratta di una “potestà” ma di una “capacità/responsabilità” che si misura dalla sintonia con Gesù per mezzo dello Spirito. Affinché questo sia chiaro l’evangelista fa un attento uso dei termini: non adopera il verbo perdonare (siunghighnōskein) ma condonare/liberare (aphéōntai da aphíēmi), e si riferisce ai peccati e non alle colpe/mancanze degli uomini. [Il termine greco hamartía=peccato riguarda generalmente il passato dell’individuo (cfr. Rm 7,14.17.20.23.25; 1Cor 15,17; Mt 1,21) e non il suo presente e si riferisce a una situazione di ingiustizia (e non ad una colpa occasionale) nella quale l’individuo si trova volontariamente o perché non ha mai conosciuto un’alternativa.
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